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 1911  ottobre 05 Giovedì calendario

Lo sbarco a Tripoli

L’avvenimento sospirato, con le più ardenti e pure forze dell’anima, si è compiuto. Oggi, i marinai italiani sono sbarcati sulle terre di Tripoli. E in questo momento sul Castello del Valì, e sulla batteria Sultania, e sul fortino B sventola, sotto la luna crescente, la bandiera d’Italia.
Abbiamo incrociato tutta la notte nelle acque, a nord-est di Tripoli. All’alba eravamo davanti alla rada, pronti a compire la missione annunciata dal radiotelegramma dell’ammiraglio Faravelli. Invece troviamo un contr’ordine: «Va in Porto, a far saltare la Santa Barbara dell’Hamidiè la Carlo Alberto, invece che la Varese». Noi appoggeremo coi cannoni la sua azione. Un movimento di amarezza si propaga sulla nave, subito sormontato da un senso virile di disciplina e di rinuncia. Si grida:
«Tutti al posto di combattimento.»
Gli uomini corrono ai pezzi e alle batterie. La Carlo Alberto alla fonda, davanti all’apertura della rada, leva l’ancora, e si prepara ad entrare.
Ma la fortuna oggi ci assiste. Il contr’ordine è contrordinato alla sua volta. La Carlo Alberto è fermata, e in Porto entriamo noi.
È una mattinata dolce e serena; il mare è mosso leggermente da una brezza di terra, il cielo è pallido, trasparente, senza una nube; Tripoli ci è vicina, come non ci fu mai in questa settimana di vigilia. La riconosci in tutti gli sbocchi di strada, in tutti gli angoli. Tutte le bandiere straniere sventolano; ma oggi mancano i vessilli della Mezzaluna. Le porte sono tutte chiuse; ma ci sono arabi ed europei in giro per le vie. Alcune terrazze e alcune gradinate di moschea sono piene di gente. Le fortificazioni del molo devono essere state abbandonate definitivamente dai Turchi, perché gli spalti sono popolati da curiosi. Col cannocchiale ho riconosciuto un impiegato del cavo sottomarino, che fa tranquillamente fotografie della squadra. Pochi minuti fa avevamo l’ordine cannoneggiare queste opere; è tragico vedere a quale filo sia sospeso il destino degli uomini!
Le navi sono distribuite nelle loro tre Divisioni: solo la Carlo Alberto è lontana dalla Brin e dall’Emanuele Filiberto, e resta ad aspettare presso le scogliere; la Garibaldi e la Ferruccio stanno presso di noi, all’imboccatura del Porto; la Re Umberto, la Sicilia, e la Sardegna, si sono avvicinate alla costa, davanti alla batteria Sultania, fino dove i fondali permettevano, e si sono allineate in fila di combattimento. Apprendo che la occupazione del forte Sultania è stata decisa ed affidata alle compagnie di sbarco della divisione Re Umberto.
Le operazioni incominciano immediatamente; ma noi dalla Varese non le possiamo seguire, perché siamo lontani, e presto l’estremità della fortezza del Molo ce le nasconde. Entriamo in rada con una velocità minima, piena di cautela.
L’entrata del Porto di Tripoli, per una nave che peschi otto metri di profondità, come la Varese, è piena di insidie e di difficoltà. I bassi fondi stringono da ogni parte l’angusto Canale navigabile. Di più, pare che siano ancora affondate, nel punto più stretto, le mine subacquee e le torpedini collocate dai Turchi nel 1890. Superiamo il pericolo, e ci mettiamo alla fonda nel porto, al punto preciso indicato al comandante dall’ammiraglio.
Oggi è la beneficiata della Varese; il comandante, radioso di gioia, comunica allo Stato Maggiore della nave la missione ricevuta: si tratta di far saltare i depositi di munizioni scoperti ieri dal capitano Verri e dal tenente di vascello Mercalli, nei remparts del forte Hamidiè; di spingersi fino al Derna, salirvi a bordo e constatare le cause dell’affondamento: e finalmente di preparare la compagnia da sbarco, perché possa scendere a terra nel pomeriggio. Sono scelti dall’ammiraglio e dal comandante, il tenente di vascello Piotti, insieme col tenente di vascello Mercalli, e della Garibaldi, e la guardiamarina Mancuso, per la spedizione dell’Hamidiè; il tenente di vascello Di Palma, per la visita al Derna; e il tenente di vascello Morando, con la guardiamarina Coop, per il comando della compagnia di sbarco. Alcuni esclusi avvicinano il comandante e gli domandano, timidamente, con ardente invocazione negli occhi, se non c’è un posticino anche per loro. Il comandante Zavaglia, un marinaio pieno di valore e di bontà, si studia di rispondere seccamente, che i posti sono tutti affidati agli ufficiali anziani; e i poveri ricusati si ritirano, salutando militarmente, con una espressione incomprimibile e adorabile di disinganno e di malinconia sul volto.
Alle 11 si apprestano le lance per la missione Viotti e Mercalli, e per la missione Di Palma. La piccola compagnia di specialisti minatori, che deve andare alla batteria Hamidiè, è già pronta sopra coperta, con tutti gli ordigni della distruzione. In queste navi tutto è organizzato alla perfezione. In pochi minuti, uomini e strumenti sono preparati ad agire. I tenenti di vascello Viotti e Mercalli hanno la divisa bianca, ma si sono strette le gambe nelle molletières; i minatori hanno la loro divisa bleu, di fatica. Alla spedizione si aggiungono alcuni marinai con la baionetta per far la guardia, quando gli altri scenderanno nella Santa Barbara.
Ufficiali e uomini scendono nella lancia, fra grandi saluti dalla nave. Poco dopo parte il tenente di vascello Di Palma, verso il Derna. Mentre le due imbarcazioni filavano veloci, sotto le dodici robuste doghe, alla loro meta, la Varese spara due colpi a destra e a sinistra della fortezza, per allontanare nemici e curiosi. Siamo a poco più di mille metri dalla batteria. Ne fissiamo, sbalorditi l’irreparabile strazio.
Il paesaggio è verde e sorridente di una riposante bellezza. I palmizi sollevano da ogni parte i fusti sottili gli ampi ventagli ricadenti. Una casina gialla, con le fitte grate di legno, proprie delle abitazioni turche, guarda in un giardino tripudiante di verdura, e par tutta stupita di essere ancora in piedi, dopo l’inferno dei due giorni precedenti. Più addentro, fra una macchia di ulivi, un, marabuto grande, con la cupola candida, depressa, sembra che sollevi la testa, per spiare verso il mare se le navi degli infedeli abbiano finito di vomitare fuoco e veleno contro le tombe dei Santi. Il Sepolcreto dei Caramanli presenta il fianco forato dalla tremenda cannonata della Garibaldi, come ad invocare misericordia.
La lancia giunge a terra; gli ufficiali e i marinai sbarcano, e si avviano in fila al forte; ne scavalcano il primo rempart, corrono per le trincee, al centro, scompaiono dietro gli spalti. I marinai, armati di baionette, restano in piedi, sui punti più alti; e anche così piccoli, per la distanza, rivelano nettissimamente l’attitudine di chi concentra tutti i suoi sensi per scoprire la imboscata. I seicento uomini che sono sulla Varese non possono strappare gli occhi dal forte: il nostro cuore è coi nostri prodi compagni.
I minuti che dura la loro assenza sembrano infiniti. Nel forte non c’è nessuno, e nessuno si avvicina perché le sentinelle non sparano. I marabuti sembrano deserti… Solo nella strada che corre sul ciglio della falaise, assai lontano dalla batteria, c’è qualche dozzina d’arabi che corrono su e giù come impazziti. Finalmente ecco sbucare fuori dal bastione interno le divise bianche e turchine scavalcano le muraglie di terra con maggior riguardo; e, quando sono fuori del forte, camminano a passo normale. Hanno da deporre a terra il filo elettrico che scaglierà nella polveriera, al momento buono, la scintilla della distruzione. Il filo è lungo cinquecento metri almeno, e porta i nostri uomini fin sull’orlo della costa. Vediamo il gruppo stringersi, chiudersi intorno a qualche piccola cosa invisibile posta ai loro piedi: è la dinamo minuscola che viene sollecitata perché mandi al forte la scintilla dello scoppio. La dinamite obbedisce: l’onda elettrica corre per il lungo filo; passa i bastioni; scende nelle polveriere; infiamma il fulmicotone, le polveri, le granate del centro del forte...
Balza dritta verso il cielo una colonna veemente di fumo, tre, quattro colonne oblique irrompono da tutti i lati: un colpo di tuono, sbigottente, senza rimbombo, senza luce, che fa tremare la nave, si scatena da quella fumea che cresce, si allarga a dimensioni inaudite, come se si fosse aperto sotto il forte un vulcano... Una gragnuola di sassi e di rottami piomba dal cielo in mare. La colonna verticale dà la scalata allo Zenith con una violenza che sembra non debba più esaurirsi... I globi densi gialli come sabbie del deserto, nascono l’uno dall’altro infrangendosi senza posa in tutte le direzioni.
Dopo qualche secondo il sipario di fumo è alto cinquecento metri e largo mille, e così spesso che oscura il sole. Il vento lo prende e lo trasporta lentamente verso la città.
Cerchiamo angosciosamente in quel tenebrore i nostri compagni... Non li vediamo più... Il velo di fumo è sceso fino al mare ed ha nascosto anche la lancia che aspettava a 950 metri dalla riva.
Traversiamo qualche minuto di tensione tragica: quel fumo impenetrabile – non ce lo vogliamo confessare – ma ci sembra il sudario dei nostri eroi... Quando invece il vento ha diradato le nuvole enormi, li vediamo sulla costa che agitano i berretti e alzano un grido vittoria che giunge fino a noi. Sono salvi tutti!
Mentre il vento sospinge la nebbia scura e fantastica su Tripoli, disperdendola a poco a poco fino a ridurla ad un giallore sulfureo diffuso – grande come il cielo di ponente, funebre come l’alone che accompagna il Ghibli – i nostri uomini risalgono al forte per constatare l’effetto dell’esplosione.
Sono effetti incredibili! L’asta della bandiera, che va resistito a due giorni di cannoneggiamento, è schiantata a metà e gettata lontano. I cannoni da 240, che giacevano immersi nella sabbia del balicardo, volgendo a noi la bocca, hanno fatto un completo fianco destro e ci si presentano in tutta la loro lunghezza. Le palme, per un raggio di cinquecento metri, sono avvizzite, scontorte, arse, come se fossero state afferrate dalle fiamme.
Aspettiamo che Viotti e Mercalli, coi marinai, ritornino. Ma essi indugiano; si ordina coi segnali di venir via; essi rispondono che vi sono ancora due depositi da far saltare.
L’opera ricomincia. Quando le spolette sono a posto nelle polveri, il gruppo esce sugli spalti, posando a terra il filo. Questa volta essi non vengono verso la costa, ma si dirigono verso l’interno, nei Giardini. Lo scoppio è più terribile: la vampata di fumo più colossale ancora. La nube smisurata ripete la pioggia di prima verso la città. La piccola compagnia sbuca dal nebbione... Si ferma qualche minuto nel forte, poi si dirige alla costa. Scende la falaise e si imbarca...
Salgono sulla nave, sudati, laceri, sporchi di fumo e di polvere, con le mani ingombre di frammenti di granata, di pezzi di grossa mitraglia. Li accogliamo con «evviva» entusiasti. Il tenente di vascello Viotti riferisce brevemente al comandante l’esito della missione: «I depositi sono saltati; nessuno fu ferito». Dopo la prima esplosione Viotti corse pericolo di asfissia. Per il secondo scoppio la spedizione si trasportò nell’interno, per mettersi sotto il vento, e non si ebbero a soffrire altri incidenti. Fu sparato un solo colpo contro una persona, che sembrava avvicinarsi, in atteggiamento sospetto... I cadaveri veduti ieri dal tenente di vascello Mercalli, non furono veduti più: furono asportati nella notte. Di resti umani si scoprì una sola mano, strappata dal braccio, sopra il polso. Il secondo scoppio fu così violento, che un cannone da 75 fu sbalzato dalla batteria a 150 metri di distanza.
L’ammiraglio Thaon di Revel, venuto in lancia a vapore, sotto la Varese, elogiò vivamente i tenenti di vascello Viotti e Mercalli e i marinai, che presero parte alla spedizione.
Anche la missione Di Palma ebbe pieno successo. Ritornato dopo un’ora, il tenente di vascello riferì che il Derna è in perfetto stato. Fu affondato dall’equipaggio,all’ultimo momento, con l’apertura delle prese d’acqua Kiusstonn. La nave fu abbandonata per decisione improvvisa, perché il tenente di vascello che salì a bordo, notò sulla tavola, nella sala da pranzo, i resti di un pasto interrotto. Le macchine sono intatte; il piroscafo è facilmente recuperabile, e fornirà buona preda.
Mentre gli ufficiali mandati in missione riferiscono i loro brillanti successi, gli uomini che la Varese darà alle compagnie di sbarco si preparano a partire; anche qui la organizzazione è perfetta. Armi, munizioni, viveri, uose, coperte, zaini, tutto è pronto sopra coperta, contato, distribuito: nulla manca a nessuno: ciascuno si arma con calma si dispone in fila, ai comandi del tenente di vascello Morando e della guardiamarina Coop, tranquillo come se si trattasse di una manovra. I marinai sono tutti felici di sbarcare e di battersi. Vi è, fra gli altri, un piemontese, di Canelli, il caporale Gentile, che dicono il migliore marinaio della Varese: ha le medaglie di Africa e di Cina, e pensa già a far posto quella della Tripolitania; è un gigante asciutto, bruciato dal sole, di una forza e di un coraggio incomparabili; infila le cartucce della Mauser nella bandoliera lentamente, sorridendo, come se assaporasse una voluttà. La compagnia porta in due carri tutto quello che le può occorrere in viveri e munizioni per sette giorni, ogni cosa ben distribuita in scatole numerate. Era pronto anche un pezzo di artiglieria, col suo affusto e le sue ruote: all’ultimo momento l’ammiraglio dispose perché fosse sbarcata, invece del cannone, una mitragliera.
Alle quattro e mezza i nostri marinai si calarono in tre grandi lance, partirono a forza di remi verso la spiaggia, accompagnati da un gran saluto commovente fatto alla voce dall’equipaggio di tutte le navi sparse per il mare.
Altre lance usuali, riempite di uomini bianchi, a remi o a rimorchio, dietro una torpediniera, imboccavano l’apertura del porto e si dirigevano alla spiaggia. Alle 5 gli uomini su cui l’ammiraglio Faravelli contava erano a terra, divisi in due parti pressoché uguali, fra il forte Sultania e la città. Sul forte Sultania e sul fortino B la bandiera d’Italia saliva nella mattinata, fra le salve di 21 colpi delle navi non impegnate in qualche missione come la nostra. Noi non vedemmo salire nel cielo di Tripoli la prima nostra conquista, perché il forte del molo ci intercettava la vista; ma sentimmo le salve, e ci scoprimmo tutti, penetrati da un senso prima mai conosciuto, di orgoglio e di gloria.
Alle cinque e mezzo, sullo spigolo più avanzato del castello dei Pascià, dove la bandiera della Mezzaluna era stata abbassata, si sollevava un tricolore smisurato, il suggello definitivo della presa della Tripolitania: l’irrevocabile si compiva. Ora abbiamo sposato questa provincia: essa è terra d’Italia, come il Piemonte, come la Sicilia,come Roma: fino all’ultimo centesimo e all’ultimo uomo dovremo sacrificare con fermo cuore, perché nessuno la riprenda più.
Non conosciamo ancora i particolari dello sbarco, non sappiamo se la bandiera fu issata sul castello dal comandante Cagni che comanda le forze di sbarco o dal console o da altri. I marinai ritornati ora con le lance di sbarco raccontano che le compagnie approdarono alla banchina dello spalto sulla grande piazza del Mercato. Nessuna resistenza fu frapposta. Le grandi caserme nuove che fiancheggiano la piazza, erano abbandonate. Furono visitate da un ufficiale e trovate in ordine perfetto. Molti arabi stazionavano sulla piazza ed osservavano le operazioni di sbarco. Nessuno fece manifestazioni ostili: al contrario tutti diedero ai marinai un benvenuto cordiale distribuirono strette di mano dicendo che amavano l’Italia ed erano contenti che gli italiani fossero venuti. Si lamentarono che la città fosse stata bombardata. Sembra che schegge di granata e forse qualche proiettile sia passato sopra i forti e caduto sull’abitato; ma non pare abbia fatto vittime. Gli arabi si dolgono che tutti i negozi siano chiusi e che non si possa più mangiare né fumare; ma sono certi che gli italiani rimetteranno presto tutto in ordine.
Questi primi sintomi dell’accoglienza araba sono preziosi. Le forze sbarcate in Tripoli città, dalla confusa narrazione dei marinai, pare che si siano stabilite sul castello del Valì. È quasi certo che è così, perché non si sarebbe alzata la bandiera dove non fosse possibile difenderla, e nessun luogo è in questo momento adatto a ricevere le scarse forze inviate come il castello alto, potente isolato ed aperto sul mare.
I turchi cercheranno indubbiamente di aggredire il forte Sultania col favore delle tenebre che riducono al minimo l’appoggio delle navi alle forze sbarcate. Fortunatamente in queste notti splende una luna crescente, limpidissima, che tramonta ogni notte ad ora tarda, di più le navi sono armate di proiettori potentissimi; l’oscurità perfetta, cara agli strateghi ottomani, non si avrà quindi mai; e il forte Sultania non sarà mai costretto a contare sulle sole sue forze.
Abbiamo già avuto una prima prova che il nemico si servirà specialmente della notte per i suoi attacchi: stasera una fucileria nutrita crepita intorno al forte Sultania: la Sicilia e la Sardegna si erano avvicinate quanto è possibile alla costa, di fronte alla batteria e ne illuminavano coi proiettori i dintorni. In rada era entrata la Coatit, che batteva col suo riflettore la marina e il forte distrutto di Hamidiè. Anche dalla città e dal molo giungevano spari frequenti. Era una notte che respirava la guerra con una intensità fino ad oggi non sentita. La nostra divisione incrociava lenta allargo, a luci oscurate. Le torpediniere passavano, basse, buie, veloci, radendo i fianchi delle navi grandi, domandando, passando un’informazione, un ordine con i megafoni. La Carlo Alberto restava al suo posto, all’ apertura della rada, tutta punteggiata di luci verdi, rosse, bianche, incomprensibile, fantastica come un castello incantato: la Brin, la Re Umberto e l’Emanuele Filiberto si erano accostate alla Sicilia e alla Sardegna, ed aspettavano tenebrose e immobili. Sugli alberi delle navi vicine e lontane palpitavano senza fine le luci della telegrafia luminosa: ordini e notizie passavano silenziose con quel brivido di luce da ponte a ponte, attraverso lo spazio abbuiato, sotto le stelle.
Improvvisamente, mentre lo strepito della moschettieria giungeva più rabbioso dal forte Sultania, due razzi gialli e un razzo rosso si alzarono in aria: dalla Sicilia rispose una luce bianca: il forte faceva segno colle luci Very alle navi, che rispondevano di aver capito con le combinazioni di tre luci, verde, rossa e gialla. Il forte poteva parlare alla squadra: due luci gialle e una rossa significavano che il nemico era in vista. La Sardegna frugò la terra con i proiettori; poi sparò. La vampa s’allungò nell’oscurità e il rombo dello sparo durò lungamente nella notte, confondendosi con lo scoppio delle granate.
I tiri durano ancora, interrompendosi, quando il forte manda in aria due luci verdi, che significano: «Cessate il fuoco». Si ricomincia quando il forte segnala: «Nemico in vista».
L’effetto di questo cannoneggiamento notturno è drammatico. La luna batte nel mare e vi crea una dolce scia luminosa, bizzarro contrasto a questa solenne scena di guerra. Le granate passano dalle navi sul forte e vanno a cercare nelle tenebre il nemico. Qualche volta si vedono scoppiare nella notte: una fiamma sferica nasce e muore in un secondo, come un soffio, come un fuoco fatuo. Sentiamo tutti un’angoscia che non vogliamo confessare per quei nostri fratelli in pericolo; ma abbiamo fede nella loro bravura, nell’ abilità prodigiosa dei tiri delle navi e nella superba organizzazione di tutta la squadra; e sappiamo che usciranno salvi dal forte ben difeso per consegnarlo al Corpo di spedizione quando verrà. La nuova Colonia ci sarà più cara perché l’avremo conquistata a prezzo di rischi e di pericoli.
Cagni è veramente sul castello, con le truppe sbarcate in città: comunica con la nave ammiraglia per mezzo della Coatit ancorata in porto. Ha informato stasera che gli arabi hanno fatto accoglienze ottime alle compagnie di sbarco, e che gli hanno consegnato già mille fucili sbarcati dal Derna e distribuiti fra gli indigeni; propende a credere che i segnali del forte Sultania siano determinati da falsi allarmi. È informato che le forze turche sono concentrate a Zangur, a 20 chilometri da Tripoli, e vogliono riprendere la piazza con un colpo d’audacia. Raccomanda di mandare navi davanti a Zangur. Domani noi corrispondenti potremo sbarcare.