Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1986  aprile 26 Sabato calendario

Viaggio nel sarcofago di Chernobyl, dove si potrà tornare a vivere tra 600 anni

«Non sarà un’altra Chernobyl» ripete a ogni novità il governo giapponese. «Nessun rischio Chernobyl» assicura l’agenzia per la sicurezza nucleare. «Niente a che vedere con Chernobyl» giura il ministro francese dell’industria, che teme un insorgere del malcontento verso le sue centrali. Chernobyl, l’unico incidente nucleare della storia di livello 7 – il massimo –, è l’inevitabile riferimento di queste ore, la pietra radioattiva di paragone che terrorizza al solo nominarla.

Il sarcofago
Chernobyl è questo immane e stremato sarcofago cento metri davanti a noi. Sembra reggersi solo grazie al sostegno metallico, simile alla rampa di un missile, con il quale l’hanno puntellato nel 2006. L’uomo che ci ha traghettato sin qui, 150 chilometri a nord di Kiev, si chiama Maksim, e di mestiere guida turisti estremi nella «zona di esclusione», il cerchio contaminato – 30 chilometri di raggio – nel quale non si potrà tornare a vivere prima di 600 anni. «Potete scattare una foto da qui, ma non un passo in più e sbrigatevi perché fra due minuti dobbiamo andare». Per aumentare l’autorevolezza dell’ordine, Maksim estrae il contatore geiger dalla tasca e lo accende. Nella base di partenza del viaggio – il vecchio abitato di Chernobyl, 18 chilometri più a sud – i microroentgen segnalati erano 12; qui superano in un amen i 500. «Nessun problema – ripete Maksim con voce platealmente calma – ma non oltre questo punto, e non più di due minuti».
Questo punto, fuori dal cancello della centrale, è la stele eretta in memoria dei primi soccorritori, i pompieri e gli operai andati a cuocersi di radiazioni per spegnere l’incendio, e morti nelle settimane successive. L’iscrizione, opportunamente, è anche in inglese: «Agli uomini che salvarono il mondo dal disastro nucleare».

I bilanci
Qualche cifra è indispensabile per capire il loro sacrificio. Mille microroentgen l’ora fanno un milliroentgen, mille milliroentgen fanno un roentgen, un’esposizione a 500 roentgen uccide in cinque ore. Nella notte del 26 aprile 1986, in seguito a un test di sicurezza concepito male ed eseguito peggio, il reattore numero 4 esplose, scoperchiando con la forza del vapore il cilindro di contenimento – e il solaio pesava duemila tonnellate – e disperdendo nell’aria enormi quantità di materiale radioattivo, alimentate dal successivo incendio della grafite contenuta nel nucleo. Per spegnere le fiamme i pompieri salirono sul tetto della centrale, dove i roentgen erano 20mila. «Non più di due minuti» si raccomanda Maksim oggi, 25 anni dopo, per una quantità di raggi gamma milioni di volte inferiore alla notte maledetta. Consapevoli che anche pochi secondi li avrebbero condannati, i pompieri vinsero l’incendio evitando la fusione, e la temuta esplosione nucleare, prima di andare a morire in un ospedale di Mosca.
Le polemiche sul nucleare civile rendono delicato il bilancio della tragedia: secondo il rapporto del Chernobyl Forum le vittime dirette furono 68 e 4.000 quelle presunte per tumori e leucemie legate alle radiazioni. I Verdi aumentano a 30-60 mila la stima delle vittime presunte, Greenpeace parla di 6 milioni di morti nei settant’anni successivi al disastro. Chiusa dal 2000 e vigilata in attesa che un nuovo sarcofago sostituisca l’attuale, questa centrale resterà per sempre nella memoria del mondo come Chernobyl, dal nome del paese più vicino ai tempi in cui la sua costruzione venne deliberata.
Nel 1970, però, a tre chilometri da qui venne completata Pripjat, una cittadina di 52mila abitanti destinata in gran parte ai lavoratori della centrale e alle loro famiglie. Pripjat venne evacuata 36 ore dopo l’incidente. «Pochi giorni e tornate a casa», così i militari rassicurarono donne costernate e bambini impauriti. Venticinque anni dopo, Pripjat resta la ghost town più estesa, impressionante, a suo modo suggestiva e certamente triste del pianeta. Visitarla è un’esperienza forte, possibile solo con una guida che – come in un campo minato – conosca l’ubicazione delle sacche radioattive. Prima del ponte che introduce alla città, per esempio, c’è la foresta rossa, un tratto di bosco nel quale il cesio 137 resiste, dipingendo gli alberi di un’assurda bellezza. «Pessimo posto per raccogliere funghi», scherza Maksim.

Disgelo
Cinquantaduemila abitanti: più o meno la taglia di Mantova o di Avellino. Ecco, immaginate queste città a noi care abbandonate per 25 anni, immaginatene gli edifici famosi, o quelli frequentati nella piccola quotidianità, le scuole, la palestra, il supermercato, il municipio, tutto deserto. Pripjat si sgretola in un silenzio irreale attraversato dall’acqua del disgelo, un incessante sciogliersi dei tetti ghiacciati – qui in inverno c’è un freddo serio – un furioso colare di rivoli e torrentelli lungo le gronde bucate, le scale pericolanti, gli infissi sbrecciati. Saliamo con la sincera paura di un crollo i sei piani dell’hotel Polissia, l’albergo della città, per scoprire che sull’attico è cresciuta una betulla. Col vento gelido che passa attraverso finestre senza vetri – quasi non esistono più i vetri, a Pripjat – la vista dall’antica sala colazione ti prende alla gola: a sud c’è il reattore, a est il fiume, a nord la foresta e tutto attorno la città morta, i condomini alti e magri dell’architettura sovietica. La ruota del lunapark allestito per la festa del Primo maggio 1986, e ovviamente mai più rimossa, è il simbolo più sfruttato – persino in un videogioco – di Pripjat.

Animali
Fulminea, una lepre attraversa il nostro campo visivo. Maksim racconta un paradosso: vietata agli uomini, la «zona» è diventata un’oasi ecologica, e oltre ai microroentgen chi la percorre deve guardarsi da orsi e lupi. La visita dura due ore, si resta lontani dal cimitero dove vennero sepolte le scorie di grafite, il luogo più contaminato d’Europa; negli edifici in cui entriamo la natura sta completando la sua rivincita, con alberi che penetrano dalle finestre e il pericoloso muschio – trattiene le radiazioni – che pare moquette stesa sull’umidità.
«In realtà nella zona vivono ancora 200 vecchi – rivela Maksim –. Sono malati venuti a morire a casa, nessuno se l’è sentita di cacciarli. Due volte alla settimana un camion porta le provviste, una volta al mese un medico fa il giro per visitarli. Quattro abitano a Pripjat, ma dai turisti non si fanno vedere». Lasciamo la città morta con la sensazione di essere osservati.

Paolo Condò

[G.Sp. 15/3/2011]