29 settembre 1911
Tags : Il colonialismo italiano
Dal diario di Bevione
Ci siamo svegliati presto. La giornata si annuncia piena di eventi. Scaduto l’ultimatum, con una risposta negativa della Turchia, l’apertura delle ostilità non deve tardare. Sappiamo tutti noi, che siamo giunti ieri dall’Italia, che il Corpo di occupazione non è ancora pronto che la spedizione non potrà partire dall’Italia fino al sette o all’otto di ottobre. Ma qualche fatto nuovo deve essere accaduto, perché si siano fatti precipitare gli avvenimenti così. Che cosa è questo fatto nuovo? E si almanacca, si congettura, si avanzano ipotesi, si radunano i magri elementi di fatto, che sono a nostra disposizione; si cerca di far combaciare le notizie che ci appaiono fondate, per ritrovare i nessi invisibili, per saldare alla catena logica i troppi anelli mancanti, per giungere infine a qualche conclusione plausibile, che legittimi gli avvenimenti, che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi, di cui non comprendiamo il valore, la portata, lo scopo. Questo facciamo, in questa dolce, calda mattina, nelle terrazza abbaglianti del Consolato, scrutando l’orizzonte col cannocchiale.
Incomincia l’acerbo e delizioso lavoro del corrispondente di guerra, segregato presso una parte belligerante, struggente e inebriante opera fra di Sisifo e di Penelope, inseguimento disperato di una verità, che par sempre a portata di mano, e non si raggiunge mai; infaticabile tessitura di una tela sottile e ingegnosa, condannata inesorabilmente alla distruzione immediata.
Che cosa si farà oggi? Vedremo il bombardamento? Parrebbe di sì. L’ultimatum, che non sorte effetto, determina l’inizio immediato delle ostilità; dunque, oggi si bombarderà. Si puntano i binocoli sulle navi, che fumano, immote, al confine del mare e del cielo. Sono quattro; tre uguali, grandi, con due ciminiere e un solo albero, altissimo, in mezzo; e una più piccola, snella, veloce. Le navi gemelle sono: la Varese, la Garibaldi, e la Ferruccio.
Scambio nel cortile del Consolato qualche parola col viceconsole Galli, un piccolo fiorentino, scarno, pallido, un po’ curvo di spalle, di una intelligenza acutissima, e di una energia formidabile; un ventinovenne che si rivela un tipo consolare di primissimo ordine, nella più difficile e grave congiura che si sia offerta fino ad oggi ad un console d’Italia.
Turbato, ansante, entra, e si avvicina a noi il prefetto apostolico, con la gran barba castana, fluente, sul saio francescano. Si china all’orecchio del console, e gli mormora poche parole. Il console ringrazia e fugge per le scale; riappare sul loggiato, si getta alla scaletta di legno, che porta alla terrazza. Un lampo mi traversa il cervello il frate ha a disposizione la più alta vedetta di Tripoli, il campanile; da quel campanile deve avere scorto qualche novità seria. Rincorro il prefetto apostolico, lo trattengo sulla porta del Consolato, gli domando che ha visto dalla cima del campanile. Egli cerca di schermirsi, insisto, mi risponde:
«Una torpediniera italiana entra in porto in questo momento.»
Corro anche io sul terrazzo. Il Garibaldino, con bandiera bianca sull’albero, gira gli scogli, fulmineo, con una manovra spettacolosa, che deve aver sbalordito i vecchi naviganti della Marina. Il cacciatorpediniere non può venire che ad annunciare la scadenza dell’ultimatum,e il principio delle ostilità. Ora si comprende perché il console ieri spingeva i pochi rimasti a imbarcarsi sull’Adria, e dava al piroscafo l’ordine di partenza immediata.
Il Garibaldino entra con bandiera bianca. Dunque, siamo entrati in ostilità.
Tripoli è la città fatta apposta per gli spettacoli collettivi. Le sue terrazze sono una platea ideale, grande come la città intiera, quando qualche cosa di notevole avviene sul mare. La notizia si diffonde in un folgore dalla fortezza spagnuola al gran mercato, e tutta la popolazione di Tripoli si solleva dalle strade sulle terrazze, come obbedisse ad una legge di levitazione. Migliaia di sguardi si concentrano su quello scafo affusolato, che è andato a gettare l’ancora presso la pacifica cannoniera turca. Poi, seguono le evoluzioni lente delle 4 navi, che si sono avvicinate per sorvegliare più da vicino il cacciatorpediniere e proteggerlo in caso di bisogno. Il cielo è velato da una bruma leggera, il mare è lievemente mosso. Una barca si stacca dal cacciatorpediniere e si avvicina alla cannoniera turca.
Un nostro ufficiale va a fare visita al comandante della cannoniera; poi la barca si dirige alla banchina, l’ufficiale scende a terra, e col primo dragomanno, che gli è andato incontro, viene al consolato. Il console lo stava aspettando. Dopo poche parole esce con lui e lo conduce al castello. Quando ritornano apprendiamo lo scopo della visita. Il comando della divisione manda a notificare al governatore la scadenza dell’ultimatum e l’imminente inizio dello stato di ostilità.
Una circolare è diramata dal console alle 11.30 a tutti i consoli esteri per una comunicazione analoga; scadenza dell’ultimatum ed inizio alle 14 dello stato di ostilità.
L’effetto della comparsa del Garibaldino e della visita del console e dell’ufficiale al vicegovernatore è inenarrabile. In pochi secondi si diffonde per tutta la città la notizia che alle 14 comincia il bombardamento. Le botteghe si chiudono; gli stranieri si riversano nei loro consolati, che alzano la loro più grande bandiera. Il consolato di Francia batte il record, con un velario immenso.
Il consolato d’Italia in un’ora è rigurgitante. Oltre agli italiani affluiscono molti ebrei e molti maltesi. C’è anche un israelita, suddito francese, che inveisce contro il suo console ed invoca la protezione italiana. Egli grida:
«Sono sempre stato suddito della Francia, e non ci ho mai guadagnato nulla. Viva l’Italia!»
Il bello è che costui fu italofobo, e dette denari al Guzman, quando costui comparve la prima volta dopo l’espulsione. Qualcuno vorrebbe buttarlo fuori, ma egli ha moglie e figli, e piange... Si è generosi e gli si dà asilo.
Via via che si avvicinano le ore 14, nella città cresce il terrore. Anche gli arabi della marina sono sbigottiti. Solo i turchi restano calmi, impassibili. Sotto la terrazza del Banco di Roma v’è un posto di polizia. I poliziotti sene stanno seduti conversando e fumando, come nei tempi normali: neppure gli ebrei che fuggono verso il porto, colle masserizie indispensabili sulle spalle, fanno volgere loro il capo. È impossibile che questi turchi non credano che l’Italia faccia sul serio!
Il brusio delle strade aumenta di continuo, si fa clamore, urlo, pianto. Vedo dalla terrazza uno che chiude la porta piangendo. Frotte di donne arabe passano veloci, con la loro bella andatura ondeggiante, tenendo il barracano meno stretto sugli inquieti volti dorati, mostrando le unghie colorite di penna e tutti e due gli occhi orlati di bistro.
Nel consolato italiano l’entusiasmo è grande quanto la confusione. Si grida:
«Viva l’Italia! viva il console!»
La cerimonia dell’abbassamento della bandiera desta una commozione profonda. Tutti si scoprono il capo, reverenti, come se si celebrasse un rito. Ma la sorpresa è viva e gradita quando si vede salire al posto suo la bandiera della Germania. Nessuno se lo aspettava, e si applaudì lungamente. A me parve di sentire in quel momento lo spirito di Francesco Crispi, rassegnato dal lungo cruccio, soddisfatto e premiato infine dalla realtà.
Dopo pochi momenti un frate laico, con una audacia esicurezza da acrobata, si arrampica per il parafulmine del campanile e va a piantare lassù una grande bandiera germanica. Nell’altra punta vicina alla croce, le monache dell’ospedale alzano invece la bandiera della convenzione di Ginevra, la Croce rossa in campo bianco.
Il console sembra ora liberato di un peso enorme. È ilare, gaio, vivace; dice che il Garibaldino è ancora in rada per prendere chi vuole partire; esorta vivamente ad imbarcarsi tutti coloro che non hanno ragioni particolari per restare, specialmente le donne e i fanciulli. Una buona cinquantina di persone si decide ad andarsene,con sollievo di tutti.
Finalmente ecco che battono le ore due all’orologio del campanile; ma il primo colpo non parte. Si aspetta con fede; poi con ansia; poi con disperazione. Nulla viene. Le navi stanno mute, immote al loro posto. Che cosa sia avvenuto non sappiamo. L’incomprensibile ci ossessiona ancora. Cala il tramonto e l’ultima forza, che ci faceva aspettare ancora con speranza, cade.
Il Governo fa affiggere un telegramma concepito su per giù così: «il Governo italiano ha presentato alla Sublime Porta una irricevibile domanda di cessione della Tripolitania. Mentre il Governo discute su questa proposta, deciso a salvaguardare i sacrosanti diritti dell’Impero, S.M. il Sultano invita i suoi sudditi a mantenere l’ordine e la calma e a rispettare gli stranieri».
Questo telegramma non è di buon augurio. Una grossa pattuglia di soldati monta la guardia tutta la notte al consolato ed al nostro albergo. Dopo le 10 nessun italiano può uscire per le strade.