Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1911  ottobre 04 Mercoledì calendario

Dal diario di Bevione

Stamane, alle 6, è giunto il radiotelegramma che ordina alla Varese di levare le ancore e raggiungere la sua divisione davanti alla rada di Tripoli. La missione è di completare, con la Garibaldi e la Ferruccio, lo smantellamento del forte Hamidiè, incominciato ieri dalle due navi. Un’onda di allegrezza percorre la nave da poppa a prua. Gli ufficiali e i marinai fanno gli ultimi preparativi del bombardamento con un sorriso sulle labbra. Il mare è calmo. La mattina bella e fresca. La Varese si mette in moto e lascia indietro senza rimpianto il brutto Bronte che l’ha trattenuta col suo carbone. Si segue ad otto miglia la linea della costa. Dopo pochi minuti siamo davanti alla batteria Sultania. Possiamo constatare il massacro dei tre forti, compiuto ieri dai cannoni della divisione Re Umberto. Le opere non si riconoscono più. I terrapieni sono stati sventrati. Gli spalti rasi al suolo, i cannoni sepolti fra le sabbie e le macerie. Appena il fortino B, che è più interno, conserva la sua sagoma caratteristica, ma un male anche più mortale di quello che ha abbattuto i suoi fratelli lo sta distruggendo. Dalle aperture e dalle feritoie del forte escono fumi densi che il vento del mattino disperde. Il forte è incendiato; quando il fuoco sarà giunto alla Santa Barbara, tutto salterà in aria. Per un capriccio del caso, nello sfasciamento di ogni cosa si sono salvate tutte e tre le aste sottili ed alte, piantate in mezzo ai forti per issare la bandiera.
Il disastro seminato dalla divisione Brin è anche più appariscente; il faro non esiste più, non si scorge nemmeno la sua base; è crollato dalle radici. Il forte Rosso del molo ha trasformato la sua architettura; la parte centrale è quella che ha sofferto di più; è diventata assolutamente irriconoscibile. La grande cupola di cemento armato che proteggeva la batteria dei cannoni da 240 è stata sfondata, divelta. Le muraglie massicce di nord-ovest, tinte di rosa, mostrano una diecina di cavità circolari orrende. Sono i vuoti lasciati dalle granate che colpivano l’opera, e lasciavano il segno come la palla della carabina nel cartone del bersaglio.
Al di là delle scogliere, quasi all’uscita della rada, un piroscafo è affondato e sbanda sulla sinistra terribilmente. È il famoso Derna colato a fondo dalla divisione Brin o allagato con la Kingston dai turchi. Ma non è perduto; si può recuperare e sarà preda di guerra. Dietro un veliero intatto, la cannoniera si allunga incolume, abbandonata, con un’indicibile espressione di miseria. Tutto il resto è salvo. La città non è stata toccata da uno shrapnel, i tiri delle nostre navi sono stati di una precisione miracolosa. Venendo da nove chilometri le granate hanno diritto a non aver occhi, come diceva Bismark. Le nostre hanno portato gli alti esplosivi e gli occhi insieme.
Tripoli appare abbandonata. Poche persone traversano a passo celere la grandissima piazza del Mercato, e un gruppo staziona presso la moschea che è sulla marina. Nelle altre parti non si vede anima viva, ma non si vedono neppure i segni del saccheggio che si temeva. Non una casa fuma, non una porta sembra sfondata l’ordine pubblico fu conservato, a quanto si può comprendere dal mare, in modo perfetto, e non per opera di polizia, ma per la fuga generale.
Con tutto ciò in questa radiosa mattina orientale, Tripoli non ha una apparenza triste, anzi, s’è messa attorno al corpo candido tutte le grazie segrete, si è distesa nella attitudine più voluttuosa e più tentante per addolcire e sedurre questi conquistatori venuti a prenderla col fuoco. Tutte le bandiere dei consolati sventolano alla fresca brezza del mare. In cima agli altissimi pennoni riconosco con commozione la piccola bandiera germanica rabbrividisce sopra il consolato d’Italia. Tutto questo fluttuare di bandiere sulle terrazze che dilaga fino ai confini dell’oasi, dà a Tripoli una apparenza di solennità e di festa; è la prima manifestazione inconsapevole di benvenuto che la città manda agli italiani. Sono le otto, le navi si preparano ad eseguire gli ordini dell’ammiraglio. La divisione Re Umberto si riunisce a ponente della rada ed osserva coi cannocchiali di grande portata gli effetti del bombardamento di ieri sul forte Sultania. L’osservazione è soddisfacente, perché la Sicilia e la Sardegna restano sulle macchine e la Re Umberto da sola si avvia verso il forte randeggiando alla distanza minima consentita. Dai fondali, a circa 1000 metri, la batteria non si fa viva. La corazzata cerca di svegliarla con alcune salve dei suoi cannoni medi, ma nessuno risponde più. l’esecuzione del forte è compiuta. La divisione Brin non ha bisogno di muoversi. Lo sfacelo delle opere centrali non potrebbe essere più radicale. La nave ammiraglia rimane ferma alla imboccatura del porto, tutta fremente di segnali per impartire gli ordini alla squadra.
La Carlo Alberto e la Emanuele Filiberto stazionano inoperose al largo; non restano in funzione che la Garibaldi, Varese e Ferruccio. Il loro compito è di ridurre al silenzio la batteria Hamidiè bombardata ieri dalla Garibaldi e dalla Ferruccio, ma con risultati non completi, così che stamane è necessario una ripresa energica dell’azione.
Il forte Hamidiè difendeva la base destra orientale dell’uncino. Era un forte d’importanza capitale per Tripoli, perché batteva coi suoi fuochi l’apertura del porto. Il suo armamento era notevole, poiché consisteva di canne Krupp da 240 e 170. Ora non esiste più.
Alle 8.15 la Varese raggiunge la Garibaldi e la Ferruccio, e si mette immediatamente alla fonda, in posizione di combattimento, a 250 metri dalla Ferruccio. Le batterie sono ingombre di granate; le due torri di poppa e prua voltano le bocche dei grossi cannoni verso il forte. La pompa degli incendi rovescia acqua a torrenti, pronta ad agire nel caso che una granata nemica porti il fuoco a bordo.
La Varese ha mutato anima. C’è in tutti, dal primo comandante all’ultimo marinaio, un fervore d’entusiasmo, una certezza di successo, una pienezza di gioia che impressiona. Salgo sulla coffa bassa di prua. Un ufficiale mi dà della cotonina perché mi difenda gli orecchi contro il rombo delle batterie. Le navi sono a posto, scaglionate a 250 metri l’una dall’altra, immobili sulle ancore. A differenza di ieri, il mare è quasi fermo e permette il tiro nelle condizioni migliori. Grandi banchi di meduse, gialle, tonde e viscide come funghi troppo maturi, galleggiano come morte, a pochi metri sull’acqua celeste. Il forte Hamidiè è davanti a noi, a 3300 metri di distanza, sul ciglio della falaise franosa, in mezzo alle palme. I tiri di ieri l’hanno danneggiato ma non distrutto. Diversi cannoni sono ancora in batteria, capaci d’offesa; i terrapieni e gli spalti sono quasi tutti in piedi. Nessuno si mostra fra le trincee del forte poligonale. Anche qui l’asta della bandiera è rimasta intatta, nel centro delle batterie.
Suonano le 8.30. Tutti sono al loro posto e fissano la nave ammiraglia che deve sparare per la prima. Sono momenti indicibili, di ansia acuita e deliziosa. Alle 8.34 tutto il fianco sinistro della Garibaldi s’infiamma, scompare fra un nembo di fumo giallo: un rombo spaventoso lacera l’aria, si ripercuote contro la costa, riecheggia un brontolio lungo e cupo come un tuono di primavera in una chiostra di monti. Seguiamo cogli occhi la traiettoria dei proiettili, invisibili fino al forte, dove le granate cadono e scoppiano sollevando i vortici del fumo nerastro dell’esplosivo ad alta tensione che abbiamo visto ieri balenare cento volte dalla batteria Sultania: qualche secondo dopo mi giunge il fragore dello scoppio delle granate: una serie di scariche distinte, potenti, che rimbomba come una eco impreveduta della salve dell’incrociatore. Mezzo minuto dopo è la volta del Ferruccio. Dopo mezzo minuto ancora è la volta della Varese.
Questo battesimo del fuoco della nostra nave è spettacoloso. Allo stesso attimo sparano i sette pezzi da 152, due da 203 della torre di poppa e il gigante da 254 della torre di prua. Tutta la nave ha un sussulto folle dal basso in alto, come se fosse avvenuta un’eruzione vulcanica in mare sotto la nostra chiglia. Il fragore è infernale: e le orecchie riempite di ovatta ne hanno una sensazione di dolore. Dalla torre di prua, ch’è sotto di me, erompe unfumo giallo, oleoso, denso, che inviluppa tutta la nave, irrita le narici, s’interpone fra i miei occhi e il sole e fa ritornare in mente le desolate nebbie gialle di Londra. La scarica, al fragore immediato dei pezzi, fa seguire rimbombare lontano e cupo d’echi; ma su questa voce bassa e lunga, come sopra un pedale d’orchestra, ronzano cinque o sei voci fischianti, metalliche, vibrate come un battere fulmineo di eliche di acciaio: giuste indimenticabili voci che sono date dalla rotazione e dall’attrito delle granate nell’aria; e le granate questa volta le vediamo correre per l’aria, alla loro velocità frenetica, piccole pallottole nere che compiono in pochi secondi un grande arco nel cielo, vicine, concordi, per piombare tutte insieme sul forte ed esplodere fra alte colonne di fumo scuro e un crepitare tenebroso di colpi. Una sola scoppia nel tragitto con una vampa accecante come un fulmine.
Mentre queste tre prime salve aprono il fuoco contro l’Hamidiè, una torpediniera di alto mare, che era entrata nel porto a piccola velocità, passando, guardinga, sotto i forti, esce, e si dirige verso di noi. Le bordate della divisione non l’impauriscono. Continua, intrepida, la rotta, sotto le granate, che passano sul ponte, sibilando, e viene a collocarsi a ridosso della Garibaldi. La parabola dei proiettili è alta, e la torpediniera non corre pericolo; ma quella sua corsa sotto il fuoco ci fa pure rabbrividire.
Dalle 8.5 alle 9.35, per una mezz’ora continua, dura il fuoco di fila delle tre navi. La Varese è quella che spara più veloce e più preciso; si direbbe che vuole guadagnare il tempo perduto. Gli ordini tempestano dalla cima della torre blindata, sopra il ponte di comando, con una rapidità imperiosa, come un grandinare di mitraglia. Il direttore dei tiri è immerso in una buca della torre fino alle ascelle: fissa l’esito dei tiri con il teleplastico, parla ad un collaboratore, che fa pensare alla testa ingrandita di un abitante di Marte, e che, invisibile sotto una strana cappa di acciaio, non ha liberi che gli occhi e le mani, gli domanda la distanza del bersaglio rilevato esattamente mediante un telemetro gigantesco, traduce istantaneamente la distanza in alzo per i puntatori, e dà i suoi comandi:
«Alzo 51!»
Un marinaio, nascosto nella torre, ripete ad un telefono, che dirama l’ordine a tutte le batterie:
«Alzo 51»
Il direttore del tiro incalza:
«Cursore 4, a sinistra!»
La voce urla:
«Cursore 4, a sinistra!»
Il direttore del tiro:
«Batteria, attenti!»
La voce:
«Batteria: attenti!»
Il direttore del tiro:
«Sirena!»
La Voce:
«Sirena!»
Un marinaio tira una lunga fune: la sirena manda un ruggito, e quasi nello stesso momento i dieci colpi della bordata partono, fra nembi di fumo e scoppi di tuono.
I tiri della divisione furono meravigliosi per precisione e per rapidità. La Varese si guadagnò l’elogio della nave ammiraglia sul campo stesso del tiro; in trenta minuti le sue batterie lanciarono 12 granate da 254, 20 da 203, 89 da 152. Le altre navi fecero quasi altrettanto.
Il risultato di questa mezz’ora di cannoneggiamento fu terribile. Il forte perdette la sua individualità: diventò un ammasso informe di sabbia sull’orlo di una falaise rovinata. Due o tre cannoni appena restavano, a metà visibili, immersi nello sfasciamento degli spalti. Durante l’intera azione nessuno rispose dal forte; ma questo silenzio non bastò all’ammiraglio Thaon di ReveI; egli ordinò a due ufficiali e a due marinai della Garibaldi di mettere piede nella batteria annientata, di inutilizzarvi i pezzi incolumi e di distruggervi la stazione di accensione delle torpedini che vi si trovava.
L’audace colpo fu eseguito con una freddezza ed un coraggio incredibile. Una lancia si staccò dalla Garibaldi che s’era accostata a terra, e sbarcò i quattro uomini sotto la falaise sfasciata che sostiene il forte; sotto la protezione diretta della torpediniera Albatros, che s’era cacciata risolutamente fino ai piedi della costa esposta senza riparo ai colpi che potessero venire dall’alto. La Varese intanto sparava, a intervalli di 10 minuti, alquanto a destra dell’Hamidiè, per tenerlo evacuato. Quattro uomini salirono velocemente un sentiero ripido che dalla spiaggia porta alla batteria, entrarono nel forte, si diressero ai cannoni, e a colpi violenti di picca scassarono gli otturatori e li resero inservibili.
Mentre questo febbrile lavoro si compiva l’Albatros dovette notare l’avvicinarsi di qualcuno, perché aprì il fuoco dei suoi pezzi in direzione di un marabuto bianco fra i palmizi. L’ufficiale e i marinai continuarono imperturbabili la loro opera. Neppure i pezzi da 152 della Garibaldi che intervennero bombardando il marabuto e le famose tombe dei Caramanli, dove probabilmente s’erano formati aggruppamenti sospetti, fecero alzare il capo ai quattro valorosi, intenti al definitivo smantellamento del forte. Quando ebbero finito, fecero ancora un lungo giro per il forte, uscirono nei giardini vicini, poi lasciarono definitivamente la batteria: discesero il sentiero e ritornarono con la lancia a bordo della Garibaldi.
I due ufficiali che compirono l’intrepido atto sono il tenente di vascello Mercalli e il capitano dello Stato Maggiore Verri, che compì un delicato servizio di informazione negli ultimi giorni di Tripoli turca e s’imbarcò con noi sulle corazzate.
Ho potuto vedere nel pomeriggio il tenente di vascello Mercalli. Egli mi narrò con parola fredda e semplice il suo colpo di mano sul forte. La sua missione, come dissi, era di distruggere la stazione d’accensione delle torpedini affondate nel porto fin dal 1890, collocata appunto nella batteria Hamidiè, e di rendere inservibili le bocche da fuoco risparmiate dalle nostre granate. Trovò il forte in condizioni disastrose: tutto era crollato, schiantato, polverizzato: i cannoni che restavano nelle feritoie s’erano sprofondati nel terriccio e non potranno più puntare dalle trincee. Furono trovati tre cadaveri informi. Presso un cannone giacevano le gambe e mezzo il tronco di un soldato: il resto era stato sbranato, gettato via a pezzi, chissà dove: non se ne trovò traccia. La stazione di accensione delle torpedini, perfettamente ubicata nelle carte in possesso dello Stato Maggiore, era stata distrutta dal bombardamento: le granate l’avevano sfondata, il terriccio di trasporto l’aveva colmata. Aggirandosi nelle trincee, i due ufficiali fecero una scoperta importante; per un’arcata massiccia discesero in un deposito sotterraneo formato di tre riserve, ricchissime di munizioni di polvere in barili, di granate e di mitraglie. Il capitano Verri, specialista d’artiglieria, diresse il lavoro di inutilizzamento dei pezzi: gli otturatori furono sconquassati coi picconi, e gli apparecchi di mira portati via.
Questo lavoro fu compiuto in poco più di mezz’ora e fu disturbato dai soldati turchi: un drappello riparato dietro il Marabuto e poi dietro le Tombe dei Caramanli, aprì sul forte il fuoco di una mitragliatrice e una viva fucileria. L’Albatros se ne accorse, e sparò i suoi piccolo pezzi, ai quali presto si aggiunsero i cannoni da 152 della Garibaldi. Questi colpi andarono a destinazione con una precisione straordinaria. In una delle tombe fu aperta una breccia spaventosa, per cui può entrare una vettura a due cavalli. Il drappello turco a quel fuoco micidiale dilegua. Sotto i fuochi incrociati dell’Albatros e della Garibaldi il capitano Verri e il tenente di vascello Mercalli continuarono freddamente la loro missione. Lo Stato Maggiore el’equipaggio della Varese ne sono entusiasti.
Nel pomeriggio si riposa, preparando il materiale di sbarco. La radiotelegrafia porta un fascio di belle notizie che Aubry ha avuto ordine di occupare Tobruk, che la sua squadra ha catturato un trasporto con 1600 soldati turchi diretti a Tripoli, che il Duca degli Abruzzi ha colato a picco a Prevesa due cacciatorpediniere nemiche, che l’ammiraglio Thaon di Revel ha chiesto a Faravelli l’autorizzazione perché la Varese domani entri nel porto di Tripoli, faccia scoppiare il deposito di munizioni del forte Hamidiè e batta di rovescio le batterie del molo. Se Faravelli consente, domani avremo il compenso del sacrificio di ieri. La notizia fu letta nel quadrato degli ufficiali, e sollevò entusiasmo.
Tripoli deve essere abbandonata. Stasera appena tre lumi erano visibili in tutta la città. La fortezza della batteria Sultania, dove ardeva l’incendio è saltata oggi all’una per lo scoppio delle munizioni: ebbene la Re Umberto radiotelegrafa di aver dovuto riaprire il fuoco contro Sultania perché scoprì dei soldati turchi che scavavano trincee nel punto più sconvolto dalle nostre granate. Questa ostinazione eroica trova sulle navi della squadra italiana i primi ammiratori.