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 1911  settembre 30 Sabato calendario

Dal diario di Bevione

Stamane all’alba, grandi colpi alla porta mi hanno svegliato una voce grida: «Alzati, fra mezz’ora si parte». Ero a letto da poche ore; non si dorme più in questa strana città oscillante fra la guerra e la pace. Pare di essere in bivacco fra i nemici, e i nemici stanno sotto alle nostre porte, e ci montano la guardia. Quale altra novità è adunque avvenuta stamane perché si debba partire? L’orizzonte scrutato attentamente fra le brume mattutine, non rivela nulla di eccezionale. Appena una nave sonnecchia al largo, le altre sono sparite. Di nuovo non c’è che il vapore inglese, gremito di gente. Il capitano si è arreso alle supplicazioni dei fuggiaschi, che lo pregano a mani giunte, e li ha caricati. E poi c’è la cannoniera turca che si è mossa, e ci volta ora la poppa e fuma seriamente dalle ciminiere, come se volesse partire. Compio il sali e scendi delle terrazze, e mi calo in Consolato. Qui apprendo le novità.
Stamane all’alba è stato affisso alle cantonate un manifesto del Comitato locale «Unione e Progresso», che in sostanza dice che la Turchia vuol vendere la Tripolitania agli italiani, ma che la Tripolitania non lo consentirà mai. Islam alla riscossa! È il primo temuto appello al fanatismo mussulmano.
Alle due è stato consegnato al console un telegramma del Governo, nel quale si annuncia che la Turchia ha risposto negativamente all’ultimatum scadente non a mezzanotte di ieri, ma dodici ore dopo, a mezzogiorno. L’ostilità sono così aperte. A mezzogiorno un ufficiale verrà dalle navi a notificare il blocco della piazza, blocco che durerà tre giorni e finirà col bombardamento. In queste condizioni il console ha deciso la partenza degli italiani in massa. L’ordine consolare raccoglie in pochi minuti tutta la colonia in consolato. Fa una fugace apparizione il console Tielger, concentrato e solenne, che sta, trattando col vicegovernatore, perché sia garantito il nostro tragitto dal consolato alla marina. Le necessarie garanzie sono date, a condizione esplicita che tutti gli italiani che sono in consolato abbandonino Tripoli. Il dottor Tielger impegna la sua parola d’onore. Così, io e qualcun altro, che a tutti i costi volevamo rimanere, che desolavamo all’idea di abbandonare la città nell’ora in cui il cannone avrebbe tuonato, siamo costretti ad aggregarci agli altri e a prepararci a partire. I preparativi sono brevi e angosciosi. Ora amarissima che non vorrò più ritraversare nella mia vita.
Il cortile del consolato è formicolante. Nessuno, tranne il console, può portare bagaglio; e il bagaglio del console è formato da una valigia piena di documenti e da una grossa cassa pesante, piena di sacchetti d’argento il tesoro di guerra del consolato. Dobbiamo imbarcarci sul vapore inglese Caslegarth, che ci porterà fino alle regie navi.
Il piroscafo è già carico dei fuggiaschi ebrei e maltesi, ammessi dal capitano durante la notte: è una vecchia nave mercantile, senza adattamenti pei passeggeri, senza viveri e senza acqua. Il console, che ha occhio a tutto ordina di requisire tutte le bottiglie che sono nel consolato. Due volonterosi le riempiono e ciascuno prende la sua. Qualche dozzina di micche di pane, qualche bottiglia di birra, un po’ di carne spariscono in un momento. I ritardatari sopraggiungono, ansanti. Ci contiamo: siamo 156; ma vi sono parecchi ebrei e vari maltesi: fra gli altri la famiglia Aquilina, proprietaria del nostro albergo, che si è compromessa seriamente di fronte ai turchi parteggiando sempre per noi. La scena è pietosa e bizzarra nello stesso tempo, dolente e nuova, senza termini di confronto: qualcosa come un esodo di emigranti dilettanti, ma accorati di dover emigrare: una fuga di gente che non può piangere e non può ridere, e vorrebbe fare l’una e l’altra cosa insieme. Qualcuno strascina una coperta araba, dai violenti colori; un ebreo dalla barba veneranda, col turbante nero intorno alle chiome d’argento sta accovacciato in un angolo cogli occhi perduti nei suoi pensieri; dei bambini poveri e sporchi ruzzano sulle pietre del lastrico. Il primo cavass del consolato, un vecchio negro, degno di scultura, altissimo e magro, avviluppata la divisa in un barracano immenso, guarda smarrito quel trambusto incomprensibile, e si muove intorno come un automa, incredulo ancora che egli dovrà chiudere per la prima volta la porta del suo consolato, per la prima volta partire dalla sua Africa per il paese della gente bianca.
I negoziati di Tielger durano: l’attesa si prolunga. Per accrescere la confusione e la malinconia della scena, l’acqua, che gli antitripolini dicono che non cade in Tripolitania, piomba a torrenti dal cielo, subitamente oscurato: è un fuggi fuggi generale. Tutti si pigiano sulla scala e sotto il loggiato. Adesso l’esodo incomincia a prendere un colore tragico. Sembra una fuga sotto un flagello, una emigrazione sotto una maledizione.
Improvvisamente romba un cupo colpo lontano; qualcuno crede che sia il tuono: altri, più esperto, dice che è il cannone. Corro sulla terrazza, fisso con il cannocchiale l’orizzonte grigio velato, sotto la pioggia battente.