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 2017  gennaio 08 Domenica calendario

LA BANDA DELLA LIRA

Per contenerli tutti ci vorrebbe un palazzo di almeno 40 piani. Per trasportarli servirebbero oltre mille camion. Cinquemila miliardi di lire sono circa due miliardi e mezzo di euro. Basterebbero, a titolo di esempio, a coprire per intero le spese che l’Italia sostiene in un anno per dare soccorso e accogliere i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Questa montagna di denaro non è però di proprietà pubblica. Sono soldi privati. Privatissimi. Un pezzo di economia criminale del secolo scorso rimasto inabissato per oltre quindici anni. Ricchezza sfuggita completamente al radar di polizie, procure e Fisco. Un malloppo che, adesso, sfruttando le pieghe della legge, potrebbe essere riciclato nell’economia italiana.
Per capire perché, nel 2017, qualcuno dovrebbe tenersi in casa cataste di lire, quando il termine per convertirle in euro è ampiamente scaduto, bisogna andare a Spinea, campagna veneziana. Lo studio dell’avvocato Luciano Faraon è una villetta singola a tre piani, con i muri esterni gialli e il tetto in legno. L’ufficio è pieno di icone e simboli vari del cattolicesimo. È a questo professionista di 72 anni, presidente dell’Associazione Internazionale Vittime Giudiziarie e difensore del primo pentito della Mala del Brenta, che si sono rivolti i proprietari del tesoro nero. Una specie di banda della lira. Palazzinari, soprattutto, ma anche imprenditori di altri settori, persino un petroliere e un magistrato. Venti persone, sostiene l’avvocato, che mantiene massimo riserbo sull’identità dei suoi clienti ma mostra le foto delle lire impilate su tavoli e pavimenti. E promette di andare fino alla Corte europea per ottenere giustizia.
Già, giustizia. Quando gli si chiede dell’origine di questo denaro, Faraon cita San Giovanni Maria Vianney: «I soldi sono lo sterco del diavolo? Sì, ma io li adopero per concimare la Messa del Signore». La traduzione laica è piuttosto elementare. «Questi cinquemila miliardi di vecchie lire», è il ragionamento dell’avvocato, «potrebbero anche non essere immacolati, anzi diciamo pure che sono per lo più frutto di evasione fiscale. Ma in un momento di crisi economica come questa, dove gli investimenti servono come il pane, perché dovremmo perderli? Non sarebbe meglio usarli per immetterli nell’economia legale? Io penso che in mezzo a tanti condoni non guasterebbe farne uno in più al fine di far ripartire l’economia». Faraon lo ha scritto all’Agenzia delle Entrate del Veneto e alla Banca d’Italia, l’istituto che deve decidere se cambiare o meno questa massa impressionate di lire. I suoi clienti, dice, sono disposti a devolvere allo Stato il 3 per cento della somma convertita. Una somma, a dir la verità, non molto onerosa: lo scudo fiscale di Giulio Tremonti del 2002 prevedeva infatti un’aliquota simile, il 2,5 per cento, ma è stata la sanatoria più generosa. E, in seguito, con la "voluntary disclosure" si è arrivati a pagare per intero le tasse dovute. Sostiene l’avvocato, però, che i suoi venti clienti devolverebbero un altro 2 o 3 per cento al Centro Beata Maria Bolognesi, associazione creata in onore dell’omonima donna veneta e considerata dai suoi seguaci un’epigona di Padre Pio, con tanto di stimmate.
Ma torniamo al tesoro nero e al perché, dopo quindici anni di silenzio, è tornato a galla. Per capirlo bisogna ripercorrere l’intricata vicenda della conversione fra lire ed euro. E tenere a mente le date. La storia inizia alla fine del 2011, quando al governo italiano c’è Mario Monti. Mancano pochi mesi e poi le lire non si potranno più cambiare. Il termine scatta il 28 febbraio del 2012, dieci anni e due mesi dopo l’entrata in circolazione della valuta europea. Quei due mesi sono fondamentali per i proprietari dei cinquemila miliardi di lire. La maggior parte dei reati, compresi tutti quelli di natura fiscale, si prescrivono infatti dopo dieci anni esatti. Significa che a partire dal 2 gennaio del 2012, in teoria, chiunque denunci il possesso di lire non avrà problemi con la giustizia. Evasione fiscale? Sequestri di persona? Traffico di droga? Non importa: tutto cancellato. A rovinare i piani della banda arriva però un decreto. È il Salva Italia, varato il 6 dicembre del 2011. Una legge con cui il governo Monti anticipa di tre mesi la scadenza per la conversione. Non più il 28 febbraio del 2012, ma il 6 dicembre stesso. Poco prima della scadenza dei fatidici dieci anni. Per la banda della lira è una sciagura. Non possono più convertire il loro tesoro, salvo rischiare le indagini della magistratura. A questo punto, però, in loro soccorso arriva un altro colpo di scena. Nel 2015 la Corte Costituzionale dichiara illegittima la norma varata dal governo Monti. Anticipare la scadenza per la conversione delle lire è stato un atto incostituzionale, sentenziano i giudici. Un pasticcio burocratico in cui la banda si butta a capofitto. Ed è così che arriviamo ai giorni nostri.
La battaglia si combatte in punta di diritto. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la Banca d’Italia spiega che la finestra per convertire le lire in euro è riaperta. Non per tutti, però. Solo per chi è in grado di dimostrare di aver fatto richiesta di conversione tra il 6 dicembre 2011 e il 28 febbraio 2012. I venti clienti dell’avvocato Faraon non l’hanno fatto, ma lui è convinto di poter comunque ottenere ragione. «La decisione della Banca d’Italia», sostiene l’avvocato, «è assolutamente illecita visto che dopo il 31 dicembre 2011 non era presentabile né era accettata alcuna istanza di conversione lire-euro. Inoltre, nel trattato di Maastricht non esiste alcuna clausola che ponga un termine a uno Stato dell’Unione europea per la conversione. Al momento ci sono infatti ben dieci nazioni europee, fra cui la Germania, che non hanno posto limiti al cambio delle vecchie banconote in euro. Perché l’Italia sì? E poi c’è l’emendamento del Movimento 5 Stelle, approvato l’anno scorso nel decreto Milleproroghe, che impegna il governo a porre in essere tutte le iniziative necessarie per estendere anche a coloro che non abbiano effettuato la richiesta di convertire lire fra il 6 dicembre 2011 e il 28 febbraio 2012». Insomma, Faraon è convinto che la partita sia ancora aperta. E che la banda della Lira, alla fine, riuscirà a spuntarla.
Resta da ricostruire l’origine dei cinquemila miliardi di lire. Perché se è vero che i crimini fiscali sono ormai prescritti, c’è il sospetto di essere di fronte a capitali da riciclare, frutto di traffici mai scoperti. È per questo motivo, secondo quanto risulta all’Espresso, che l’operazione è in stallo. Le richieste di conversione inoltrate dall’avvocato Faraon hanno infatti destato l’attenzione dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, l’ufficio che ha il compito di inviare a Guardia di Finanza e Direzione investigativa antimafia le segnalazioni di operazioni sospette. Indagando sulla Banda della Lira, i funzionari di via Nazionale hanno scoperto che a coordinare i presunti venti proprietari dei cinquemila miliardi di lire c’è un broker finanziario italiano. Con legami molto importanti. Si chiama Giorgio Ronchi, ha 70 anni, vive in Svizzera e a quanto spiega Faraon è il collettore della maggior parte dei fondi, nascosta nella Confederazione elvetica, da sempre rifugio prediletto dell’evasione tricolore.
«Il Dio denaro non deve mai prevalere. Anzi, ci si deve sempre ricordare di come restituire quello che il Signore ci ha dato anche come disponibilità economiche»: così parlava Ronchi in un’intervista rilasciata nel 2000 a Tracce, la rivista di Comunione e Liberazione. Sono passati diciassette anni e il trader italo-svizzero continua a coltivare il suo animo filantropico. Anche lui, come l’avvocato Faraon, promuove infatti la donazione di vecchie lire in favore del Centro Beata Maria Bolognesi. Gli investigatori temono però che con la maxi conversione il finanziere possa riuscire ad aiutare non solo l’associazione cattolica ma anche interessi ben più terreni.
Il curriculum ufficiale di Ronchi è costellato di successi. Lo chiamavano l’italiano col braccio d’oro, quando negli anni Ottanta mise a segno un clamoroso acquisto a Wall Street: quello del colosso americano dell’informatica Memorex, che comprò a debito insieme a un gruppetto di dirigenti dell’azienda. Fu l’operazione finanziaria che lo fece conoscere al mondo. Poi è arrivata la fondazione di Etf Group, società di venture capital con base a Lugano, e la guida di Teknecomp, ora chiamata Intek e quotata a Piazza Affari. La lista delle società che Ronchi ha incrociato nella sua carriera è lunghissima. Ed è proprio scorrendola che gli ispettori hanno notato alcuni collegamenti sospetti. Come quello con Giovanni Summo, consulente finanziario coinvolto in un processo contro la ’ndrangheta emiliana. Assolto di recente, Summo è stato insieme a Ronchi uno degli azionisti della società svizzera Top Multimedia, messa in liquidazione l’anno scorso. Ma non è l’unica coincidenza ad aver attirato l’attenzione degli ispettori. Nel loro rapporto, gli uomini della Banca d’Italia evidenziano come il finanziere risulti oggi amministratore e socio di Naturalia Energy, il cui azionista di maggioranza è Giorgio Guaglianone, parente dell’ex membro dei Nuclei armati rivoluzionari di Milano, Pasquale "Lino" Guaglianone, lo stesso finito nell’inchiesta dell’antimafia di Reggio Calabria insieme al vecchio tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito. Una quantità di incarichi e poltrone, quelle collezionate da Ronchi, che lo collegano in qualche modo anche alla famiglia Berlusconi. Il broker italo-svizzero è stato infatti consigliere della società milanese Logilab negli stessi anni in cui nel cda sedeva Marina Berlusconi. Ma, soprattutto, ha avuto un ruolo di primo piano nella Società di Partecipazioni, holding romana rappresentata da Stefania Colosi. Come si legge nella relazione dell’Unità d’informazione finanziaria della Banca d’Italia, la Colosi è «presente negli archivi per una serie di segnalazioni di operazioni sospette». Tra queste, il trasferimento di 1,3 milioni di euro da parte di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier, a suo marito, l’ex dirigente di polizia Luigi Ferdinandi. Parte di questo denaro è stato poi reinvestito all’estero e in polizze assicurative intestate a lui e alla stessa Colosi. Perché Paolo Berlusconi avrebbe dovuto versare a un poliziotto 1,3 milioni di euro, che in parte gli erano stati trasferiti dal fratello Silvio, rimane però un mistero.
Di certo sono questi nomi e incroci societari ad aver messo in moto i segugi di Bankitalia intorno alla figura di Ronchi e alla richiesta tardiva di conversione delle vecchie lire. Segnali che hanno acceso numerose spie di pericolo nei sistemi informatici dell’unità anti riciclaggio. Il timore più grande, in via Nazionale, è quello di permettere un’operazione dai contorni per nulla chiari. Troppe anomalie, si legge nei rapporti riservati sui cinquemila miliardi di lire. Per questo la documentazione dell’Unità finanziaria è stata inviata d’urgenza anche alla procura nazionale antimafia. Perché se è vero che l’evasione fiscale è prescritta, la richiesta potrebbe permettere di fare luce sulle origini di un tesoro rimasto nascosto troppo a lungo. E che adesso, se Faraon e soci riusciranno ad ottenere ragione, potrebbe tornare improvvisamente a galla. Ripulito da ogni nefandezza. E utile, magari, per fare diventare santa Maria Bolognesi. n