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 2017  gennaio 07 Sabato calendario

BLOB E PEZZO SUI PENTITI ITALIANI

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Articolo

Notiziole
• I pentiti assistiti dalla Stato hanno raggiunto la cifra record di 1.253 (nel 2006 erano 790). Se si aggiungono i familiari si arriva a 6.300, altro record.

• Un pentito costa tra i 60 e i 90 mila euro all’anno. Istituito nel 1991 e gestito dal Viminale, il cosiddetto «Servizio centrale di protezione» fino a oggi ha speso quasi due miliardi di euro.

• Le principali voci di spesa sono: canoni di locazione, assegni di mantenimento, liquidazioni, assistenza legale, assistenza sanitaria, alberghi, trasferimenti.

Pezzo
In fatto di pentiti in Italia siamo al massimo storico: l’ultimo dato dice 1.253. La cifra è quasi raddoppiata in un decennio (erano 790 nel 2006), e la «popolazione protetta», inclusiva dei familiari, ha raggiunto quota 6.300, altro record. Un fiume di gente alla quale lo Stato deve garantire quotidianamente sicurezza, sostentamento e ogni altro genere di servizio: dalle macchine di scorta al cambio di residenza, dalla scuola per i figli all’identità fittizia, dall’assistenza legale a quella sanitaria (tanto per avere un’idea, è un numero molto simile ai collaboratori di giustizia che hanno in America e in Russia, paesi con dimensioni e risorse decisamente diverse dal nostro). Eppure oggi si penserebbe il contrario: di stragi non si avverte più nemmeno l’odore; il numero degli omicidi ha toccato il minimo storico; i boss che diedero vita alla stagione del sangue sono stati quasi tutti arrestati e molti sono morti in carcere senza mai più rivedere la libertà. Allora a cosa è legata questa continua crescita dei pentiti? E con quali risorse rispondono i governi? Ma anzitutto: i collaboratori di giustizia sono ancora figure così importanti?

RETRIBUZIONI Da tempo la gestione dei collaboratori di giustizia è oggetto di contrasti, sia per la natura dello strumento che per i suoi costi. La cifra record si è toccata nel 2014 quando per assistere 1.203 pentiti, 85 testimoni di giustizia (a proposito, perché sono così pochi rispetto ai pentiti?) e quasi 5mila congiunti lo Stato sborsò 89 milioni di euro (una media di 61.500 euro a collaboratore). Fino al 2001 (4.097 persone protette) il costo medio annuo della macchina organizzativa girava intorno ai 70 milioni (media 90.000 euro a pentito). Poi una legge quadro riorganizzò la materia: le retribuzioni mensili non potevano più superare il quintuplo dell’assegno sociale (2 mila euro, con un minimo di 900). Ma il numero degli assistiti è continuato a crescere: nell’ultimo decennio sono aumentati di 50-70 unità all’anno alle quali vanno aggiunti 300-400 familiari, sempre annui.

FINESTRA Nel 2015 la legge di Stabilità provò a dare una nuova sforbiciata, riducendo del 30% gli stanziamenti ordinari (tetto ai 60 milioni annui). Solo che in estate i soldi sono finiti ed è stato necessario rimpinguare il capitolo di bilancio. Perché, attenzione, l’esecutivo ha sì drenato a monte (sono state cancellate le mediazioni immobiliari, contenuti i compensi per i legali, d’altronde li difendono già i pubblici ministeri, e quasi azzerato il budget dei soggiorni in albergo), però se capita di andare over budget, si ripiana tranquillamente fra novembre e dicembre grazie ai fondi «in assestamento» con i quali si fa rientrare dalla finestra ciò che non era passato dalla porta principale.

LIQUIDAZIONE Istituito nel 1991 (nel 2016 ha compiuto 25 anni), gestito dal Viminale, diviso in 14 nuclei operativi e 4 divisioni, il cosiddetto «Servizio centrale di protezione» pesa sulle casse dello Stato per una cifra che sta velocemente arrivando ai due miliardi di euro. Le principali voci di spesa sono: canoni di locazione (40% circa), assegno mensile (30%), liquidazioni (20%), assistenza legale (10%). Le liquidazioni sono nate nel 2001 per favorire il turn over e assicurare da una parte la tenuta dell’impianto, e dall’altra il reinserimento nel mondo del lavoro. Come una qualsiasi azienda in crisi, il «Servizio centrale di protezione» propone ai suoi assistiti una buonuscita per incentivare il loro esodo dal programma. Veri e propri Tfr calcolati con parametri stabiliti per legge ma invero piuttosto elastici: l’importo deve andare dalle 2 alle 10 annualità però quasi sempre alla fine viene deciso con una trattativa informale tra le parti.

VITALIZIO Facile a dirsi, esodiamo i pentiti. Solo che spesso, già dopo uno o due anni, i fuoriusciti tornano a bussare alla porta del Viminale perché il reinserimento lavorativo si rivela quasi sempre un’impresa impossibile per chi è stato strappato dal proprio mondo (criminale) per essere trapiantato a centinaia di chilometri da casa; non di rado è avanti con gli anni, ha un livello di istruzione basso, e non ha nemmeno la possibilità di aprire un conto corrente a causa dei documenti di copertura. Un vicolo cieco che sta spingendo il ministero dell’Interno verso l’idea di istituire un assegno vitalizio reversibile in favore del coniuge, una sorta di pensione di Stato a vita o almeno finché non si realizza un effettivo reinserimento.

VICOLO Inoltre c’è il rischio concreto che si torni a delinquere (per questo motivo, ogni anno, circa 15 persone vengono espulse dal programma). La figura del pentito, lo riferiscono le stesse Procure, si sta svalutando: non solo sono troppi, ma di scarsa qualità. E il rischio d’una regressione è correlato anche al valore del singolo: se era ai vertici del clan e racconta cose importanti difficilmente tornerà indietro. Oggi invece siamo davanti a gregari di medio livello provenienti perlopiù dalla camorra (il 45%) che si consegnano perché rimasti senza alternative. Il motivo è semplice: le indagini funzionano e i continui arresti disarticolano i clan, rendendo la collaborazione unica via d’uscita al carcere o alla morte.

CONTENITORI E se non ci sono più i mafiosi di una volta, figuriamoci i collaboratori di giustizia. I nuovi danno l’impressione di procedere a briglie sciolte. I verbali sono diventati contenitori debordanti di dichiarazioni. Dentro c’è di tutto: sensazioni, impressioni, umori e ciò che si conosce per sentito dire – tecnicamente si definisce «de relato» – e va a ingrossare il capitolo del «praticamente impossibile da verificare». Dunque la vera domanda è: ma servono ancora tutti questi pentiti? Certo, il punto di vista interno rimane utile ma è sempre più difficile trovare qualcuno che fornisca notizie interessanti. Verificarle poi è un impegno notevole, spesso le informazioni contraddicono quelle fornite da altri fuoriusciti. Il paradosso è che la comparazione delle nuove rivelazioni può complicare il lavoro investigativo, invece di snellirlo.

BOTTANE Gli stessi responsabili del Servizio protezione ammettono che non sono più i tempi di Tommaso Buscetta, né quelli di Totuccio Contorno: vite scellerate che Giovanni Falcone amministrò con tale saggezza da inchiodare, al termine del maxi processo di Palermo, oltre trecentocinquanta boss, tutti di alta caratura. Oggi sono i tempi delle mezze tacche, dei personaggi di terza e quarta fila che più o meno onestamente raccontano quel poco che sanno in cambio della protezione e dei benefici di legge (e non: un malacarne pentito di nome Prospero Munafò, alla vigilia di una deposizione, si è spinto a chiedere il permesso di fare una scappata dalle sue vecchie e amatissime bottane: quale magistrato poteva dirgli di no?). Se poi intuiscono che il pm vuole sapere qualcosa che loro non sanno riescono comunque a trovare il modo di rabberciare un verbale, utile per ogni buon fine. E i ricordi a rate sono divenuti un tratto distintivo dei collaboratori di giustizia che amano i colpi di scena («La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente», diceva il boss palermitano Salvatore Cancemi). Fanno leva sul buonismo di uno Stato, spesso permissivo, che si accolla il rischio di sacrificare una parte di credibilità sull’altare della ricerca della verità.

EROISMI Insomma, il pentito oggi dice e contraddice, ora si occupa di mafia e domani di ‘ndrangheta, ora conferma e domani ritratta, un giorno chiacchiera di complotti e il giorno dopo di ordinaria delinquenza, entra ed esce dal Servizio protezione con la stessa disinvoltura con cui si passa dalla malavita alla bella vita. Più che collaboratori sono macchiette. Eppure si muovono con tanta tracotanza. Ma a che cosa deve tanto potere? Forse al fatto che sono funzionali non tanto alla ricerca della verità ma al grande gioco di quella piccola cerchia di magistrati che in nome della lotta a Cosa nostra tenta di accumulare meriti e benemerenze. A volte anche con qualche forzatura, come quella di mettere in piedi inchieste farlocche, senza capo né coda, al solo scopo di incantare l’opinione pubblica, di girovagare per giornali e talk-show e poi presentarsi alle elezioni avvolti dall’aura dell’eroismo e della legalità.


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BLOB

“Tonino” Fasano, Oggi ha 46 anni ed era fino al 2009 il luogotenente ad Aversa del boss Giuseppe Setola, legato all’ala stragista dei casalesi che nel 2008 compì il massacro di Castelvolturno: sei ghanesi falciati a colpi di kalashnikov per dare un segnale a chi contestava il loro strapotere, un punto di non ritorno nella storia criminale italiana. «Quando stavo con i casalesi avevo così tanti soldi che tenevamo le banconote nei sacchetti della spazzatura: pacchi di contanti, ne pescavi un po’ per comprarti la macchina nuova o qualsiasi altra cosa. D’altronde, consegnavo 300mila euro al mese di stipendi, chiamiamoli così: gregari, affiliati, avvocati…».

Fasano è stato nel 2015 uno dei 1253 pentiti presenti in Italia, il massimo storico. Mai così tanti e lo conferma l’ultima relazione del Servizio centrale di protezione del Viminale, che a breve sarà consegnata al ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi presentata al Parlamento. La cifra è quasi raddoppiata in un decennio (erano 790 nel 2006), e la «popolazione protetta» inclusiva dei familiari raggiunge quota 6.300, ulteriore record.

A cosa è legata l’escalation? Sono ancora figure così importanti? Con quali risorse rispondono i governi, che tengono un atteggiamento perlomeno contraddittorio? E perché i testimoni di giustizia, loro sì vittime delle cosche e costrette a vivere sotto scorta dopo averle denunciate, restano molto inferiori?

La storia di “Tonino” Fasano aiuta a calarsi in un ragionamento più complessivo, su un tema che per sua natura resta quasi inabissato.
«Sono stato prosciolto dall’accusa di aver fatto parte del commando, da poco un’altra testimonianza mi ha rimesso in mezzo». Eccoci. «Ho fatto il collaboratore di giustizia per sette anni e partecipato a dieci processi. Lo Stato mi ha assistito e aiutato, penso che le mie rivelazioni siano state importanti. A un certo punto qualcosa si è rotto e ho avuto meno di ciò che mi era stato garantito. Ho subito pressioni dagli agenti delegati al rapporto con figure come la mia, non hanno rispettato gli accordi. So che siamo degli impresentabili, agli occhi di tutti. Ma il patto, se si crea, dovrebbe funzionare fino in fondo». Quant’è accettabile un’affermazione del genere, sebbene sia indubbio che il sistema stia raggiungendo un livello di saturazione non semplice da gestire?

L’offensiva dello Stato. Andrea Caridi è nato in Calabria e ha fatto per una vita l’investigatore, soprattutto a Palermo, e da un anno è il capo del Servizio centrale di protezione: «È una fase diversa rispetto alla metà degli Anni 90, i pentimenti dei big di Cosa Nostra come Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo o Pino Marchese. Oggi siamo davanti a gregari di medio livello provenienti perlopiù dalla camorra (il 45%) che si consegnano perché rimasti in un vicolo cieco». Il boom nel numero dei pentiti ha per lui una chiave di lettura semplice: è l’effetto delle indagini che disarticolano i clan, rendendo la collaborazione unica via d’uscita al carcere o alla morte. «Per la ’ndrangheta è diverso. Essendo una mafia cementata sui legami familiari, smarcarsi significherebbe denunciare fratelli, padri, sorelle. Ecco perché accade di rado».

L’ufficio che dirige in un palazzone dell’Eur a Roma è un posto abbastanza strano, e nei corridoi capita d’incrociare vecchi sicari a fare anticamera per ottenere un piccolo incremento nell’assegno, un nuovo documento di copertura, un aiuto sulle spese scolastiche dei figli.

«Il 90% degli assistiti è insoddisfatto e non mi sorprende – aggiunge – Parliamo di gente assuefatta a esistenze da milionari, anche se magari vivevano in quartieri popolari. Non è facile adattarsi. Da un giorno all’altro vieni sradicato per ragioni di sicurezza, e sperimenti le condizioni economiche di tanti italiani che devono far quadrare i conti».

La macchina è complessa: insieme a un ex criminale vengono mantenuti in media cinque suoi familiari, saldati affitti e parecchie spese sanitarie. Senza dimenticare che le identità fittizie, quando richieste e concesse, vanno rese compatibili con i vari database nazionali. Lo “stipendio” mensile (dai 900 euro in su in base al numero dei parenti a carico) è prelevato in contanti attraverso un bancomat speciale da utilizzare solo in sportelli prestabiliti. «I miei omologhi russi e americani assistono un numero di persone simili al nostro – chiude Caridi – ma parliamo di Paesi molto più vasti e con risorse differenti».

Non tutti sono convinti che l’apporto dei collaboratori resti fondamentale «ed è sempre più difficile trovarne qualcuno che fornisca notizie interessanti». A parlare è un carabiniere del Ros specializzato da quindici anni nel contrasto alla ’ndrangheta, che chiede l’anonimato: «Verificare le notizie è un impegno notevole, spesso le informazioni contraddicono quelle fornite da altri fuoriusciti. Non significa che mentano, magari non sanno abbastanza. Il paradosso è che la comparazione delle nuove rivelazioni può complicare il nostro lavoro, invece di snellirlo».

Napoli, dove Fausto Lamparelli dirige la squadra mobile della polizia, è la città dove si registra il picco di pentimenti: «Perquisizioni e arresti tolgono respiro ai clan, ecco perché alcuni membri decidono di collaborare. L’erosione del potere mafioso è all’origine del crollo nell’età media dei camorristi, la cosiddetta “paranza dei bambini”. Sono giovanissimi dal percorso improvvisato, più violenti ma meno autorevoli e durano poco: o vengono ammazzati o finiscono all’ergastolo in un paio d’anni. La base investigativa è sempre più solida e spesso le rivelazioni degli ex non aggiungono novità sostanziali. Certo, il punto di vista interno rimane utile».

L’intelligence cresce, grazie alla base fornita dai pentiti in passato; ma questo avanzamento rende meno essenziale l’apporto dei nuovi, certificando una sorta d’inflazione. Perciò lo Stato, pur garantendo sulla carta il mantenimento di risorse «adeguate», taglia.

Lo ha fatto con la legge di stabilità 2015, che ha ridotto del 30% netto gli stanziamenti «ordinari» al Servizio di protezione. «Attenzione a non fraintendere – spiega il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), al vertice della Commissione sui collaboratori – poiché in corso d’opera garantiamo ogni spesa extra». Tradotto: l’esecutivo drena a monte e i dirigenti del Servizio si barcamenano, grazie all’acrobatica spending-review di funzionari più simili a manager che a burocrati. Sono state cancellate le mediazioni immobiliari, contenuti i compensi per i legali dei collaboratori («di fatto li difendono già i pubblici ministeri», spiegano al Viminale) e quasi azzerato il budget dei soggiorni in albergo nella fase intermedia di vigilanza, dal primo giorno di pentimento fino all’assegnazione dell’alloggio vero e proprio. Può pure capitare che si faccia qualche debito, poi ripianato fra novembre e dicembre grazie ai fondi «in assestamento» con i quali si fa rientrare dalla finestra ciò che non era passato dalla porta principale.

Chi torna a delinquere. Uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori fu Giovanni Falcone. E anche per questo le “ricadute” periodiche del supertestimone per eccellenza Tommaso Buscetta furono un capitolo amaro nella lotta antimafia. Quei personaggi non ci sono più, ma i deragliamenti non mancano (ogni anno in 15 vengono espulsi dal programma).

Quant’è concreto il rischio che si torni a delinquere? Prova a rispondere Francesco Messina, che ha combattuto la mafia siciliana nei Servizi segreti, i casalesi da questore di Caserta e da poco guida la polizia a Perugia. «La figura del pentito si sta un po’ svalutando, ne abbiamo troppi e spesso di scarsa qualità. Ce lo riferiscono le Procure, che hanno una visione d’insieme e valutano attendibilità e costi. Ritengo che il rischio d’una regressione sia correlato al valore del singolo: se era ai vertici del clan e racconta cose davvero importanti, difficilmente tornerà indietro».

Tonino Fasano, entrato e uscito dalla protezione, ha appena finito il caffè: «Non ricomincerò a delinquere, ma è difficilissimo dopo aver vissuto in quel modo». Lo sguardo si posa ancora sulla porta, lo stesso gesto paranoico d’un tempo, senza mazzette da pescare nell’immondizia. Una volta imboccata la strada opposta, le preoccupazioni e le frustrazioni – così recitava l’ex boss in un famoso film di mafia – diventano quelle di tutti: «Mi tocca fare le code e mangiare male, come qualsiasi “normale nullità”».


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Un bonifico di alcune decine di migliaia di euro (in qualche caso anche centinaia), una somma parametrata su 5 anni di “stipendi percepiti”, per finanziare il nuovo progetto di vita: così lo Stato, fino a sei mesi fa, liquidava la collaborazione dei pentiti di mafia. Ma i tempi si sono fatti più duri anche per i pentiti, costretti nonostante il loro ruolo, a subire le rigidità burocratiche: dall’8 febbraio scorso, denuncia l’avvocato Carmen Di Meo, difensore di numerosi collaboratori di giustizia, una direttiva esplicativa della commissione centrale di protezione ha disposto che il denaro non verrà più bonificato, ma consegnato attraverso singoli e distinti assegni intestati ai fornitori degli immobili e degli arredi necessari al nuovo progetto di vita. Un accorgimento, spiega il legale, che il ministero ha adottato dopo avere scoperto che alcuni pentiti non avevano dato corso al progetto, dopo avere percepito le somme, ma che oggi “rischia di porre in serio pericolo la sicurezza dei collaboratori”. In che modo? “A differenza del passato – spiega il legale – il collaboratore è costretto oggi a pagare i fornitori con titoli emessi con modalità complesse che rischiano di creare legittimi sospetti negli interlocutori – non essendo chiara l’intestazione del conto da cui provengono le somme – modalità che rischiano, di fatto, di far saltare così la copertura. Ma non solo. Al momento della capitalizzazione la legge prevede sei mesi per cancellare dall’anagrafe l’identità fittizia del collaboratore, nonostante lo Stato gli assegni una scorta in tribunale per altri due anni, con il conseguente disvelamento delle generalità e della nuova residenza del collaboratore. Ciò pone a serio rischio l’incolumità personale dei collaboratori”. Per il legale la direttiva non pone alternative, di fatto, ai pentiti: “Se la somma non copre il finanziamento del progetto, dovrà essere il collaboratore a integrare la parte residua: l’unica scelta è quella di rinunciare a tre quinti della somma, se la si vuol prendere in contanti, e accontentarsi di soli due anni di capitalizzazione – sostiene l’avvocato Di Meo –, ma si tratta di una somma così esigua che non basta a finanziare un reale progetto di vita. Ci sono stati anche casi in cui, con il minimo previsto per chi non ha una famiglia, e cioè 64 mila euro, il collaboratore ha dovuto pagare l’immobile, il notaio, le tasse, l’arredamento e non gli è rimasto nulla per la famiglia’’. Cosa è cambiato, dunque, nella gestione della fase finale della collaborazione con la giustizia? “Molti miei clienti si stanno chiedendo se il gioco vale la candela’’, conclude l’avvocato Di Meo.

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il maresciallo Castiglione aveva ricevuto il preciso incarico di accudire alle “esigenze personali” di un collaboratore di giustizia che, alla vigilia di “un importante passaggio giudiziario contro un uomo politico accusato di collusione con la mafia”, aveva avanzato la “legittima richiesta di trascorrere in compagnia di una donna alcuni momenti di intimità”. Alla squadra di poliziotti addetti – burocraticamente addetti – alle esigenze personali del pentito era stato anche ordinato di “lasciarsi guidare dal medesimo nella ricerca delle figure femminili da contattare” e di limitare allo stretto necessario qualsiasi domanda “circa l’identità delle persone coinvolte, o da coinvolgere”. Per tre notti gli uomini del maresciallo tennero nuovamente sott’occhio le porte socchiuse del vicolo Gran Cancelliere. Aspettando che il pentito Prospero Munafò, appagata la voglia di sesso e di baldoria, ritornasse a bordo dell’autocivetta di servizio, una alfetta trentatrè di colore nocciola munita di autoradio, per essere accompagnato alle Torri di viale del Fante e riconsegnato al Servizio protezione. I giornali non ne parlarono. Ma il signor Capo, il giorno dopo, non mancò di convocare il maresciallo Procopio Castiglione e di elogiarlo non solo per la “brillante operazione”, ma anche per “l’impenetrabile riservatezza con la quale aveva compiuto il suo dovere”. Lodi e onori a volontà.

Ci ricorderemo di quegli anni. E ricorderemo anche, con devozione, le notti bianche del maresciallo Procopio Castiglione al quale un ministro della Repubblica, su proposta del “signor Capo”, avrebbe forse dovuto consegnare in contemporanea almeno due onorificenze: una per avere catturato, tra i vicoli del Gran Cancelliere, un killer della mafia, spietato e libidinoso; e l’altra per avere obbedito, sette anni dopo, all’ordine di accompagnare quel killer negli stessi vicoli perché, da pentito, Munafò non poteva essere più considerato un malacarne ma un uomo prezioso per la lotta alla mafia: con le sue rivelazioni avrebbe consentito la cattura e la condanna di chissà quanti boss; e se alla vigilia di una decisiva deposizione si era spinto a chiedere il permesso di fare una scappata al Gran Cancelliere per rivedere una delle sue vecchie e amatissime bottane, quale magistrato poteva mai dirgli di no? Erano anni di zelo e di azzardo. Lo Stato non voleva più piangere i suoi morti e aveva finalmente deciso di passare al contrattacco. Con ogni mezzo. Anche quello di assegnare privilegi a chi avrebbe meritato invece disprezzo e galera.

Certo, la legislazione d’emergenza ha costretto la civiltà del diritto a subire non pochi sfregi. Ma quel che conta, sia detto con civile cinismo, è che alla fine della giostra lo Stato ha vinto e la mafia ha perso: di stragi, grazie a Dio, non si avverte più nemmeno l’odore; il numero degli omicidi ha toccato il minimo storico; i boss che diedero vita alla verminosa stagione del sangue sono stati quasi tutti arrestati e molti di loro sono morti in carcere e senza mai rivedere la libertà. La guerra – perché di una vera guerra si è trattato – è stata lunga, lunghissima. La chiameremo la guerra dei trent’anni. Quanto durerà ancora?


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A cominciare dai pentiti, molti dei quali hanno avuto modo di sperimentare la maglia larga delle regole e ora tentano in tutti i modi di fare valere le proprie ragioni e i propri interessi.


Nel 2015 il numero dei collaboratori di giustizia affidati dalle procure al servizio protezione del Viminale ha toccato il record di 1253. Negli ultimi dieci anni la cifra anziché diminuire è quasi raddoppiata (nel 2006 erano 790) e, di conseguenza, si è dilatata a dismisura anche la cosiddetta “popolazione protetta”, quella che include i familiari: l’ultimo dato parla di 6300 persone, un fiume di gente alla quale lo Stato deve garantire quotidianamente sicurezza e ogni altro genere di conforto, dalle macchine di scorta al cambio di residenza, dall’assistenza legale all’assistenza sanitaria, dalla scuola per i figli all’identità fittizia.

Servono ancora tutti questi pentiti? Gli stessi responsabili del Servizio protezione ammettono che “non sono più i tempi di Tommaso Buscetta, né quelli di Totuccio Contorno”: vite scellerate che Giovanni Falcone, giudice di grande coraggio e di grande mestiere, amministrò con tale saggezza da inchiodare, al termine del maxi processo di Palermo, oltre trecentocinquanta boss, tutti di alta caratura. Oggi, invece, sono i tempi delle mezze tacche, dei personaggi di terza e quarta fila che, in cambio della protezione e dei benefici di legge, più o meno onestamente raccontano quel poco che sanno: provengono nella maggior parte da cosche prive di spessore e se intuiscono che il magistrato vuole sapere qualcosa che loro non sanno riescono a trovare comunque il modo di rabberciare un verbale, utile per ogni buon fine.

Insomma, dai tempi di Buscetta siamo passati ai tempi di Nino Lo Giudice, detto “il Nano” che puntualmente dice e si contraddice, che oggi si occupa di mafia e domani di ’ndrangheta, che oggi conferma e domani ritratta, che un giorno chiacchiera di complotti e il giorno dopo di ordinaria delinquenza, che entra ed esce dal Servizio protezione con la stessa disinvoltura con cui si passa dalla malavita alla bella vita. Più che un personaggio, una macchietta. Eppure anche lui, come tanti altri suoi colleghi, si muove con la stessa tracotanza di Prospero Munafò, il pentito col vizio delle bottane palermitane. A che cosa deve tanto potere? Forse al fatto che i fanfaroni di Stato, come Lo Giudice, sono funzionali non tanto alla ricerca della verità ma al gioco grande di quella strettissima cerchia di magistrati – ormai in minoranza anche nelle procure di frontiera – che in nome della sacrosanta lotta a Cosa nostra tentano di accumulare meriti e benemerenze. A volte anche con qualche forzatura, come quella di mettere in piedi inchieste farlocche, senza capo né coda, al solo scopo di incantare l’opinione pubblica, di girovagare per giornali e talk-show e poi presentarsi alle elezioni con i paramenti sacerdotali dell’eroismo e della legalità; o come quella di intercettare una telefonata forse poco opportuna del proprio capo e tenerla per sei mesi nel cassetto, in attesa di saggiare i comportamenti e vedere poi l’effetto che fa. Tanto loro, quelli della ristrettissima cerchia, sanno che non pagheranno mai pegno e che nessuna istituzione della Repubblica – dal Parlamento al Csm – avrà mai l’ardire di chiedergli conto e ragione su quanti innocenti hanno sputtanato o su quanti soldi dello Stato hanno sperperato, inventando improbabili “sistemi criminali”, inseguendo fantasmi e teoremi, macinando dibattiti e convegni.

Se i pentiti, pur con i loro capricci e i loro ricatti, sono la casta stracciona, i magistrati della ristrettissima cerchia sono la casta bramina. Intoccabile. Il sistema arrugginito delle leggi e dei controlli, che non a caso loro vogliono sempiterno e immobile, li garantisce e li protegge. Alla faccia del maresciallo Castiglione e di tutti quelli che nel corso della lunga guerra hanno rischiato, oltre a una crisi coniugale, anche la vita.


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Il costo economico della gestione dei pentiti è "sproporzionato" rispetto ai risultati concreti ottenuti nella lotta alla criminalità organizzata.

Nel 2006 l’ex boss di mafia Francesco Marino Mannoia, sotto protezione negli Usa, richiese una "buonuscita" di un milione di euro. Il perito chimico di Santa Maria del Gesù, oggi 55enne, venne arrestato nel 1989 e collaborò da subito con i magistrati palermitani, prestando la sua opera anche in occasione del processo a Giulio Andreotti. Dal 1995 Mannoia vive negli Stati Uniti con un assegno mensile di 10 mila euro: erogazione che cesserà se il Viminale deciderà di favorire l’uscita del pentito dal programma di protezione, contro il versamento di una cospicua buonuscita. «La cifra, però, non ammonterà di certo a 1 milione, ma al massimo a qualche centinaio di migliaia di euro» precisa Alfredo Mantovano, ex sottosegretario di An agli Interni e presidente uscente della Commissione centrale sui collaboratori di giustizia.


"In linea di principio la sorella di Falcone ha ragione - premette -, il mafioso sottratto al clan sottrae pericolosità all’azione complessiva dell’organizzazione: ma sul piano del contrasto valgono molto di più l’impegno e l’azione quotidiana degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine. E se è vero che dopo la stagione delle stragi, il fenomeno del pentitismo ha contribuito a sminuire la presunzione di onnipotenza di Cosa nostra, è altrettanto vero che in questo senso hanno inciso molto di più arresti eccellenti come quelli di Riina e di Provenzano".

In sintesi, il contributo dei collaboratori di giustizia, nel complesso, appare "significativo", ma "non fondamentale": lo Stato spende veri e propri tesori "in appartamenti, cure sanitarie, cambi di identita’", ed "anche dal punto di vista culturale non è che sia un grande esempio che un servitore dello Stato abbia diritto ad indennizzi 20 volte inferiore a quello di un ex boss". Per Saltamartini è anche un problema di trasparenza: "la gestione delle risorse destinate ai pentiti sconfina nel ’segreto’, mentre sarebbe l’ora che le buonuscite liquidate all’uscita dei programmi di protezione (in senso tecnico, capitalizzazioni, ndr) fossero pubbliche".


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Da tempo la gestione di collaboratori e testimoni è oggetto di attacchi e contrasti, dovuti non certo alla natura dello strumento, che si è rivelato prezioso, quanto ai suoi costi e alle sperequazioni tra pentito e pentito. Eppure le cifre si sono molto assottigliate negli ultimi anni.


Tra il 2001 e la fine di maggio del 2006 il Servizio centrale di protezione, struttura del ministero degli Interni dotata di fondi propri, ha «gestito» 71 testimoni, 904 collaboratori di giustizia e 3.122 loro congiunti. In tutto, si tratta di 4.097 persone. Il dato è in calo rispetto al quinquennio 1996-2001, quando i soggetti sotto tutela erano stati oltre 5 mila. Anche il budget destinato alla protezione si è ridotto: fino al 2001 il costo medio annuo della macchina organizzativa superava gli 80 milioni, oggi non raggiunge i 70.


Il merito è della legge-quadro numero 45 del 2001, che ha riorganizzato la materia. La norma ha posto per la prima volta un tetto massimo alle retribuzioni mensili dei pentiti, che non possono superare il quintuplo dell’assegno «sociale» (circa 400 euro): nessun nuovo protetto insomma può riscuotere più di 2 mila euro al mese. Il pericolo di stipendi d’oro come quelli assegnati in passato a pentiti illustri come Tommaso Buscetta, Balduccio Di Maggio e lo stesso Mannoia, dunque, è scongiurato per sempre.


Ma con le nuove regole lo Stato è intervenuto anche sullo spinoso fronte delle «capitalizzazioni»: quelle vere e proprie liquidazioni anticipate che dal 2001 vengono calcolate con parametri stabiliti per legge. Come una qualsiasi azienda in crisi, insomma, il Servizio centrale di protezione ha la facoltà di proporre ai suoi «assistiti» una buonuscita per incentivare il loro esodo dal programma.

L’idea sembra funzionare. Tra 1996 e 2001 le uscite volontarie dei pentiti sono state solo 144, mentre nel quinquennio successivo il loro numero è salito a 965, il 670% in più. «Lo strumento delle capitalizzazioni in questi anni si è rivelato utilissimo» conferma Mantovano «perché a fronte di esborsi considerevoli ha permesso nel medio periodo di ridurre la spesa del 30%».

Ezechiele 37 contesta che l’importo medio dell’assegno di mantenimento, quello che in teoria dovrebbe garantire ai testimoni e ai loro congiunti più stretti condizioni di vita «in linea con il tenore vissuto precedentemente all’inizio del programma», sia piuttosto basso: 1.350 euro, più 150 circa per ogni congiunto. E l’organizzazione denuncia il caso di un testimone-chiave a uno dei primi maxiprocessi di mafia che si è dovuto accontentare di 820 euro al mese.

Certo, casa e spese mediche restano a carico dello Stato. Ma solo fino a quando il contributo dei soggetti sotto protezione è ritenuto «utile». Poi scatta il bonus di uscita. Anche in questo caso i limiti stabiliti dalla legge sono elastici: l’importo deve andare dalle 2 alle 10 annualità. Ma quasi sempre viene stabilito con una trattativa informale tra le parti.

Chi è fortunato, oltre all’assegno, ottiene un impiego nel parastato o una licenza da tassista o da tabaccaio già pagata.


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I numeri dei tutelati aumentano, i costi pure. Per questo il Viminale vuole modificare la legge. Istituendo un assegno a vita per chi non riesce a trovare lavoro. E cercando di favorire l’uscita dai programmi di protezione. Che però si rivela sempre più difficile

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Dopo il turn over nel pubblico impiego, quello dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Detta così sembra brutale, eppure è proprio questo uno degli obiettivi che il ministero dell’Interno ha allo studio per tutti i soggetti a rischio inseriti in un programma di protezione. L’idea del ricambio (la "staffetta") l’ha lanciata il ministro Marianna Madia per gli statali: far uscire gli anziani e far entrare i giovani per rinnovare la macchina burocratica. Con le dovute proporzioni, è quanto si propone anche il gruppo di lavoro insediato al Viminale per aggiornare la legge che tutela chi decide di aiutare i magistrati (a marzo compirà 25 anni) e che dopo l’estate stilerà una relazione con le proposte di modifica.


Il motivo è presto detto: fra collaboratori ("pentiti") e testimoni (comuni cittadini al di fuori delle organizzazioni criminali) i programmi di protezione riguardano un numero crescente di persone. Solo nel 2014 le persone accolte nel cosiddetto "sistema tutorio" sono aumentate di 64 unità, cui vanno aggiunti i loro 318 familiari. Ne consegue che assicurare la tenuta dell’impianto - dai contributi erogati mensilmente al pagamento degli affitti nelle località protette, dall’assistenza legale a quella psicologica - sta diventando sempre più impegnativo. Soprattutto dal punto di vista economico.

L’anno scorso per assistere 1.203 pentiti, 85 testimoni e quasi 5 mila congiunti lo Stato ha speso 89 milioni, il 20 per cento in più di appena un quinquennio fa. E i soldi per il 2015, sforbiciati con l’ultima legge di stabilità , termineranno entro l’estate, sicché a breve sarà necessario rimpinguare l’apposito capitolo di bilancio. Dunque per “evitare che si determini l’aumento delle spese di gestione del sistema” - come si legge nell’ultima relazione inviata al Parlamento - bisogna “favorire il ‘turn over’, cioè il pieno equilibrio tra gli ingressi e le uscite”.

Facile a dirsi. Solo che uscire da un programma di protezione è diventato quasi impossibile, come mostrano i numeri in aumento. Intanto perché, terminati gli impegni processuali, serve il parere favorevole della Procura distrettuale e di quella nazionale antimafia, che arriva solo se si ritiene cessata l’esposizione al rischio. E in secondo luogo perché il reinserimento lavorativo si rivela quasi sempre un’impresa improba per chi è stato strappato dal proprio mondo per essere trapiantato a centinaia di chilometri da casa, non di rado è avanti con gli anni e non può nemmeno di aprire un conto corrente a causa dei documenti di copertura. E la situazione peggiore, per assurdo, riguarda proprio i testimoni, che in media hanno un livello di istruzione maggiore: da quando è iniziata la crisi nel 2008, ha ricostruito l’Espresso sulla base dei dati disponibili, statisticamente solo un paio l’anno ce l’hanno fatta a trovare un impiego, malgrado le risorse investite dallo Stato non siano poche.

Lo dimostra il caso della "capitalizzazione", una sorta di buonuscita elargita per favorire la definitiva autonomia economica: presentando un progetto documentato, i testimoni di giustizia possono ricevere fino a 10 anni di contributi mensili, ovvero qualche centinaia di migliaia di euro (per i pentiti le annualità scendono a 5). L’anno scorso sono stati impiegati oltre 4 milioni per finanziare l’avvio delle attività di una sessantina di tutelati, eppure raramente questi aiuti raggiungono lo scopo: "Spesso tale somma non è utilizzata in maniera fruttuosa e, dopo un periodo di tempo, il soggetto non dispone di ulteriori risorse finanziarie" si legge nell’ultimo rapporto.

Un vicolo cieco che sta spingendo il Viminale all’idea di istituire un assegno vitalizio reversibile in favore nel coniuge, più esteso nel tempo ma nell’immediato dal minor impatto economico per le casse pubbliche. Una sorta di "pensione di Stato", vita natural durante o almeno finché non si realizza un effettivo reinserimento lavorativo. L’altra strada percorsa finora, del resto, è ancora infruttuosa: per non lasciare i testimoni di giustizia in balia dell’inattività forzata, da pochi mesi una legge riconosce loro una corsia preferenziale per essere assunti nella pubblica amministrazione. Ma solo nei limiti della disponibilità di posti ed economica, che in tempi di risorse ridotte all’osso vuol dire pura teoria.

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2015

Sembra assurdo, ma è così: pentiti e testimoni costano troppo per le casse italiane. Nonostante il notevole aiuto nella lotta al crimine organizzato, mancano mezzi e uomini a sufficienza per garantire la necessaria sicurezza e il sostegno economico. Anzi, la situazione peggiorerà nei prossimi anni. Se infatti nell’ultimo semestre 2014 sono risultati insufficienti i circa 42 milioni impiegati per proteggere collaboratori e testimoni di giustizia, secondo quanto riportato nelle note di variazione alla legge di stabilità 2015, nel prossimo triennio i programmi per i soggetti a rischio subiranno un taglio di quasi il 30 per cento, passando da 85 a 60 milioni.

È la stessa relazione sui “programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia” a dirlo in maniera inequivocabile: dal 2009 c’è stato un progressivo taglio dei fondi messi a disposizione per l’assistenza sanitaria, sociale e lavorativa per testimoni e collaboratori di giustizia. Ed ecco allora che si riscontrano sempre più “problematiche di gestione sia per la sicurezza personale dei singoli soggetti sia per gli aspetti legati alla situazione logistica e dell’assistenza economica. Infatti, l’aspetto emergenziale è fortemente aggravato dalla carenza di disponibilità finanziaria che si protrae ormai da parecchi anni”. E, a fronte di risorse limitate, gli ultimi dati (pubblicati lo scorso settembre) dicono che il numero, tra pentiti e testimoni di giustizia (ovvero coloro che, non essendo interni alle criminalità organizzate, decidono di denunciare estorsioni o minacce), è in evidente crescita. Basti questo: oggi le persone sottoposte a programmi di protezione hanno superato quota 6000, 162 in più rispetto al semestre precedente. Mai così tante dal 1995.


Basti pensare a Lea Garofalo, una delle “fimmine” diventate l’emblema della lotta alla ‘ndrangheta. Lea aveva testimoniato sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Ammessa nel 2002 insieme alla figlia Denise, si vide estromessa dal programma nel 2006 perché «l’apporto dato non era stato significativo». Lea fece ricorso al TAR, che le diede torto, e poi al Consiglio di Stato, che invece le diede ragione. Nel dicembre del 2007 venne quindi riammessa al programma, ma poi decise di rinunciarvi ancora una volta volontariamente. Prima di trovarsi, per l’ultima volta, dinanzi ai suoi assassini.

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Se salta questa distinzione, allora il pentitismo, invece di essere uno strumento a cui lo Stato è costretto a ricorrere pur di riuscire a disarticolare sistemi criminali chiusi e impenetrabili, diviene una sorta di assicurazione per la vecchiaia e quasi un dopolavoro per qualche boss stanco e imbolsito, che sceglie a piacimento dal suo ricco bouquet di conoscenze criminali qualche fiore che può forse abbellire il quadro investigativo a disposizione dei PM, ma non più cambiarlo drasticamente. Certo, nel caso di Scotti il percorso è appena cominciato e non possiamo ancora sapere dove le sue parole condurranno gli inquirenti. Ma è bene avere presente che, per farlo parlare, lo Stato spende un mucchio di soldi e gli assicura una vita ripulita dal debito di giustizia che ammonta a trent’anni di carcere per i gravissimi delitti commessi, ormai passati in giudicato. E poiché nella gerarchia criminale alto è stato il rango di Pasquale Scotti, altrettanto elevato dovrà essere il suo contributo alla verità, e il numero di condanne che potranno essere spiccate grazie alla sua confessione.


Infine, in questa vicenda, viene a evidenza un nodo del nostro ordinamento giudiziario che si fa sempre più insolubile. Perché è scritto in Costituzione che nel nostro Paese l’azione penale è obbligatoria, e figuriamoci se, dopo il referendum del 4 dicembre, si può anche solo pensare di rivedere le scelte dei costituenti. Ma, in verità, anche prima di domenica scorsa questo principio non era all’ordine del giorno della riforma penale che galleggia da mesi al Senato. Come se funzionasse. Come se non si fosse tradotto nella più completa discrezionalità del magistrato, il quale può evidentemente, in nome dell’obbligatorietà, ambire a riscrivere qualche pezzo della storia della prima Repubblica. Il fatto è che, prima dell’art. 112 sull’esercizio obbligatorio dell’azione penale, c’è anche l’articolo 107, che impone di distinguere i magistrati fra loro solo per diversità di funzioni.

Cosicché anche il tentativo di dare una più incisiva struttura gerarchica alle procure, in grado di imporre linee di politica criminali efficaci, unitarie, proiettate sulle effettive emergenze o su reali allarmi sociali, si scontra alla fine con le garanzie di cui secondo la Costituzione gode ogni singolo magistrato, e sulla rigida difesa sindacale che la magistratura associata ne fa. Né vi è traccia, negli atti parlamentari o nelle intenzioni dichiarate del governo o di qualche forza politica, di una vera riforma dell’ordinamento giudiziario, che provi almeno a innalzare la soglia di accountability di scelte e comportamenti del singolo magistrato. Non resta allora che confidare nella serietà del lavoro svolto dalla procura e, nel caso in questione, nella volontà di Scotti di vuotare il sacco.

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28/11/2016

I dati del Viminale sulle persone minacciate dai clan sono una piccola lezione di antropologia mafiosa: se è la Campania a produrre il maggior numero di pentiti, è in Calabria il numero più alto di testimoni di giustizia (30, 24 uomini e 6 donne): «C’è una distanza abissale tra queste due figure – tiene a precisare Saffioti – Il collaboratore di giustizia ha fatto parte di un’organizzazione criminale e ha un incentivo a collaborare con lo Stato: lo fa per interesse, quasi sempre dopo essere stato arrestato e per avere sconti di pena. Li chiamano pentiti, ma difficilmente si pentono davvero. Il testimone invece è un cittadino comune che si ribella e denuncia. Ha solo da perdere da questa scelta». Con le sue dichiarazioni Saffioti fece incarcerare 48 affiliati alle cosche. Da allora non ha più ottenuto lavori nella sua regione, a parte un incarico che nessuno voleva, due anni fa: la demolizione della casa abusiva del clan Pesce, a Rosarno, costruita all’interno d’un parco archeologico. Alla fine di agosto, dopo il terremoto di Amatrice, ha messo a disposizione escavatori e materiale edile gratis per la ricostruzione, ma il suo appello è caduto nel vuoto: «Il problema non è la ’ndrangheta. Lo Stato sa tutto di questa gente, potrebbe affondare le organizzazioni criminali domani.


A essere marcio è il meccanismo dei lavori pubblici. Fa comodo vincere gli appalti senza gare, ottenere facilitazioni perché conosci qualcuno. Se stai nel giro ti autoassolvi, perché così fan tutti. Se vogliamo davvero un Paese migliore, dobbiamo prenderci la responsabilità che comporta il cambiamento».Attualmente sono 84 i testimoni di giustizia in Italia, per il 75% uomini e nell’elenco c’è anche un minorenne. I familiari sotto protezione sono 272, 110 uomini e 162 donne, fra i quali 98 minorenni. La Commissione giustizia della Camera ha appena ultimato una proposta di legge che consentirebbe l’assunzione obbligatoria (“in sovrannumero” rispetto alla pianta organica) dei testimoni da parte di enti pubblici. Nello stesso pacchetto è previsto pure un programma di sostegno all’attività di impresa, utilizzando beni sottratti alle mafie, una strada tuttavia considerata più impervia dal Viminale. Di certo c’è che la nuova vita, dopo una denuncia, è durissima: «Io ho sempre rifiutato aiuti economici, non voglio vivere di assistenzialismo – conclude Saffioti – Bisognerebbe agire con altri strumenti. Ecco perché propongo di destinare l’1% dei grandi appalti d’un territorio alle imprese che si sono ribellate alle mafie».


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28/8/2016

“La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva il boss palermitano Salvatore Cancemi. Mica era l’ultimo dei mafiosi, ma il primo componente della commissione di cosa nostra a saltare il fosso. Cancemi ha fatto scuola.

I ricordi a rate sono divenuti un tratto distintivo dei pentiti che amano i colpi di scena. Fanno leva sul buonismo di uno Stato, spesso permissivo, che si accolla il rischio di sacrificare una parte di credibilità sull’altare della ricerca della verità. Solo che i pentiti, protetti e coccolati, la verità che dovrebbero contribuire a raggiungere finiscono, a volte, per intorbidirla. Se due decenni dopo le lacrime e il sangue delle stragi si parla ancora di misteri i collaboratori di giustizia non possono essere esentati da responsabilità.

Sotto l’ombrello della protezione di Stato alcuni pentiti della vecchia mafia, nella migliore delle ipotesi, si sono tolti qualche sassolino dalle scarpe o, nella peggiore, hanno regolato conti in sospeso. Era una stagione diversa e il pentitismo un fenomeno tutto da scoprire. Se non ci sono più i mafiosi di una volta, figuriamoci i collaboratori di giustizia. I nuovi danno l’impressione di procedere a briglie sciolte. I verbali sono diventati contenitori prolassati di dichiarazioni. Dentro c’è di tutto: sensazioni, impressioni, umori e ciò che si conosce per sentito dire - tecnicamente si definisce de relato - e va a ingrossare il capitolo del “praticamente impossibile da verificare”.


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Il programma di protezione testimoni. Al programma speciale di protezione accede solo chi è in pericolo di vita. Alla base c’è una valutazione dell’autorità giudiziaria che ha un potere esclusivamente di segnalazione, chiarisce Catello Maresca, pubblico ministero della Dda di Napoli. Se il magistrato ravvisa l’urgenza e l’attualità del pericolo di vita di una persona lo segnala alla commissione centrale, che è l’organo preposto a ogni decisione. La commissione valuta caso per caso e si tratta di un giudizio cruciale, sottolinea Maresca, per evitare che si faccia abuso di questo status di testimone, attribuendolo a persone in cerca di aiuti economici o che vogliono semplicemente ricostruirsi una verginità. Se la commissione centrale delibera in favore della protezione ma non è in grado di agire tempestivamente, la competenza passa alla prefettura della località di residenza del testimone affinché attui le misure necessarie.

Il calvario dei testimoni. Che la vita all’interno del programma di protezione non sia facile lo conferma anche l’avvocato Giacinto Inzillo, specializzato nel diritto di mafia, che da Vibo Valentia segue diverse storie di testimoni, tutti accomunati dalle medesime difficoltà di ordine pratico. La prima è il cambiamento di residenza, che porta con sé una serie di effetti collaterali. "Il testimone viene condotto in una località segreta, nessuno può sapere dove sia, viene cancellato dal sistema sanitario nazionale, non può postare foto o informazioni di sé su Internet; se ha dei figli, anch’essi non possono comparire in foto di gruppo con gli amici. Gli viene data una casa, una mensilità che per legge deve essere commisurata al reddito, e ogni spostamento deve essere autorizzato. Persino se vuole incontrare i figli o rientrare nel paese d’origine deve chiedere il permesso, che non è scontato gli venga dato", racconta Inzillo.

Tempi non rispettati. La commissione centrale a questo punto ha sei mesi di tempo per predisporre il programma definitivo, in virtù del quale il testimone ha diritto a un risarcimento danni commisurato al reddito perso per avere abbandonato la propria vita, ma poiché questo termine non è sanzionato difficilmente viene rispettato. E a volte passano anni, durante i quali le persone invecchiano, perdono opportunità lavorative, sono tagliate fuori dal sistema produttivo e non hanno più contatti con la terra di origine. Come è successo a Carmelina Prisco, che dopo varie peregrinazioni in località protette del nord Italia, ha ricevuto una ingente somma di denaro con la quale ha avviato una pizzeria a Sora, ma gli affari non sono andati bene e da quando è tornata a Mondragone è alla ricerca di un lavoro che non riesce a trovare.

Un sistema da riformare. Di un sistema definito "inesorabilmente invecchiato" che "deve ritrovare la sua strada" - come si legge nella Relazione del 2014 sui testimoni di giustizia- si è occupata a più riprese anche la Commissione Antimafia. La precedente relazione, approvata nell’ottobre del 2013, è stata trasformata in una proposta di legge di riforma depositata in Parlamento nel dicembre 2015, sta per essere calendarizzata dalla commissione giustizia di Montecitorio. Le modifiche puntano a distinguere dai collaboratori e tutelare i testimoni nei loro luoghi di vita per evitare un "esilio". Del tema si è occupato poi anche un gruppo di lavoro istituito dal ministro dell’Interno Angelino Alfano con il compito di studiare l’attuale modello organizzativo del sistema di protezione dei testimoni e dei collaboratori, per renderlo più idoneo a soddisfare le esigenze dei cittadini.

Oggi i testimoni di giustizia in Italia sono un’ottantina, provenienti quasi tutti dalle regioni del sud: Campania, Calabria, Sicilia, qualcuno dalla Puglia. "Siamo testimoni, non collaboratori", è la prima precisazione che fanno quando si parla con loro. "La gente confonde le due figure, io stessa a volte sono stata trattata con la stessa diffidenza con cui si tratta un pentito. Ma i collaboratori con le mafie prima ci hanno fatto affari e poi si sono pentiti; noi testimoni invece le mafie le abbiamo prima subite e poi denunciate", precisa Carmelina Prisco.

Il miraggio dell’assunzione. Il 18 dicembre 2014 il governo, attraverso i ministri Alfano e Madia, ha adottato il regolamento per l’assunzione dei testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione. Doveva essere un’opportunità per chi ha perso tutto in nome della legalità, ma fino a oggi questa legge ha trovato applicazione solo in Sicilia e con risultati discutibili. In Campania i testimoni intanto si sono riuniti in un movimento per la legalità, molto attivo su Facebook, che ha l’ambizione di trasformarsi in futuro in un’associazione. Il movimento, di cui si è fatto portavoce Luigi Coppola, testimone di giustizia ed ex imprenditore di Pompei, sta facendo pressione sulla regione affinché dia attuazione alla legge per l’assunzione nel settore pubblico, complice anche il fatto che la posizione dei testimoni di giustizia oggi è equiparata a quella delle vittime di mafia e di terrorismo.

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PEZZI

LA STAMPA 28/11/16
È record di pentiti ma le loro rivelazioni contano meno
6300 sotto protezione tra collaboratori e familiari. L’investigatore: “Non sono più i tempi di Buscetta”
La deposizione del pentito Antonino Giuffrè al processo d’appello Andreotti
28/11/2016
Vicino all’ingresso sta installando le stesse telecamere che aveva appena smontato dall’alloggio segreto affittato dal ministero dell’Interno, la madre nella stanza accanto non sta bene e ogni tanto lo chiama. «Nessuno, qui, può e deve sapere chi sono». Sul portone saluta i vicini, si è presentato come il nuovo inquilino con cui dividere una porzione di terrazzo. “Tonino” Fasano prepara il caffè e guarda sotto al lavandino: «Quando stavo con i casalesi avevo così tanti soldi che tenevamo le banconote nei sacchetti della spazzatura: pacchi di contanti, ne pescavi un po’ per comprarti la macchina nuova o qualsiasi altra cosa.
D’altronde, consegnavo 300mila euro al mese di stipendi, chiamiamoli così: gregari, affiliati, avvocati…». Pausa. «Cambiavo casa ogni tre giorni per paura d’essere ammazzato, a ogni rumore gli occhi finivano sui monitor della videosorveglianza, da posizionare in ogni posto in cui dormi. Mi convinse a fare il salto un ufficiale dei carabinieri che i miei compagni volevano uccidere». Oggi ha 46 anni ed era fino al 2009 il luogotenente ad Aversa del boss Giuseppe Setola, legato all’ala stragista dei casalesi che nel 2008 compì il massacro di Castelvolturno: sei ghanesi falciati a colpi di kalashnikov per dare un segnale a chi contestava il loro strapotere, un punto di non ritorno nella storia criminale italiana.
Il rapporto del Viminale
Fasano è stato nel 2015 uno dei 1253 pentiti presenti in Italia, il massimo storico. Mai così tanti e lo conferma l’ultima relazione del Servizio centrale di protezione del Viminale, che a breve sarà consegnata al ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi presentata al Parlamento. La cifra è quasi raddoppiata in un decennio (erano 790 nel 2006), e la «popolazione protetta» inclusiva dei familiari raggiunge quota 6.300, ulteriore record. A cosa è legata l’escalation? Sono ancora figure così importanti? Con quali risorse rispondono i governi, che tengono un atteggiamento perlomeno contraddittorio? E perché i testimoni di giustizia, loro sì vittime delle cosche e costrette a vivere sotto scorta dopo averle denunciate, restano molto inferiori?
La storia di “Tonino” Fasano aiuta a calarsi in un ragionamento più complessivo, su un tema che per sua natura resta quasi inabissato. Lo abbiamo incontrato in due degli appartamenti nei quali ha vissuto fra Lazio, Alto Adige e Lombardia, in un caso dopo la recente uscita dal programma di protezione. «Sono stato prosciolto dall’accusa di aver fatto parte del commando, da poco un’altra testimonianza mi ha rimesso in mezzo». Eccoci. «Ho fatto il collaboratore di giustizia per sette anni e partecipato a dieci processi. Lo Stato mi ha assistito e aiutato, penso che le mie rivelazioni siano state importanti. A un certo punto qualcosa si è rotto e ho avuto meno di ciò che mi era stato garantito. Ho subito pressioni dagli agenti delegati al rapporto con figure come la mia, non hanno rispettato gli accordi. So che siamo degli impresentabili, agli occhi di tutti. Ma il patto, se si crea, dovrebbe funzionare fino in fondo». Quant’è accettabile un’affermazione del genere, sebbene sia indubbio che il sistema stia raggiungendo un livello di saturazione non semplice da gestire?
L’offensiva dello Stato
Andrea Caridi è nato in Calabria e ha fatto per una vita l’investigatore, soprattutto a Palermo, e da un anno è il capo del Servizio centrale di protezione: «È una fase diversa rispetto alla metà degli Anni 90, i pentimenti dei big di Cosa Nostra come Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo o Pino Marchese. Oggi siamo davanti a gregari di medio livello provenienti perlopiù dalla camorra (il 45%) che si consegnano perché rimasti in un vicolo cieco». Il boom nel numero dei pentiti ha per lui una chiave di lettura semplice: è l’effetto delle indagini che disarticolano i clan, rendendo la collaborazione unica via d’uscita al carcere o alla morte. «Per la ’ndrangheta è diverso. Essendo una mafia cementata sui legami familiari, smarcarsi significherebbe denunciare fratelli, padri, sorelle. Ecco perché accade di rado».
L’ufficio che dirige in un palazzone dell’Eur a Roma è un posto abbastanza strano, e nei corridoi capita d’incrociare vecchi sicari a fare anticamera per ottenere un piccolo incremento nell’assegno, un nuovo documento di copertura, un aiuto sulle spese scolastiche dei figli. «Il 90% degli assistiti è insoddisfatto e non mi sorprende – aggiunge – Parliamo di gente assuefatta a esistenze da milionari, anche se magari vivevano in quartieri popolari. Non è facile adattarsi. Da un giorno all’altro vieni sradicato per ragioni di sicurezza, e sperimenti le condizioni economiche di tanti italiani che devono far quadrare i conti». La macchina è complessa: insieme a un ex criminale vengono mantenuti in media cinque suoi familiari, saldati affitti e parecchie spese sanitarie. Senza dimenticare che le identità fittizie, quando richieste e concesse, vanno rese compatibili con i vari database nazionali. Lo “stipendio” mensile (dai 900 euro in su in base al numero dei parenti a carico) è prelevato in contanti attraverso un bancomat speciale da utilizzare solo in sportelli prestabiliti. «I miei omologhi russi e americani assistono un numero di persone simili al nostro – chiude Caridi – ma parliamo di Paesi molto più vasti e con risorse differenti».
Il rischio “inflazione”
Non tutti sono convinti che l’apporto dei collaboratori resti fondamentale «ed è sempre più difficile trovarne qualcuno che fornisca notizie interessanti». A parlare è un carabiniere del Ros specializzato da quindici anni nel contrasto alla ’ndrangheta, che chiede l’anonimato: «Verificare le notizie è un impegno notevole, spesso le informazioni contraddicono quelle fornite da altri fuoriusciti. Non significa che mentano, magari non sanno abbastanza. Il paradosso è che la comparazione delle nuove rivelazioni può complicare il nostro lavoro, invece di snellirlo». Napoli, dove Fausto Lamparelli dirige la squadra mobile della polizia, è la città dove si registra il picco di pentimenti: «Perquisizioni e arresti tolgono respiro ai clan, ecco perché alcuni membri decidono di collaborare. L’erosione del potere mafioso è all’origine del crollo nell’età media dei camorristi, la cosiddetta “paranza dei bambini”. Sono giovanissimi dal percorso improvvisato, più violenti ma meno autorevoli e durano poco: o vengono ammazzati o finiscono all’ergastolo in un paio d’anni. La base investigativa è sempre più solida e spesso le rivelazioni degli ex non aggiungono novità sostanziali. Certo, il punto di vista interno rimane utile».
L’intelligence cresce, grazie alla base fornita dai pentiti in passato; ma questo avanzamento rende meno essenziale l’apporto dei nuovi, certificando una sorta d’inflazione. Perciò lo Stato, pur garantendo sulla carta il mantenimento di risorse «adeguate», taglia. Lo ha fatto con la legge di stabilità 2015, che ha ridotto del 30% netto gli stanziamenti «ordinari» al Servizio di protezione. «Attenzione a non fraintendere – spiega il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), al vertice della Commissione sui collaboratori – poiché in corso d’opera garantiamo ogni spesa extra». Tradotto: l’esecutivo drena a monte e i dirigenti del Servizio si barcamenano, grazie all’acrobatica spending-review di funzionari più simili a manager che a burocrati. Sono state cancellate le mediazioni immobiliari, contenuti i compensi per i legali dei collaboratori («di fatto li difendono già i pubblici ministeri», spiegano al Viminale) e quasi azzerato il budget dei soggiorni in albergo nella fase intermedia di vigilanza, dal primo giorno di pentimento fino all’assegnazione dell’alloggio vero e proprio. Può pure capitare che si faccia qualche debito, poi ripianato fra novembre e dicembre grazie ai fondi «in assestamento» con i quali si fa rientrare dalla finestra ciò che non era passato dalla porta principale.
Chi torna a delinquere
Uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori fu Giovanni Falcone. E anche per questo le “ricadute” periodiche del supertestimone per eccellenza Tommaso Buscetta furono un capitolo amaro nella lotta antimafia. Quei personaggi non ci sono più, ma i deragliamenti non mancano (ogni anno in 15 vengono espulsi dal programma). Di recente è successo a Sebastiano Cassia, da protagonista di Mafia Capitale a teste chiave, intercettato con un passamontagna e un coltello fuori da una gioielleria; o a Salvatore Caterino, ex camorrista che denunciò le collusioni dell’ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino (da poco condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), scoperto a fare estorsioni per posta. Quant’è concreto il rischio che si torni a delinquere? Prova a rispondere Francesco Messina, che ha combattuto la mafia siciliana nei Servizi segreti, i casalesi da questore di Caserta e da poco guida la polizia a Perugia. «La figura del pentito si sta un po’ svalutando, ne abbiamo troppi e spesso di scarsa qualità. Ce lo riferiscono le Procure, che hanno una visione d’insieme e valutano attendibilità e costi. Ritengo che il rischio d’una regressione sia correlato al valore del singolo: se era ai vertici del clan e racconta cose davvero importanti, difficilmente tornerà indietro».
Tonino Fasano, entrato e uscito dalla protezione, ha appena finito il caffè: «Non ricomincerò a delinquere, ma è difficilissimo dopo aver vissuto in quel modo». Lo sguardo si posa ancora sulla porta, lo stesso gesto paranoico d’un tempo, senza mazzette da pescare nell’immondizia. Una volta imboccata la strada opposta, le preoccupazioni e le frustrazioni - così recitava l’ex boss in un famoso film di mafia - diventano quelle di tutti: «Mi tocca fare le code e mangiare male, come qualsiasi “normale nullità”».




Dal Foglio 3/12/2016
Marescialli, pentiti e bottane
di Giuseppe Sottile
Dai fanfaroni di Stato ai pm che li inseguono: l’emergenza ha creato nuove categorie di intoccabili.
Negli anni lupigni della mafia, il maresciallo Procopio Castiglione, in forza alla Squadra mobile di Palermo, rischiò una vera e propria crisi coniugale. Per trentasette notti consecutive non si era ritirato a casa. “Ragioni di servizio”, spiegava alla moglie. E spiegando confidava che “il signor Capo” dava in quel tempo la caccia a Prospero Munafò, detto Asparino, picciotto di mezza mafia, da anni alla macchia, che il boss Saro Riccobono, capobastone di Partanna Mondello, utilizzava per gli omicidi più schifiati. Asparino era il malacarne addetto - burocraticamente addetto – alle vendette trasversali; all’uccisione cioè di quegli sventurati che con la mafia non c’entravano nulla ma venivano colpiti solo perché arrivasse un segnale a chi avrebbe dovuto capire e si ostinava invece a non capire. Delitti infami, insomma. Come quelli dei bambini, che nemmeno i killer di panza alta volevano eseguire: dicevano di averne il fegato, ma al momento di agire se ne vergognavano.
Dopo ogni tiro (si chiamava così, in quel giro, l’omicidio: forse per lenirne il rimorso; forse per riportarlo alla leggerezza sportiva del tiro al piccione o del tiro al volo) Asparino si concedeva in premio un’appanzicata di “salsiccia e birra”. Birra a volontà. Dopo la quale andava puntualmente a bottane. Una, due, anche tre. A volontà. Si infilava nel vicolo Gran Cancelliere e si perdeva nella “grouffe” del Cassaro. Per scovarlo - quando decisero di scovarlo – gli uomini del “signor Capo” tennero per trentasette notti sott’occhio le case socchiuse di cinque ragazze di vita, brune e pacchiottelle: ché a Prospero Munafò piacevano così, in carne. Fino a quando la “brillante operazione” fu portata a termine e prontamente consegnata al mattinale della questura e all’uso che di quel mattinale avrebbero fatto giornali e telegiornali. Elogi e gloria a volontà.
Sette anni dopo, il maresciallo Procopio Castiglione, ormai vicino alla sessantina, ha rischiato una seconda crisi coniugale. Per tre notti di fila non si è ritirato a casa. Era stato “comandato in servizio” per una “missione concordata superiormente con l’autorità giudiziaria”. E la cui riservatezza doveva essere tale che non se ne poteva fare confidenza nemmeno alla moglie. Coadiuvato da tre uomini che in passato avevano prestato servizio alla Buoncostume, il maresciallo Castiglione aveva ricevuto il preciso incarico di accudire alle “esigenze personali” di un collaboratore di giustizia che, alla vigilia di “un importante passaggio giudiziario contro un uomo politico accusato di collusione con la mafia”, aveva avanzato la “legittima richiesta di trascorrere in compagnia di una donna alcuni momenti di intimità”. Alla squadra di poliziotti addetti – burocraticamente addetti – alle esigenze personali del pentito era stato anche ordinato di “lasciarsi guidare dal medesimo nella ricerca delle figure femminili da contattare” e di limitare allo stretto necessario qualsiasi domanda “circa l’identità delle persone coinvolte, o da coinvolgere”.
Per tre notti gli uomini del maresciallo tennero nuovamente sott’occhio le porte socchiuse del vicolo Gran Cancelliere. Aspettando che il pentito Prospero Munafò, appagata la voglia di sesso e di baldoria, ritornasse a bordo dell’autocivetta di servizio, una alfetta trentatrè di colore nocciola munita di autoradio, per essere accompagnato alle Torri di viale del Fante e riconsegnato al Servizio protezione. I giornali non ne parlarono. Ma il signor Capo, il giorno dopo, non mancò di convocare il maresciallo Procopio Castiglione e di elogiarlo non solo per la “brillante operazione”, ma anche per “l’impenetrabile riservatezza con la quale aveva compiuto il suo dovere”. Lodi e onori a volontà.
Ci ricorderemo di quegli anni. E ricorderemo anche, con devozione, le notti bianche del maresciallo Procopio Castiglione al quale un ministro della Repubblica, su proposta del “signor Capo”, avrebbe forse dovuto consegnare in contemporanea almeno due onorificenze: una per avere catturato, tra i vicoli del Gran Cancelliere, un killer della mafia, spietato e libidinoso; e l’altra per avere obbedito, sette anni dopo, all’ordine di accompagnare quel killer negli stessi vicoli perché, da pentito, Munafò non poteva essere più considerato un malacarne ma un uomo prezioso per la lotta alla mafia: con le sue rivelazioni avrebbe consentito la cattura e la condanna di chissà quanti boss; e se alla vigilia di una decisiva deposizione si era spinto a chiedere il permesso di fare una scappata al Gran Cancelliere per rivedere una delle sue vecchie e amatissime bottane, quale magistrato poteva mai dirgli di no? Erano anni di zelo e di azzardo. Lo Stato non voleva più piangere i suoi morti e aveva finalmente deciso di passare al contrattacco. Con ogni mezzo. Anche quello di assegnare privilegi a chi avrebbe meritato invece disprezzo e galera.
Certo, la legislazione d’emergenza ha costretto la civiltà del diritto a subire non pochi sfregi. Ma quel che conta, sia detto con civile cinismo, è che alla fine della giostra lo Stato ha vinto e la mafia ha perso: di stragi, grazie a Dio, non si avverte più nemmeno l’odore; il numero degli omicidi ha toccato il minimo storico; i boss che diedero vita alla verminosa stagione del sangue sono stati quasi tutti arrestati e molti di loro sono morti in carcere e senza mai rivedere la libertà. La guerra – perché di una vera guerra si è trattato – è stata lunga, lunghissima. La chiameremo la guerra dei trent’anni. Quanto durerà ancora?
Difficile dirlo, perché le variabili sono ancora tante. Le forze dell’antimafia hanno tagliato tutti gli alberi e i rami che hanno incontrato, ma molte radici della malapianta sono ancora lì, conficcate tra le terre malsane dell’incertezza e del disagio. Non solo. La fine della guerra dipenderà anche dal potere che, in questi trent’anni, hanno conquistato le lobby e le caste cresciute sotto i generosi tendoni dell’emergenza. A cominciare dai pentiti, molti dei quali hanno avuto modo di sperimentare la maglia larga delle regole e ora tentano in tutti i modi di fare valere le proprie ragioni e i propri interessi.
Nel 2015 il numero dei collaboratori di giustizia affidati dalle procure al servizio protezione del Viminale ha toccato il record di 1253. Negli ultimi dieci anni la cifra anziché diminuire è quasi raddoppiata (nel 2006 erano 790) e, di conseguenza, si è dilatata a dismisura anche la cosiddetta “popolazione protetta”, quella che include i familiari: l’ultimo dato parla di 6300 persone, un fiume di gente alla quale lo Stato deve garantire quotidianamente sicurezza e ogni altro genere di conforto, dalle macchine di scorta al cambio di residenza, dall’assistenza legale all’assistenza sanitaria, dalla scuola per i figli all’identità fittizia.
Servono ancora tutti questi pentiti? Gli stessi responsabili del Servizio protezione ammettono che “non sono più i tempi di Tommaso Buscetta, né quelli di Totuccio Contorno”: vite scellerate che Giovanni Falcone, giudice di grande coraggio e di grande mestiere, amministrò con tale saggezza da inchiodare, al termine del maxi processo di Palermo, oltre trecentocinquanta boss, tutti di alta caratura. Oggi, invece, sono i tempi delle mezze tacche, dei personaggi di terza e quarta fila che, in cambio della protezione e dei benefici di legge, più o meno onestamente raccontano quel poco che sanno: provengono nella maggior parte da cosche prive di spessore e se intuiscono che il magistrato vuole sapere qualcosa che loro non sanno riescono a trovare comunque il modo di rabberciare un verbale, utile per ogni buon fine.
Insomma, dai tempi di Buscetta siamo passati ai tempi di Nino Lo Giudice, detto “il Nano” che puntualmente dice e si contraddice, che oggi si occupa di mafia e domani di ’ndrangheta, che oggi conferma e domani ritratta, che un giorno chiacchiera di complotti e il giorno dopo di ordinaria delinquenza, che entra ed esce dal Servizio protezione con la stessa disinvoltura con cui si passa dalla malavita alla bella vita. Più che un personaggio, una macchietta. Eppure anche lui, come tanti altri suoi colleghi, si muove con la stessa tracotanza di Prospero Munafò, il pentito col vizio delle bottane palermitane. A che cosa deve tanto potere? Forse al fatto che i fanfaroni di Stato, come Lo Giudice, sono funzionali non tanto alla ricerca della verità ma al gioco grande di quella strettissima cerchia di magistrati – ormai in minoranza anche nelle procure di frontiera – che in nome della sacrosanta lotta a Cosa nostra tentano di accumulare meriti e benemerenze. A volte anche con qualche forzatura, come quella di mettere in piedi inchieste farlocche, senza capo né coda, al solo scopo di incantare l’opinione pubblica, di girovagare per giornali e talk-show e poi presentarsi alle elezioni con i paramenti sacerdotali dell’eroismo e della legalità; o come quella di intercettare una telefonata forse poco opportuna del proprio capo e tenerla per sei mesi nel cassetto, in attesa di saggiare i comportamenti e vedere poi l’effetto che fa. Tanto loro, quelli della ristrettissima cerchia, sanno che non pagheranno mai pegno e che nessuna istituzione della Repubblica – dal Parlamento al Csm – avrà mai l’ardire di chiedergli conto e ragione su quanti innocenti hanno sputtanato o su quanti soldi dello Stato hanno sperperato, inventando improbabili “sistemi criminali”, inseguendo fantasmi e teoremi, macinando dibattiti e convegni.
Se i pentiti, pur con i loro capricci e i loro ricatti, sono la casta stracciona, i magistrati della ristrettissima cerchia sono la casta bramina. Intoccabile. Il sistema arrugginito delle leggi e dei controlli, che non a caso loro vogliono sempiterno e immobile, li garantisce e li protegge. Alla faccia del maresciallo Castiglione e di tutti quelli che nel corso della lunga guerra hanno rischiato, oltre a una crisi coniugale, anche la vita.
03 Dicembre 2016 - 06:54




Maggio 2006
Mannoia: sap, costo pentiti sproporzionato ai risultati
Il costo economico della gestione dei pentiti è "sproporzionato" rispetto ai risultati concreti ottenuti nella lotta alla criminalità organizzata. All’indomani delle rivelazioni sulla mega-richiesta di "buonuscita" (un milione di euro) avanzata dall’ex boss Francesco Marino Mannoia, sotto protezione negli Usa, il segretario nazionale del Sindacato autonomo di polizia, Filippo Saltamartini, non nasconde il suo disappunto. "In linea di principio la sorella di Falcone ha ragione - premette -, il mafioso sottratto al clan sottrae pericolosità all’azione complessiva dell’organizzazione: ma sul piano del contrasto valgono molto di più l’impegno e l’azione quotidiana degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine. E se è vero che dopo la stagione delle stragi, il fenomeno del pentitismo ha contribuito a sminuire la presunzione di onnipotenza di Cosa nostra, è altrettanto vero che in questo senso hanno inciso molto di più arresti eccellenti come quelli di Riina e di Provenzano". Non solo: per Saltamartini, il vero cuore dell’organizzazione mafiosa "è economico e finanziario: e non mi pare che si sia ancora riusciti ad arrivarci, aggredendo i patrimoni di origine illecita". In sintesi, il contributo dei collaboratori di giustizia, nel complesso, appare "significativo", ma "non fondamentale": lo Stato spende veri e propri tesori "in appartamenti, cure sanitarie, cambi di identita’", ed "anche dal punto di vista culturale non è che sia un grande esempio che un servitore dello Stato abbia diritto ad indennizzi 20 volte inferiore a quello di un ex boss". Per Saltamartini è anche un problema di trasparenza: "la gestione delle risorse destinate ai pentiti sconfina nel ’segreto’, mentre sarebbe l’ora che le buonuscite liquidate all’uscita dei programmi di protezione (in senso tecnico, capitalizzazioni, ndr) fossero pubbliche".



SENZA DATA PANORAMA
Pentiti in saldo
Quanto costano oggi i testimoni e i collaboratori di mafia? Dieci milioni in meno ogni anno. Grazie alla riforma del 2001, che ha posto un «tetto» alle retribuzioni e incentivato le uscite. Però un’associazione di avvocati denuncia che le disparità di trattamento continuano.
Per ora è soltanto un’indiscrezione, smentita dagli interessati. Ma l’ipotesi di una «liquidazione di Stato» da 1 milione di euro per il discusso pentito di mafia Francesco Marino Mannoia, circolata all’inizio di giugno, ha già suscitato un vespaio di polemiche.
Il perito chimico di Santa Maria del Gesù, oggi 55enne, venne arrestato nel 1989 e collaborò da subito con i magistrati palermitani, prestando la sua opera anche in occasione del processo a Giulio Andreotti. Dal 1995 Mannoia vive negli Stati Uniti con un assegno mensile di 10 mila euro: erogazione che cesserà se il Viminale deciderà di favorire l’uscita del pentito dal programma di protezione, contro il versamento di una cospicua buonuscita. «La cifra, però, non ammonterà di certo a 1 milione, ma al massimo a qualche centinaio di migliaia di euro» precisa Alfredo Mantovano, ex sottosegretario di An agli Interni e presidente uscente della Commissione centrale sui collaboratori di giustizia.
Le sue parole non servono a stemperare la polemica: da tempo la gestione di collaboratori e testimoni è oggetto di attacchi e contrasti, dovuti non certo alla natura dello strumento, che si è rivelato prezioso, quanto ai suoi costi e alle sperequazioni tra pentito e pentito. Eppure le cifre si sono molto assottigliate negli ultimi anni.
STOP AGLI STIPENDI D’ORO
Tra il 2001 e la fine di maggio del 2006 il Servizio centrale di protezione, struttura del ministero degli Interni dotata di fondi propri, ha «gestito» 71 testimoni, 904 collaboratori di giustizia e 3.122 loro congiunti. In tutto, si tratta di 4.097 persone. Il dato è in calo rispetto al quinquennio 1996-2001, quando i soggetti sotto tutela erano stati oltre 5 mila. Anche il budget destinato alla protezione si è ridotto: fino al 2001 il costo medio annuo della macchina organizzativa superava gli 80 milioni, oggi non raggiunge i 70.
Il merito è della legge-quadro numero 45 del 2001, che ha riorganizzato la materia. La norma ha posto per la prima volta un tetto massimo alle retribuzioni mensili dei pentiti, che non possono superare il quintuplo dell’assegno «sociale» (circa 400 euro): nessun nuovo protetto insomma può riscuotere più di 2 mila euro al mese. Il pericolo di stipendi d’oro come quelli assegnati in passato a pentiti illustri come Tommaso Buscetta, Balduccio Di Maggio e lo stesso Mannoia, dunque, è scongiurato per sempre.
Ma con le nuove regole lo Stato è intervenuto anche sullo spinoso fronte delle «capitalizzazioni»: quelle vere e proprie liquidazioni anticipate che dal 2001 vengono calcolate con parametri stabiliti per legge. Come una qualsiasi azienda in crisi, insomma, il Servizio centrale di protezione ha la facoltà di proporre ai suoi «assistiti» una buonuscita per incentivare il loro esodo dal programma.
L’idea sembra funzionare. Tra 1996 e 2001 le uscite volontarie dei pentiti sono state solo 144, mentre nel quinquennio successivo il loro numero è salito a 965, il 670% in più. «Lo strumento delle capitalizzazioni in questi anni si è rivelato utilissimo» conferma Mantovano «perché a fronte di esborsi considerevoli ha permesso nel medio periodo di ridurre la spesa del 30%».
Certo, l’obiettivo della legge del 2001 era anche quello di incoraggiare i cittadini a collaborare con l’autorità giudiziaria: invece il numero dei nuovi ammessi al programma è rimasto costante per l’intero decennio. Anzi, la commissione si è persino concessa il lusso di negare, il 26 maggio 2005, l’ingresso nel programma di protezione a Cinzia Banelli, la prima pentita delle nuove Br che con la sua confessione ha contribuito a chiarire molti particolari degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi.
Anche sul fronte delle paghe non sempre le cose vanno nel verso giusto. «Sul piano economico la gestione dei collaboratori di giustizia si è mostrata deficitaria, per non dire di peggio» attacca Filippo Trippanera, avvocato e presidente di Ezechiele 37 (l’associazione prende il nome da un passo della Bibbia che parla di «conversione del nemico»), che assiste 20 testimoni di mafia ex protetti. «Le disparità sono ancora evidenti» aggiunge «e non riguardano solo le capitalizzazioni».
TRATTATIVE INFORMALI
Ezechiele 37 contesta che l’importo medio dell’assegno di mantenimento, quello che in teoria dovrebbe garantire ai testimoni e ai loro congiunti più stretti condizioni di vita «in linea con il tenore vissuto precedentemente all’inizio del programma», sia piuttosto basso: 1.350 euro, più 150 circa per ogni congiunto. E l’organizzazione denuncia il caso di un testimone-chiave a uno dei primi maxiprocessi di mafia che si è dovuto accontentare di 820 euro al mese.
Certo, casa e spese mediche restano a carico dello Stato. Ma solo fino a quando il contributo dei soggetti sotto protezione è ritenuto «utile». Poi scatta il bonus di uscita. Anche in questo caso i limiti stabiliti dalla legge sono elastici: l’importo deve andare dalle 2 alle 10 annualità. Ma quasi sempre viene stabilito con una trattativa informale tra le parti.
Chi è fortunato, oltre all’assegno, ottiene un impiego nel parastato o una licenza da tassista o da tabaccaio già pagata. Agli altri tocca arrangiarsi, come racconta Trippanera: «C’è l’imprenditore calabrese che, dopo aver fatto condannare per estorsione gli esponenti di una cosca del Crotonese, è stato trasferito in una località del Centro Italia con la moglie e i due figli. Non riuscendo a mantenere tutti con una busta paga da 1.500 euro, si è visto costretto ad accettare una proposta di transazione da 150 mila. Oggi gestisce un bar, mentre la sua azienda, nel frattempo fallita, è stata rilevata da uomini vicini al clan».
È andata peggio a uno dei giovani testimoni dell’assassinio di don Pino Puglisi, il «prete coraggio» di Brancaccio.A fine processo è stato liquidato con una mazzetta di biglietti ferroviari «open» e un assegno da 35 mila euro: oggi riesce a pagarsi l’università solo grazie all’aiuto di un ente benefico. Mantovano contesta: «Tenere sotto controllo la situazione di oltre 4 mila persone non è facile, e i casi critici si contano sulle dita di una mano».
Il dibattito su pentiti e soldi, insomma, è ancora aperto. E aspetta al varco la prossima liquidazione eccellente.
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13/07/2015 l’Espresso
"Troppi pentiti e testimoni di giustizia": il governo studia per spendere di meno
I numeri dei tutelati aumentano, i costi pure. Per questo il Viminale vuole modificare la legge. Istituendo un assegno a vita per chi non riesce a trovare lavoro. E cercando di favorire l’uscita dai programmi di protezione. Che però si rivela sempre più difficile
di Paolo Fantauzzi
Troppi pentiti e testimoni di giustizia: il governo studia per spendere di meno
Dopo il turn over nel pubblico impiego, quello dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Detta così sembra brutale, eppure è proprio questo uno degli obiettivi che il ministero dell’Interno ha allo studio per tutti i soggetti a rischio inseriti in un programma di protezione. L’idea del ricambio (la "staffetta") l’ha lanciata il ministro Marianna Madia per gli statali: far uscire gli anziani e far entrare i giovani per rinnovare la macchina burocratica. Con le dovute proporzioni, è quanto si propone anche il gruppo di lavoro insediato al Viminale per aggiornare la legge che tutela chi decide di aiutare i magistrati (a marzo compirà 25 anni) e che dopo l’estate stilerà una relazione con le proposte di modifica.
Il motivo è presto detto: fra collaboratori ("pentiti") e testimoni (comuni cittadini al di fuori delle organizzazioni criminali) i programmi di protezione riguardano un numero crescente di persone. Solo nel 2014 le persone accolte nel cosiddetto "sistema tutorio" sono aumentate di 64 unità, cui vanno aggiunti i loro 318 familiari. Ne consegue che assicurare la tenuta dell’impianto - dai contributi erogati mensilmente al pagamento degli affitti nelle località protette, dall’assistenza legale a quella psicologica - sta diventando sempre più impegnativo. Soprattutto dal punto di vista economico.
L’anno scorso per assistere 1.203 pentiti, 85 testimoni e quasi 5 mila congiunti lo Stato ha speso 89 milioni, il 20 per cento in più di appena un quinquennio fa. E i soldi per il 2015, sforbiciati con l’ultima legge di stabilità , termineranno entro l’estate, sicché a breve sarà necessario rimpinguare l’apposito capitolo di bilancio. Dunque per “evitare che si determini l’aumento delle spese di gestione del sistema” - come si legge nell’ultima relazione inviata al Parlamento - bisogna “favorire il ‘turn over’, cioè il pieno equilibrio tra gli ingressi e le uscite”.
Facile a dirsi. Solo che uscire da un programma di protezione è diventato quasi impossibile, come mostrano i numeri in aumento. Intanto perché, terminati gli impegni processuali, serve il parere favorevole della Procura distrettuale e di quella nazionale antimafia, che arriva solo se si ritiene cessata l’esposizione al rischio. E in secondo luogo perché il reinserimento lavorativo si rivela quasi sempre un’impresa improba per chi è stato strappato dal proprio mondo per essere trapiantato a centinaia di chilometri da casa, non di rado è avanti con gli anni e non può nemmeno di aprire un conto corrente a causa dei documenti di copertura. E la situazione peggiore, per assurdo, riguarda proprio i testimoni, che in media hanno un livello di istruzione maggiore: da quando è iniziata la crisi nel 2008, ha ricostruito l’Espresso sulla base dei dati disponibili, statisticamente solo un paio l’anno ce l’hanno fatta a trovare un impiego, malgrado le risorse investite dallo Stato non siano poche.
Lo dimostra il caso della "capitalizzazione", una sorta di buonuscita elargita per favorire la definitiva autonomia economica: presentando un progetto documentato, i testimoni di giustizia possono ricevere fino a 10 anni di contributi mensili, ovvero qualche centinaia di migliaia di euro (per i pentiti le annualità scendono a 5). L’anno scorso sono stati impiegati oltre 4 milioni per finanziare l’avvio delle attività di una sessantina di tutelati, eppure raramente questi aiuti raggiungono lo scopo: "Spesso tale somma non è utilizzata in maniera fruttuosa e, dopo un periodo di tempo, il soggetto non dispone di ulteriori risorse finanziarie" si legge nell’ultimo rapporto.
Un vicolo cieco che sta spingendo il Viminale all’idea di istituire un assegno vitalizio reversibile in favore nel coniuge, più esteso nel tempo ma nell’immediato dal minor impatto economico per le casse pubbliche. Una sorta di "pensione di Stato", vita natural durante o almeno finché non si realizza un effettivo reinserimento lavorativo. L’altra strada percorsa finora, del resto, è ancora infruttuosa: per non lasciare i testimoni di giustizia in balia dell’inattività forzata, da pochi mesi una legge riconosce loro una corsia preferenziale per essere assunti nella pubblica amministrazione. Ma solo nei limiti della disponibilità di posti ed economica, che in tempi di risorse ridotte all’osso vuol dire pura teoria.
Così il governo si sta rivolgendo alle regioni, chiedendo loro di farsene carico. Finora l’unica che ha risposto all’appello è stata la Sicilia, che si è impegnata ad assumerne 47. Un messaggio forte che voleva essere un incentivo a denunciare. Solo che all’ultimo, per motivi di sicurezza, il Servizio centrale di protezione ha imposto alla Regione di non farli tornare nell’isola ma di distaccarli nell’ufficio di rappresentanza di Roma. Di fatto “una camera mortuaria dove stanno stipati tutti i testimoni” come ha scritto uno di loro in una lettera inviata alle autorità. Difficile non concordare: in questo modo l’assunzione rischia davvero di trasformarsi in una trappola fatale .

Fonte: Marco Grasso; Matteo Indice, La Stampa 28/11/2016

Testo Frammento
PENTITI-RECORD MA LE CONFESSIONI VALGONO MENO –
Vicino all’ingresso sta installando le stesse telecamere che aveva appena smontato dall’alloggio segreto affittato dal ministero dell’Interno, la madre nella stanza accanto non sta bene e ogni tanto lo chiama. «Nessuno, qui, può e deve sapere chi sono». Sul portone saluta i vicini, si è presentato come il nuovo inquilino con cui dividere una porzione di terrazzo. “Tonino” Fasano prepara il caffè e guarda sotto al lavandino: «Quando stavo con i casalesi avevo così tanti soldi che tenevamo le banconote nei sacchetti della spazzatura: pacchi di contanti, ne pescavi un po’ per comprarti la macchina nuova o qualsiasi altra cosa.
D’altronde, consegnavo 300mila euro al mese di stipendi, chiamiamoli così: gregari, affiliati, avvocati…». Pausa. «Cambiavo casa ogni tre giorni per paura d’essere ammazzato, a ogni rumore gli occhi finivano sui monitor della videosorveglianza, da posizionare in ogni posto in cui dormi. Mi convinse a fare il salto un ufficiale dei carabinieri che i miei compagni volevano uccidere». Oggi ha 46 anni ed era fino al 2009 il luogotenente ad Aversa del boss Giuseppe Setola, legato all’ala stragista dei casalesi che nel 2008 compì il massacro di Castelvolturno: sei ghanesi falciati a colpi di kalashnikov per dare un segnale a chi contestava il loro strapotere, un punto di non ritorno nella storia criminale italiana.


Il rapporto del Viminale. Fasano è stato nel 2015 uno dei 1253 pentiti presenti in Italia, il massimo storico. Mai così tanti e lo conferma l’ultima relazione del Servizio centrale di protezione del Viminale, che a breve sarà consegnata al ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi presentata al Parlamento. La cifra è quasi raddoppiata in un decennio (erano 790 nel 2006), e la «popolazione protetta» inclusiva dei familiari raggiunge quota 6.300, ulteriore record. A cosa è legata l’escalation? Sono ancora figure così importanti? Con quali risorse rispondono i governi, che tengono un atteggiamento perlomeno contraddittorio? E perché i testimoni di giustizia, loro sì vittime delle cosche e costrette a vivere sotto scorta dopo averle denunciate, restano molto inferiori?
La storia di “Tonino” Fasano aiuta a calarsi in un ragionamento più complessivo, su un tema che per sua natura resta quasi inabissato. Lo abbiamo incontrato in due degli appartamenti nei quali ha vissuto fra Lazio, Alto Adige e Lombardia, in un caso dopo la recente uscita dal programma di protezione. «Sono stato prosciolto dall’accusa di aver fatto parte del commando, da poco un’altra testimonianza mi ha rimesso in mezzo». Eccoci. «Ho fatto il collaboratore di giustizia per sette anni e partecipato a dieci processi. Lo Stato mi ha assistito e aiutato, penso che le mie rivelazioni siano state importanti. A un certo punto qualcosa si è rotto e ho avuto meno di ciò che mi era stato garantito. Ho subito pressioni dagli agenti delegati al rapporto con figure come la mia, non hanno rispettato gli accordi. So che siamo degli impresentabili, agli occhi di tutti. Ma il patto, se si crea, dovrebbe funzionare fino in fondo». Quant’è accettabile un’affermazione del genere, sebbene sia indubbio che il sistema stia raggiungendo un livello di saturazione non semplice da gestire?


L’offensiva dello Stato. Andrea Caridi è nato in Calabria e ha fatto per una vita l’investigatore, soprattutto a Palermo, e da un anno è il capo del Servizio centrale di protezione: «È una fase diversa rispetto alla metà degli Anni 90, i pentimenti dei big di Cosa Nostra come Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo o Pino Marchese. Oggi siamo davanti a gregari di medio livello provenienti perlopiù dalla camorra (il 45%) che si consegnano perché rimasti in un vicolo cieco». Il boom nel numero dei pentiti ha per lui una chiave di lettura semplice: è l’effetto delle indagini che disarticolano i clan, rendendo la collaborazione unica via d’uscita al carcere o alla morte. «Per la ’ndrangheta è diverso. Essendo una mafia cementata sui legami familiari, smarcarsi significherebbe denunciare fratelli, padri, sorelle. Ecco perché accade di rado».
L’ufficio che dirige in un palazzone dell’Eur a Roma è un posto abbastanza strano, e nei corridoi capita d’incrociare vecchi sicari a fare anticamera per ottenere un piccolo incremento nell’assegno, un nuovo documento di copertura, un aiuto sulle spese scolastiche dei figli. «Il 90% degli assistiti è insoddisfatto e non mi sorprende – aggiunge – Parliamo di gente assuefatta a esistenze da milionari, anche se magari vivevano in quartieri popolari. Non è facile adattarsi. Da un giorno all’altro vieni sradicato per ragioni di sicurezza, e sperimenti le condizioni economiche di tanti italiani che devono far quadrare i conti». La macchina è complessa: insieme a un ex criminale vengono mantenuti in media cinque suoi familiari, saldati affitti e parecchie spese sanitarie. Senza dimenticare che le identità fittizie, quando richieste e concesse, vanno rese compatibili con i vari database nazionali. Lo “stipendio” mensile (dai 900 euro in su in base al numero dei parenti a carico) è prelevato in contanti attraverso un bancomat speciale da utilizzare solo in sportelli prestabiliti. «I miei omologhi russi e americani assistono un numero di persone simili al nostro – chiude Caridi – ma parliamo di Paesi molto più vasti e con risorse differenti».


Il rischio “inflazione”. Non tutti sono convinti che l’apporto dei collaboratori resti fondamentale «ed è sempre più difficile trovarne qualcuno che fornisca notizie interessanti». A parlare è un carabiniere del Ros specializzato da quindici anni nel contrasto alla ’ndrangheta, che chiede l’anonimato: «Verificare le notizie è un impegno notevole, spesso le informazioni contraddicono quelle fornite da altri fuoriusciti. Non significa che mentano, magari non sanno abbastanza. Il paradosso è che la comparazione delle nuove rivelazioni può complicare il nostro lavoro, invece di snellirlo». Napoli, dove Fausto Lamparelli dirige la squadra mobile della polizia, è la città dove si registra il picco di pentimenti: «Perquisizioni e arresti tolgono respiro ai clan, ecco perché alcuni membri decidono di collaborare. L’erosione del potere mafioso è all’origine del crollo nell’età media dei camorristi, la cosiddetta “paranza dei bambini”. Sono giovanissimi dal percorso improvvisato, più violenti ma meno autorevoli e durano poco: o vengono ammazzati o finiscono all’ergastolo in un paio d’anni. La base investigativa è sempre più solida e spesso le rivelazioni degli ex non aggiungono novità sostanziali. Certo, il punto di vista interno rimane utile».
L’intelligence cresce, grazie alla base fornita dai pentiti in passato; ma questo avanzamento rende meno essenziale l’apporto dei nuovi, certificando una sorta d’inflazione. Perciò lo Stato, pur garantendo sulla carta il mantenimento di risorse «adeguate», taglia. Lo ha fatto con la legge di stabilità 2015, che ha ridotto del 30% netto gli stanziamenti «ordinari» al Servizio di protezione. «Attenzione a non fraintendere – spiega il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), al vertice della Commissione sui collaboratori – poiché in corso d’opera garantiamo ogni spesa extra». Tradotto: l’esecutivo drena a monte e i dirigenti del Servizio si barcamenano, grazie all’acrobatica spending-review di funzionari più simili a manager che a burocrati. Sono state cancellate le mediazioni immobiliari, contenuti i compensi per i legali dei collaboratori («di fatto li difendono già i pubblici ministeri», spiegano al Viminale) e quasi azzerato il budget dei soggiorni in albergo nella fase intermedia di vigilanza, dal primo giorno di pentimento fino all’assegnazione dell’alloggio vero e proprio. Può pure capitare che si faccia qualche debito, poi ripianato fra novembre e dicembre grazie ai fondi «in assestamento» con i quali si fa rientrare dalla finestra ciò che non era passato dalla porta principale.


Chi torna a delinquere. Uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori fu Giovanni Falcone. E anche per questo le “ricadute” periodiche del supertestimone per eccellenza Tommaso Buscetta furono un capitolo amaro nella lotta antimafia. Quei personaggi non ci sono più, ma i deragliamenti non mancano (ogni anno in 15 vengono espulsi dal programma). Di recente è successo a Sebastiano Cassia, da protagonista di Mafia Capitale a teste chiave, intercettato con un passamontagna e un coltello fuori da una gioielleria; o a Salvatore Caterino, ex camorrista che denunciò le collusioni dell’ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino (da poco condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), scoperto a fare estorsioni per posta. Quant’è concreto il rischio che si torni a delinquere? Prova a rispondere Francesco Messina, che ha combattuto la mafia siciliana nei Servizi segreti, i casalesi da questore di Caserta e da poco guida la polizia a Perugia. «La figura del pentito si sta un po’ svalutando, ne abbiamo troppi e spesso di scarsa qualità. Ce lo riferiscono le Procure, che hanno una visione d’insieme e valutano attendibilità e costi. Ritengo che il rischio d’una regressione sia correlato al valore del singolo: se era ai vertici del clan e racconta cose davvero importanti, difficilmente tornerà indietro».
Tonino Fasano, entrato e uscito dalla protezione, ha appena finito il caffè: «Non ricomincerò a delinquere, ma è difficilissimo dopo aver vissuto in quel modo». Lo sguardo si posa ancora sulla porta, lo stesso gesto paranoico d’un tempo, senza mazzette da pescare nell’immondizia. Una volta imboccata la strada opposta, le preoccupazioni e le frustrazioni – così recitava l’ex boss in un famoso film di mafia – diventano quelle di tutti: «Mi tocca fare le code e mangiare male, come qualsiasi “normale nullità”».
Marco Grasso e Matteo Indice



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Fonte: di Giuseppe Lo Bianco, il Fatto Quotidiano 6/9/2016

Testo Frammento
“PENTITI, COSÌ LO STATO RISCHIA DI SVELARE LE LORO IDENTITÀ” –
Un bonifico di alcune decine di migliaia di euro (in qualche caso anche centinaia), una somma parametrata su 5 anni di “stipendi percepiti”, per finanziare il nuovo progetto di vita: così lo Stato, fino a sei mesi fa, liquidava la collaborazione dei pentiti di mafia. Ma i tempi si sono fatti più duri anche per i pentiti, costretti nonostante il loro ruolo, a subire le rigidità burocratiche: dall’8 febbraio scorso, denuncia l’avvocato Carmen Di Meo, difensore di numerosi collaboratori di giustizia, una direttiva esplicativa della commissione centrale di protezione ha disposto che il denaro non verrà più bonificato, ma consegnato attraverso singoli e distinti assegni intestati ai fornitori degli immobili e degli arredi necessari al nuovo progetto di vita. Un accorgimento, spiega il legale, che il ministero ha adottato dopo avere scoperto che alcuni pentiti non avevano dato corso al progetto, dopo avere percepito le somme, ma che oggi “rischia di porre in serio pericolo la sicurezza dei collaboratori”. In che modo? “A differenza del passato – spiega il legale – il collaboratore è costretto oggi a pagare i fornitori con titoli emessi con modalità complesse che rischiano di creare legittimi sospetti negli interlocutori – non essendo chiara l’intestazione del conto da cui provengono le somme – modalità che rischiano, di fatto, di far saltare così la copertura. Ma non solo. Al momento della capitalizzazione la legge prevede sei mesi per cancellare dall’anagrafe l’identità fittizia del collaboratore, nonostante lo Stato gli assegni una scorta in tribunale per altri due anni, con il conseguente disvelamento delle generalità e della nuova residenza del collaboratore. Ciò pone a serio rischio l’incolumità personale dei collaboratori”.
Per il legale la direttiva non pone alternative, di fatto, ai pentiti: “Se la somma non copre il finanziamento del progetto, dovrà essere il collaboratore a integrare la parte residua: l’unica scelta è quella di rinunciare a tre quinti della somma, se la si vuol prendere in contanti, e accontentarsi di soli due anni di capitalizzazione – sostiene l’avvocato Di Meo –, ma si tratta di una somma così esigua che non basta a finanziare un reale progetto di vita. Ci sono stati anche casi in cui, con il minimo previsto per chi non ha una famiglia, e cioè 64 mila euro, il collaboratore ha dovuto pagare l’immobile, il notaio, le tasse, l’arredamento e non gli è rimasto nulla per la famiglia’’. Cosa è cambiato, dunque, nella gestione della fase finale della collaborazione con la giustizia? “Molti miei clienti si stanno chiedendo se il gioco vale la candela’’, conclude l’avvocato Di Meo.
di Giuseppe Lo Bianco, il Fatto Quotidiano 6/9/2016