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 2017  gennaio 06 Venerdì calendario

IL TEATRO CONTRO L’ESASPERAZIONE DELL’IO: «SUL PALCO SI LAVORA TUTTI SULLO STESSO FIATO». L’ATTORE A PARIGI CON “ELVIRA” DI JACQUES: «UN ORGOGLIO PER ME». E I FRANCESI GIÀ LO CHIAMANO “L’IMMENSO”

Sessanta recite esauritissime, 27 mila spettatori, 75 minuti fatti di passione e talento: come dice lui, «il tentativo di costruire un alfabeto dei sentimenti». Elvira di Brigitte Jacques, diretto e interpretato da Toni Servillo, prodotto dal Piccolo Teatro e da Teatri Uniti, è stato lo smagliante successo della stagione a Milano. Nell’originale Elvire Jouvet 40, è la trascrizione delle sette lezioni tenute dal grande attore francese Louis Jouvet al Conservatoire di Parigi sotto l’occupazione nazista. Le forche caudine della sala di via Rovello dove aleggia lo spirito di Strehler sono state varcate di slancio. E ora la sfida si fa ancora più appassionante.
Servillo, dal 12 gennaio lei s’insedia per due settimane nella tana del lupo, cioè all’Athenée di Parigi che di Jouvet è stata la casa artistica fino alla morte, nel 1951. Stato d’animo?
«Emozionato, perché è come se un attore straniero andasse a recitare Eduardo al San Ferdinando di Napoli. Di Jouvet mi hanno assegnato addirittura il camerino, una specie di reliquia. Elvira non andava in scena a Parigi dalla fine degli Anni Ottanta. Sono orgoglioso che tocchi a una compagnia italiana farla rivivere anche per i francesi».
Sul sito del teatro la definiscono «l’immense Toni Servillo».
«Il che m’imbarazza. Ma di sicuro con Parigi ho un rapporto bellissimo: ci vado tutti gli anni, ho portato La trilogia della villeggiatura, Le voci di dentro e, sempre all’Athenée, Sabato domenica e lunedì. Di solito trovo anche un mio film nelle sale».
E stavolta?
«Tocca alle Confessioni di Roberto Andò. Il primo lunedì di riposo della compagnia lo presento al cinema Balzac con il mio amico Daniel Auteuil ».
Perché sono corsi così in tanti ad assistere a uno spettacolo che apparentemente parla solo agli addetti ai lavori?
«Perché invece parla a tutti, ed è un antidoto ai nostri tempi frettolosi. Lavorando al secondo monologo di Elvira dal Don Giovanni di Molière, Jouvet e la ragazza Claudia, interpretata da Petra Valentini, tracciano una relazione col proprio mestiere e con una maniera di stare al mondo. Questo vale per il tassista come per il chirurgo, per lo studente e per il prete. Il pubblico se ne accorge, eccome, e vi si riconosce».
Proprio all’inizio della pièce si proclama: «Senza sforzo non è bene». Un manifesto contro la fretta, ma anche contro la cialtroneria?
«Meglio ancora. Oggi le relazioni sociali, i media, un certo modo di far politica ci riportano a un’ossessiva riaffermazione identitaria. Al centro di Elvira sta invece il valore del dialogo, una relazione maieutica fra maestro e allieva che favorisce un accantonamento dell’io. E proprio il teatro è un luogo assembleare, condiviso, in cui si lavora sullo stesso fiato. Quando ci si riesce, è lo scandalo. La sorpresa».
Visti i tempi, può parere scandalosa pure la collaborazione fra due generazioni diverse.
«Una delle tragedie del nostro tempo è proprio la trasmissione dei saperi, perché ci vorrebbe da una parte l’assunzione di responsabilità di chi li trasmette, e dall’altra la disponibilità di chi deve accoglierli. Claudia è incantevole proprio perché non è un vaso vuoto da riempire, ma è mossa da un’ambizione intelligente, dal desiderio di approfittare di chi ha più esperienza».
A proposito di giovani generazioni: lei ha appena inaugurato una nuova sede dell’università di Napoli. Ci racconta?
«È una scelta di campo. Teatri Uniti è indipendente: crea, produce e distribuisce. Abbiamo deciso di restare nella nostra zona d’origine perché è importante che chi ci abita sappia che qui tutto è cominciato e tutto continua. Io non ho mai smesso di vivere a Caserta. E cerco di stare vicino a quelle esperienze, istituzionali oppure no, che danno un segnale a un territorio così difficile. I ragazzi del Nest, attori, registi, scenografi e drammaturghi, hanno ristrutturato una palestra a San Giovanni a Teduccio, là dove negli Anni Ottanta c’era un morto di camorra al giorno, e ci sono andato a recitare un monologo. Ma lì si apriva anche una sede della Federico II, con un bellissimo auditorium che finalmente rispetta il linguaggio del cinema, altro che i film visti sullo smartphone. Ho portato una testimonianza ».

Di Napoli il mondo si è sempre innamorato. Ma non le pare che ultimamente, fra Elena Ferrante, Toni Servillo, Sorrentino e Garrone succeda perfino un po’ di più?
«Succede di continuo, da sempre. La città è piena di problemi, ma certo non le manca il talento per le arti, la scrittura e lo spettacolo. Qui è in corso un esperimento continuo dello stare al mondo che favorisce la riflessione e l’espressione artistica. Un dialogo fra il centro e la periferia che ne fa una grande metropoli del globo, l’unica in Italia con, per ragioni del tutto diverse, Milano».
Che cosa possiamo sapere del suo Geppetto, nel «Pinocchio» di Matteo Garrone?
«Poco, perché è ancora troppo presto. Sono pronto anch’io a farmi sorprendere, e so che Matteo non mi deluderà, non ci deluderà».
E della sua prima commedia al cinema?
«Esce il 13 aprile, s’intitola Lasciati andare, l’ha diretta Francesco Amato che è di Bra. Non ha nulla a che vedere con certe commedie sciatte o commerciali e s’ispira piuttosto a esempi americani. Il mio personaggio, Elia Venezia, è uno psicoanalista ebreo con studio nel ghetto di Roma ».
Sbaglio o anche lei ha fatto studi di psicologia? Non mi dica che sognava di sdraiare i pazienti sul lettino.
«E il cerchio si chiuderebbe, perché le lezioni di Elvira hanno anche un sapore analitico, di un perdersi per ritrovarsi. No, in realtà non l’ho mai pensato. In quegli anni si era affascinati intellettualmente da quelle discipline, da Laing, Basaglia, Giovanni Jervis che è stato mio insegnante. Ho dato metà degli esami, poi un professore di psicologia evolutiva, un sacerdote, sapendo che recitavo mi ha detto una frase risolutiva: “La smetta con questi studi che le ingombrano lo spirito”. Gli ho dato retta».
Egle Santolini, La Stampa 6/1/2017