Varie, 7 gennaio 2017
BLOB E PEZZI su JP Morgan
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Notiziole
I numeri
Jp Morgan è la più grande banca americana, terza al mondo per capitalizzazione: 90 milioni di clienti, quasi 100 miliardi di dollari in ricavi, 25 miliardi di utili, 9 miliardi in investimenti tecnologici ogni anno.
Il metodo
È passato alla storia il metodo «morganization»: prendere aziende sull’orlo del fallimento, ristrutturarle, renderle produttive e accorparle. Nascono così la U.S. Steel Corporation e la General Electric.
I derivati
Dai suoi bilanci risulta un’esposizione per 43 mila miliardi di dollari (quasi tre volte il pil Usa). Si deve a JP Morgan l’invenzione dei credit default swap che oggi rappresentano la maggioranza dei derivati in giro per il mondo.
Pezzo
Qualcuno in Italia, nello stendergli il tappeto rosso, l’aveva definita «l’ancora di salvezza dei governi e degli istituti centrali» per come si è sempre affiancata alle istituzioni nelle più delicate operazioni finanziarie. Tuttavia, prima di ripercorrerne la storia, sarebbe utile ricordare che JP Morgan, come tutte le banche, non fa beneficienza ma soltanto affari in giro per il mondo. E la partita che ha voluto giocare in Italia nell’operazione Monte dei Paschi è stata forse, per il nostro paese, la più visibile di sempre, sia in termini di reputazione che di remunerazione. Sennonché, il fatto è stranoto, il suo piano è stato un totale fiasco e al salvataggio dell’istituto senese ci ha dovuto (e ci dovrà) pensare lo stato italiano.
RAGAZZI Ripasso veloce. A fine luglio 2016 Mps viene bocciata agli stress test (è la peggiore banca tra le 50 analizzate). Decide allora di affidare il suo destino a JP Morgan, la più grande banca americana, numero tre al mondo per capitalizzazione, sponsorizzata direttamente da palazzo Chigi. Si racconta di una cena in quei giorni tra il numero uno di JP Morgan, Jamie Dimon, e l’allora inquilino di palazzo Chigi, un Matteo Renzi preoccupatissimo di sporcarsi nuovamente l’immagine con una banca. Il primo rassicurò: a risolvere il problema ci penseranno i miei ragazzi; e il secondo garantì un mandato in bianco sulla terza banca italiana. Dimon passa il cerino a Guido Nola, capo delle attività in Italia, mentre Vittorio Grilli, che dal 2014 guida le operazioni in Europa Medio Oriente e Africa, visto il suo recente passato al governo, per eleganza rimane dietro le quinte.
POKER Il piano per Mps più che strategico era un vero e proprio rilancio (accezione pokerista):
1) aumento di capitale da piazzare tutto sul mercato da 5 miliardi di euro (dieci volte il valore di mercato della banca, una prodezza mai realizzata) senza nemmeno un vero consorzio di garanzia;
2) cessione completa del portafoglio sofferenze: 28 miliardi di euro il valore a libro, 9 miliardi il prezzo di vendita (la cui riscossione non sarebbe stata immediata ma successiva al collocamento di tre emissioni obbligazionarie con sottostante proprio quegli Npl);
3) prestito ponte da 6 miliardi per un massimo di 18 mesi fornito dalla stessa JP Morgan a Mps (al tasso del 6% annuo) nell’attesa che l’acquirente delle sofferenze potesse cartolarizzarle (vedi punto 2) con garanzia pubblica;
4) tutto da fare entro fine 2016, al costo ottimistico, tra commissioni e interessi, di circa 600 milioni di euro (più di quanto valeva Mps in borsa).
NESSUNO Ma lo schema non decolla. Decine di incontri con investitori vanno a vuoto. Eppure era stato fatto di tutto per facilitare la combinazione astrale. Prima vengono messi alla porta Ubs e Corrado Passera, che avevano presentato un piano alternativo. Poi è il turno di Fabrizio Viola che, su seggerimento di JP Morgan (indispettita dalle resistenze dell’ad a cui pretendeva di dare ordini e dal fatto che Viola aveva voluto imporre la formula success fee: le commissioni te le pago solo se il piano funziona), viene licenziato con una telefonata di Padoan e sostituito con Marco Morelli, capo della Bank of America Merrill Lynch in Italia e un passato in JP Morgan. Il tempo di rendersi conto della situazione e Morelli è costretto a dire che sì, forse trovare sul mercato 5 miliardi è un po’ difficile, in effetti si potrebbe cominciare con la conversione dei subordinati. Si apre allora un fantozziano conto alla rovescia tra anchor investor evocati e mai apparsi e le conversioni negate e poi autorizzate (la Mifid riposi in pace). Finché il 22 dicembre il complicato piano di JP Morgan muore ufficialmente: dispiace ma non si è fatto avanti nessuno.
LEGAMI Patetica lettera di ringraziamento a parte, per la banca americana il fallimento dell’operazione senese non può che bruciare, e non solo per la perdita di ricche commisioni, ma anche per l’orgoglio e la reputazione. Da quando John Pierpont Morgan (che la fondò insieme ad Anthony Drexel nel 1871) divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico-finanziari plasmando come nessuno il capitalismo del 900. E i legami con l’Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont viene invitato ad assumere l’incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell’unità d’Italia. E il caso volle che trovasse la morte nel sonno proprio a Roma, il 31 marzo del 1913, all’età di 75 anni, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l’anno. I suoi successori rimarranno fedeli alla tradizione e, tra le altre cose, daranno una mano all’Italia durante la Grande guerra, negli anni ‘20 finanzieranno Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard e dopo la seconda guerra mondiale aiuteranno la Fiat in Italia e negli Stati Uniti. Tra i suoi clienti eccellenti ha annoverato a lungo anche il Vaticano con un conto dello Ior (poi chiuso nel 2012 per qualche sospettuccio di riciclaggio).
GENIETTO Restando ancora all’Italia, quando a metà degli anni ’90 diventò fondamentale il rispetto del 3% di deficit sul pil per entrare in Europa, fu JP Morgan a dare uno grossa mano all’allora governo Prodi per allineare i parametri. Si racconta di un genietto dei prodotti derivati dell’epoca che si inventò uno swap tra lo yen e la lira che permetteva di contabilizzare immediatamente un utile per l’Italia e che veniva pagato a rate negli anni successivi senza figurare come passività nella contabilità nazionale. Ed è nel momento peggiore della crisi, quando Deutsche Bank scarica sul mercato decine di miliardi di titoli di stato italiani, che JP Morgan cerca di distinguersi dal coro, fedele alla tradizione, aumentando la propria esposizione verso controparti italiane: 5 miliardi nel 2011, che diventano 7,5 miliardi nel 2015 e 8,4 nel marzo 2016.
FIDUCIA Intanto la potenza di JP Morgan era aumentata notevolmente sfruttando all’inizio del 2000 la possibilità offerta da Bill Clinton di diventare banca universale. Prima la fusione con la Chase Manhattan, poi con Banc One. Quando scoppia la crisi finanziaria nel 2008 è costretta dal governo a rilevare Bear Stearns sull’orlo del collasso, Washington Mutual pieno di mutui subprime, e a partecipare al salvataggio di Aig presso cui erano assicurate tutte le grandi banche del mondo. D’altronde, fu il suo fondatore a inventare quel gentleman banker’s code («la fiducia prima di tutto») che ancora si ritrova nell’attuale ceo Jamie Dimon. Al timone dal 2005, stipendio base una ventina di milioni l’anno, da allora è sopravvissuto al crollo di Lehman Brothers, alla grande crisi finanziaria e a un cancro alla gola. Si presume quindi che sopravviverà anche al fallimento dell’operazione Mps. Non fosse altro per il fatto che recentemente ha rifiutato la carica di segretario al Tesoro offertagli da Donald Trump.
GUAI E non possiamo finire senza parlare anche di guai perché, del resto, JP Morgan ne ha avuti parecchi. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale. Un gigantesco ammanco scoperto nella filiale della City: sei miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, parte una denuncia per truffa sui mutui subprime. La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008 dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare. «Abbiamo capito prima degli altri che la bolla stava per scoppiare», si sono difesi alla JP Morgan. Poi però ha patteggiato un risarcimento da 13 miliardi di dollari. Infine, è stata multata per parecchie centinaia di milioni di euro per aver manipolato, insieme ad altre banche, nell’ordine: il tasso Euribor, il tasso interbancario Libor e il tasso di cambio euro-dollaro.
TITANIC Tornando a John Pierpont Morgan, una piccola nemesi. In pochi sanno che nel 1902 finanziò la nascita dell’International Mercantile Marine Company, una compagnia di navigazione che puntava a controllare i trasporti oceanici. La Immc possedeva un transatlantico dal nome Titanic. E il suo affondamento nel 1912 segnò la strada verso il fallimento della compagnia. Prova che anche ai grandi banchieri, ogni tanto, capita di scommettere sul cavallo sbagliato.
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Pezzo lungo (14000 battute)
Qualcuno in Italia, nello stendergli il tappeto rosso, l’aveva definita la «banca dei governi e degli istituti centrali» per come si è sempre affiancata alle istituzioni nelle più delicate operazioni finanziarie e monetarie. Tuttavia, prima di ripercorrerne la storia, sarebbe intanto utile ricordare che JP Morgan, come tutte le banche d’affari, non fa beneficienza, ma soltanto affari in giro per il mondo. E la partita che ha voluto giocare in Italia ritragliandosi un ruolo di primo piano nell’operazione di salvataggio del Monte dei Paschi è stata forse, per il nostro paese, la più visibile di sempre, sia in termini di reputazione sia in quelli di remunerazione (una stima un po’ grossolana indicava in 600 milioni di euro le commissioni che avrebbe riscosso se l’operazione fosse andata a buon fine). Sennonché, il fatto è stranoto, il suo piano è stato un totale fiasco e al salvataggio di Banca Mps ci ha dovuto (e ci dovrà) pensare lo stato italiano. Non solo: la terza banca al mondo per capitalizzazione – 90 milioni di clienti, quasi 100 miliardi di dollari in ricavi, 25 miliardi di utili, 9 miliardi in investimenti tecnologici ogni anno – ha subito un clamoroso cappotto dagli impiegati delle filiali dell’istituto senese che almeno, dei cinque miliardi necessari all’aumento di capitale, erano riusciti a roccoglierne uno (persuadendo alla conversione i possessori dei subordinati). Mentre JP Morgan, nel suo ruolo di global coordinators, non è riuscita a convincere un solo investitore a mettere dei soldi nella banca più antica del mondo.
Prima un ripasso veloce. A fine luglio 2016 Mps viene bocciata dagli stress test (è la peggiore banca tra le 50 analizzate). Decide allora di affidare il suo destino a JP Morgan, sponsorizzata direttamente da palazzo Chigi. Si racconta che galeotta fu una cena londinese a inizio luglio tra il numero uno globale di JP Morgan, Jamie Dimon, e l’allora inquilino di palazzo Chigi, un Matteo Renzi preoccupatissimo di sporcarsi nuovamente l’immagine per colpa di una banca. Il primo rassicurò Matteo: a risolvere il problema ci penseranno i miei ragazzi; e il secondo garantì a Jamie un mandato in bianco sulla terza banca italiana. Dimon passa il cerino a Guido Nola, capo delle attività in Italia, e torna a occuparsi di cose più serie tipo guidare una delle banche più grandi del mondo. Mentre Vittorio Grilli, che dal 2014 guida le operazioni in Europa Medio Oriente e Africa, rimane dietro le quinte: come ex direttore generale del Tesoro e poi ministro non sarebbe stato elegante. Gli uomini di JP Morgan hanno la loro ricetta, l’appoggio del governo e le idee chiare e in piena estate entrano in Rocca Salimbeni senza bussare.
Il piano per Mps più che strategico era un vero e proprio rilancio (accezione pokerista):
1) aumento di capitale da piazzare tutto sul mercato da 5 miliardi di euro (dieci volte il valore di mercato della banca, una prodezza mai realizzata) senza nemmeno formare un consorzio di garanzia (tra le condizioni poste da JP Morgan per il consorzio c’era prima «il buon esito dell’attività di marketing presso gli investitori»: cioè garantiva il successo dell’aumento di capitale solo dopo averne verificato il successo);
2) cessione completa del portafoglio sofferenze: 28 miliardi di euro il valore a libro, 9 miliardi il prezzo di vendita (la cui riscossione non sarebbe stata immediata ma successiva al collocamento, e al suo successo, di tre emissioni obbligazionarie con sottostante proprio quegli Npl);
3) prestito ponte da 6 miliardi per un massimo di 18 mesi fornito dalla stessa JP Morgan a Mps (al tasso del 6% annuo) nell’attesa che l’acquirente delle sofferenze potesse cartolarizzarle (vedi punto 2) con garanzia pubblica.
4) tutto da fare entro fine 2016, al costo ottimistico, tra commissioni e interessi, di circa 600 milioni di euro (più di quanto valeva Mps in borsa, quando ancora quotava).
Però lo schema non decolla. Decine di incontri con possibili investitori vanno a vuoto. La scusa ufficiale è il referendum. Ma un funzionario in un hedge fund che ha partecipato alla riunione tenutasi presso la sede di New York di JP Morgan descrive l’atmosfera come «antagonista», dice che il «pubblico era confuso» dalla complessità del progetto. Eppure era stato fatto di tutto per facilitare la combinazione astrale. Prima erano stati messi alla porta Ubs e Corrado Passera, che avevano presentato un piano alternativo a quello della banca americana. Poi è stato il turno di Fabrizio Viola che, su seggerimento di JP Morgan (indispettita dalle resistenze dell’ad a cui pretendeva di dare ordini e dal fatto che Viola le aveva voluto imporre la formula success fee: le commissioni te le pago solo se le cose vanno in porto), viene licenziato con una telefonata di Padoan e sostituito con Marco Morelli, capo della Bank of America Merrill Lynch in Italia e con un passato in JP Morgan. Il tempo di rendersi conto della situazione e Morelli è costretto a dire che sì, forse trovare sul mercato 5 miliardi è un po’ difficile, in effetti si potrebbe cominciare con la conversione dei bond subordinati. Si apre allora il fantozziano conto alla rovescia tra anchor investor evocati e mai apparsi e le conversioni negate e poi autorizzate (la Mifid riposi in pace), finché il 22 dicembre il complicato piano di JP Morgan muore ufficialmente: dispiace ma non si è fatto avanti nessuno.
Pochi giorni dopo Jamie Dimon e Daniel Pinto, numero due e responsabile dell’investment banking, firmano una lettera di ringraziamento dai toni particolarmente intensi indirizzata al loro team (e passata al Sole 24 Ore perché tutti la leggessero). Non solo un grande grazie «per il lavoro straordinario che avete fatto per sistemare la più vecchia banca del mondo», ma anche il ricordo di legami che hanno scritto la storia, i cento anni di rapporti con l’Italia, i clienti che «sono venuti da noi in tempi difficili per il nostro aiuto e il nostro supporto». Ma, lettera a parte, per JP Morgan il fallimento dell’operazione senese non può che bruciare, e non solo per la perdita di ricche commisioni, ma anche per l’orgoglio e la reputazione.
JP Morgan è la numero uno e non è abituata a stare in un angolo. Da quando John Pierpont Morgan (che la fondò insieme ad Anthony Drexel nel 1871), archetipo del grande banchiere con sigaro panciotto e yacht affollato di belle ragazze, divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico-finanziari, plasmando come nessuno il capitalismo del 900. E i legami con l’Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont viene invitato ad assumere l’incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell’unità d’Italia. «Nessuno lo merita più di lui», scrive il comitato organizzatore. E il caso volle che Morgan trovasse la morte nel sonno proprio a Roma, il 31 marzo del 1913, all’età di 75 anni, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l’anno.
Nel 1915 i suoi successori partecipano a un prestito di 25 milioni di dollari al governo italiano, guidato dalla Guaranty Trusting Company presso la quale la Banca d’Italia apre il primo conto in dollari. Durante la Grande guerra è la JP Morgan a fare da riferimento per gli alleati, suggello del ruolo interpretato sulla scena internazionale. Prima nel 1925 e poi nel 1927 finanzia Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard (il sistema che regolava i cambi delle principali valute collegandole all’oro). Nel 1928 sbarca a Milano la Chase National Bank che tre anni dopo verrà controllata dai Rockefeller. Gli stretti rapporti tra Gianni Agnelli e David Rockefeller, capo di quella che dal 1955 diventa Chase Manhattan Bank, aiuteranno la Fiat sia in Italia sia negli Stati Uniti. Nel dicembre 2000, il matrimonio tra la Chase e la JP Morgan dà vita a un gigantesco supermercato finanziario con 235 mila dipendenti (in Italia la banca impiega 160 persone) e un giro d’affari vicino ai cento miliardi di dollari. Tra i suoi clienti eccellenti e a lungo fedeli figura anche il Vaticano, almeno fino al 2012, quando viene chiuso il conto allo Ior finito sotto la lente della procura di Milano dopo che la Banca d’Italia aveva individuato anomali movimenti con l’estero, sollevando il sospetto di riciclaggio.
Restando ancora all’Italia, quando a metà degli anni ’90 cominciò il processo di convergenza tra i tassi italiani e quelli tedeschi e diventò fondamentale il rispetto del 3% di deficit sul Pil, fu JP Morgan a dare uno grossa mano all’allora governo Prodi per allineare i parametri. Ha raccontato chi stava in JP Morgan all’epoca, che un genietto dei prodotti derivati di nome Bertrand des Pallieres si inventò uno swap tra lo yen e la lira che permetteva di contabilizzare immediatamente un utile per l’Italia e che veniva pagato a rate negli anni successivi senza figurare come passività nella contabilità nazionale. Ed è nel momento peggiore della crisi, quando Deutsche Bank scarica sul mercato miliardi di titoli di Stato italiani, che JP Morgan cerca di distinguersi dal coro, fedele alla tradizione, aumentando la propria esposizione verso controparti italiane: 5 miliardi nel 2011, che diventano 7,5 miliardi nel 2015 e 8,4 nel marzo 2016.
Negli anni Duemila la potenza di JP Morgan era aumentata notevolmente sfruttando la possibilità offerta sotto la presidenza Clinton di diventare banca universale, spaziando in tutti i segmenti dell’attività bancaria, dai crediti ai mutui, dalla gestione del risparmio al private e all’investment banking. Prima la fusione con la Chase Manhattan, poi con Banc One e quando scoppia la grande crisi finanziaria nel 2007-08 è costretta a rilevare Bear Stearns sull’orlo del collasso e Washington Mutual piena di mutui subprime. Dimon, che intanto era arrivato al timone, conosce il galateo istituzionale: «Il governo degli Stati Uniti ce lo ha chiesto e noi lo faremo», così nel settembre 2008 zittisce il capo della finanza che resisteva di fronte al gigantesco salvataggio della Aig (American International Group) presso la quale si erano assicurate tutte le grandi banche del mondo.
D’altronde, fu il suo fondatore a inventare quel gentleman banker’s code («la fiducia prima di tutto» è stato per decenni il suo slogan) che ancora si ritrova nell’attuale ceo. Nato a New York nel 1956 da genitori di origine greca (una sua nonna è per metà italiana), dopo una laurea in Psicologia e un master alla Harvard Business School, Jamie Dimon fa carriera all’American Express dove acquisisce l’esperienza di venditore che dal 2005 porterà in JP Morgan Chase. Stipendio base di una ventina di milioni l’anno, da allora è sopravvissuto al crollo di Lehman Brothers, alla grande crisi finanziaria e a un cancro alla gola. Si presume quindi che sopravviverà anche al fallimento dell’operazione Mps. Non fosse altro per il fatto che ha recentemente rifiutato l’offerta di Donald Trump che lo voleva come segretario al Tesoro (poi il presidente si è rivolto all’eterna rivale Goldman Sachs).
Ma non possiamo finire il pezzo senza parlare dei guai con la giustizia perché, del resto, JP Morgan ne ha avuti parecchi. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale. La balena è il gigantesco ammanco scoperto nella filiale londinese: sei miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, dalla procura di New York parte una denuncia per truffa sui mutui subprime. La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008 dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare. Una scelta che, secondo le accuse degli investigatori, ha accelerato la valanga che ha poi travolto l’intero sistema finanziario mondiale. «Noi abbiamo capito che la bolla stava per scoppiare, gli altri no», si sono difesi alla JP Morgan. Poi, però, gli avvocati hanno patteggiato un risarcimento da 13 miliardi di dollari. Ancora: JP Morgan deve pagare a Bruxelles la multa più pesante (337 milioni di euro) per aver manipolato insieme alla britannica Hsbc e alla francese Crédit Agricole, tra il 2005 e il 2008, il tasso d’interesse chiamato Euribor, punto di riferimento per la maggior parte dei mutui immobiliari. Insieme a loro hanno complottato Deutsche Bank, Barclays, Rbs e Société Générale, ma queste quattro hanno patteggiato in anticipo.
C’è poi tutta l’ordalia sui derivati, contratti finanziari nei quali la JP Morgan è stata un’apripista. Oggi dai suoi bilanci risulta un’esposizione lorda in derivati per 43 mila miliardi di dollari, quasi tre volte il Pil degli Stati Uniti. Non è vero, come vuole una vulgata popolare, che sia stata lei a inventarli. Ma non c’è dubbio che si deve ai cervelloni della JP Morgan il credit default swap, uno degli strumenti più usati contro il rischio di credito, introdotto per proteggersi dal disastro petrolifero provocato dalla Exxon Valdez nel 1994. E oggi i cds rappresentano la stragrande maggioranza dei derivati in pancia alle banche di tutto il mondo.
E per finire con una piccola nemesi, tornando alla storia del fondatore John Pierpont Morgan, in pochi sanno che, oltre a trovare conforto dalla depressione solo tra la sua collezione di Leonardo, Michelangelo e bibbie di Gutenberg (ne possedeva 3 delle 49 copie esistenti nel mondo), nel 1902 finanziò anche la nascita dell’International Mercantile Marine Company, una compagnia di navigazione che puntava a controllare i trasporti oceanici. La Immc possedeva un transatlantico dal nome Titanic. E il suo affondamento nel 1912 segnò la strada verso il fallimento della compagnia. Prova che anche i grandi banchieri a volte scommettono sul cavallo sbagliato.
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BLOB
L’operazione Montepaschi è stata condotta dalla casa madre; Vittorio Grilli che guida le operazioni in Europa, medio oriente e Africa, è rimasto dietro le quinte: come ex direttore generale del Tesoro e poi ministro, non sarebbe stato elegante.
Galeotta fu la cena londinese organizzata a luglio da Pasquale Terracciano, l’ambasciatore italiano in terra britannica. Jamie e Matteo si erano conosciuti già nel 2012 a Firenze quando Renzi era sindaco e avevano trovato un’ottima chimica personale. Il salvataggio Mps poteva essere il suggello per un rapporto di lunga durata. Invece, sono caduti insieme nel palio politico-finanziario di Siena. Sarà la prassi, sarà un gesto di cortesia, eppure le parole scelte con cura, l’enfasi e la commozione della lettera dimostrano che la sconfitta brucia. Certo c’è la perdita delle ricche commissioni (450 milioni che potevano diventare un miliardo e mezzo in cinque anni compresi gli interessi), ma soprattutto c’è l’orgoglio e la reputazione.
JP Morgan è la numero uno in America e non è abituata a stare in un angolo. Da quando John Pierpont, archetipo del grande banchiere con sigaro Avana tra le dita, panciotto e yacht affollato di belle ragazze, divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico-finanziari.
Dimon, che ha sempre aiutato soprattutto i democratici, ha rifiutato l’offerta di Donald Trump che lo voleva come segretario al Tesoro (poi il presidente si è rivolto all’eterna rivale Goldman Sachs).
Il Guardian ha dipinto la banca come agente immobiliare occulto del Papa negli anni 30 con i soldi del Concordato. L’Osservatore romano ha raccontato che, al contrario, canalizzava milioni di dollari negli Stati Uniti per finanziare la guerra contro Hitler. Tra complotti veri e fasulli, insomma, è sempre sotto tiro.
I legami con l’Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont Morgan viene invitato ad assumere l’incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell’unità d’Italia. “Nessuno lo merita più di lui”, scrive il comitato organizzatore.
J.P. muore a Roma il 13 marzo 1913, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l’anno. Nel 1915 i suoi successori partecipano a un prestito di 25 milioni di dollari al governo italiano, guidato dalla Guaranty Trusting Company presso la quale la Banca d’Italia apre il primo conto in dollari. Durante la Grande guerra, è la JP Morgan a fare da riferimento per gli alleati, suggello del ruolo interpretato sulla scena internazionale. Prima nel 1925 e poi nel 1927 finanzia Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard (il sistema che regolava i cambi delle principali valute collegandole all’oro). Nel 1928 sbarca a Milano la Chase National Bank che tre anni dopo verrà controllata dai Rockefeller. Gli stretti rapporti tra Gianni Agnelli e David Rockefeller, capo di quella che dal 1955 diventa Chase Manhattan, aiuteranno la Fiat sia in Italia sia negli Stati Uniti.
Nel dicembre 2000, il matrimonio tra la Chase e la JP Morgan dà vita a un gigantesco supermercato finanziario con 235 mila dipendenti e un giro d’affari vicino ai cento miliardi di dollari. Tra i suoi scaffali, per così dire, figura anche il Vaticano, cliente eccellente e a lungo fedele, almeno fino al 2012, quando viene chiuso il conto allo Ior finito sotto la lente della procura di Milano dopo che la Banca d’Italia ha individuato anomali movimenti con l’estero, sollevando il sospetto di riciclaggio.
Di guai con la giustizia, del resto, la JP Morgan ne ha avuti. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale, la balena è il gigantesco ammanco scoperto nella filiale londinese: sei miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, dalla procura di New York parte una denuncia per truffa sui mutui subprime. La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008 dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare. Una scelta che, secondo le accuse degli investigatori, ha accelerato la caduta dell’immensa valanga che ha poi travolto la Lehman Brothers e l’intero sistema finanziario mondiale. “Noi abbiamo capito che la bolla stava per scoppiare, gli altri no”, si difendono alla JP Morgan. Poi, però, gli avvocati patteggiano un risarcimento da 13 miliardi di dollari.
Jamie Dimon, nato a New York nel 1956 da genitori di origine greca, dopo una laurea in Psicologia e un master alla Harvard Business School fa carriera all’American Express dove acquisisce l’esperienza di venditore che dal 2005 porterà anche alla JP Morgan Chase. La grande crisi finanziaria non lo travolge, anzi. La banca sta meglio di tutte le altre, ma accetta 25 miliardi dal Tesoro. Dimon conosce il galateo istituzionale. “Il governo degli Stati Uniti ce lo ha chiesto e noi lo faremo”, così nel settembre 2008 zittisce il capo della finanza che resisteva di fronte al gigantesco salvataggio della Aig (American International Group) presso la quale si erano assicurate tutte le grandi banche del mondo.
Dimon o alla Lloyd Blankfein, il big boss di Goldman Sachs, gli unici due sopravvissuti alla crisi.
In Europa, la JP Morgan è stata colpita a più riprese. Lo scorso mese la commissione di Bruxelles se ne è uscita con la richiesta alle grandi banche straniere di mantenere una quota extra di capitale all’interno dei confini europei, così da poter intervenire se le filiali hanno problemi.
La JP Morgan deve pagare a Bruxelles la multa più pesante (337 milioni di euro) per aver manipolato insieme alla britannica Hsbc e alla francese Crédit Agricole, tra il 2005 e il 2008, il tasso d’interesse chiamato Euribor, punto di riferimento per la maggior parte dei mutui immobiliari. Insieme a loro hanno complottato Deutsche Bank, Barclays, Rbs e Société Générale, ma queste quattro hanno patteggiato in anticipo.
C’è poi tutta l’ordalia sui derivati, contratti finanziari nei quali la JP Morgan è stata un’apripista. Oggi dai suoi bilanci risulta la presenza di derivati per 43 mila miliardi di dollari, tre volte il prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Non è vero, come vuole una vulgata popolare, che sia lei ad averli inventati. Secondo alcuni risalgono agli albori del mercato finanziario e c’è chi evoca persino Shylock, il quale presta i suoi quattrini al ricco mercante Antonio ma chiede come sottostante una libbra della sua carne. Non c’è dubbio, tuttavia, che si deve ai cervelloni della JP Morgan il credit default swap, uno degli strumenti più usati contro il rischio di credito, introdotto per proteggersi dal disastro petrolifero provocato dalla Exxon Valdez nel 1994. Oggi i cds rappresentano la stragrande maggioranza dei derivati in pancia alle banche di tutto il mondo.
Sono loro i nuovi untori della peste. Demonizzati quasi ovunque, vengono usati in Italia come argomento strumentale dai media e dalla magistratura. Il programma televisivo Report diventa il paladino della lotta alla piaga e mette sott’accusa in particolare i comuni che li hanno usati per imbellettare i loro bilanci. Nel mirino finiscono Milano, l’immancabile JP Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa. Secondo la procura, avrebbe «raggirato» l’amministrazione milanese stipulando nel 2005 uno swap trentennale (contratti sottoscritti dalla giunta Albertini e poi rinnovati più volte sotto la giunta Moratti) senza informare come dovuto di tutti i rischi dell’operazione. Gli imputati, però, sono stati assolti perché “il fatto non sussiste” e con molte scuse.
Jamie Dimon, rimasto in sella anche durante gli otto mesi di chemioterapia per un cancro alla gola, non può continuare per sempre.
Ha guadagnato milioni di dollari anche quando la banca li ha persi come nel caso London Whale, ha sfidato gli azionisti che nel 2013 volevano ridurre i suoi poteri, insieme a Warren Buffett e Mary Barra della General Motors si è speso per salvare l’idea di public company, l’impresa senza padrone dove il manager è re.
Amato e odiato dalla Borsa, rispettato e a lungo vezzeggiato dai politici, si fanno sempre più forti le voci sulla sua successione; il mese scorso l’agenzia Reuters ha passato in rassegna i sei possibili candidati, tra i quali Daniel Pinto, lo stesso che ha firmato la lettera di ringraziamento dopo il fiasco senese. Chissà se influirà anche il piccolo Montepaschi sul futuro del grande elefante.
Ai vertici della banca senese c’è chi confessa la propria delusione: “Certo un colosso che fa 40 miliardi di dollari di utili e in sei mesi non ci trova un investitore da 500 milioni stupisce”, commenta un top manager al Sole 24 Ore. E “la svolta” annunciata da Paolo Gentiloni che ha salutato l’intervento diretto del Tesoro e l’abbandono del piano JP Morgan sponsorizzato da Renzi, può essere un segnale che la stella di Wall Street, almeno in Italia, non luccica più come prima?
Jamie Dimon, chairman del board e ceo di JP Morgan, è convinto che non vi siano problemi senza soluzioni e ha pronta una risposta diretta e schietta a ogni domanda. Ne ha viste di crisi nei suoi dieci anni alla guida di JP Morgan, tra le più grandi e potenti banche d’investimento (235mila dipendenti, quasi 100 miliardi di dollari in ricavi). Dimon era ieri a Roma per festeggiare i cento anni di attività della banca in Italia: Paese che era nel cuore del fondatore, John Pierpont, ed è in quello di Dimon. «I love Italy» esclama quando gli viene detto che Milano ambisce a diventare come la City.
JP Morgan è sempre stata storicamente molto vicina all’Italia, nei tempi buoni e in quelli cattivi. Continuerà ad esserlo anche ora, nella nuova turbolenza scatenata da Brexit?
Sono 100 anni. John Pierpont Morgan, fondatore di J.P. Morgan, amava l’Italia e trascorse gli ultimi giorni della sua vita qui. Io stesso amo questo Paese. Siamo attivi in Italia da 100 anni e sempre presenti, dai tempi della Grande Crisi. Il fatto di aver raggiunto questo traguardo dei 100 anni ci rende orgogliosi. Abbiamo aumentato la nostra esposizione creditizia nei confronti del Paese e delle controparti italiane proprio nei momenti più difficili per fare la nostra parte, sostenere l’economia (l’esposizione verso l’Italia è di 8,4 miliardi di dollari al 30 marzo 2016 con un aumento del 50 % negli ultimi 5 anni, ndr).
Amo l’Italia. Una parte della mia famiglia ha origini italiane (sua nonna è metà italiana e metà greca, ndr) e vorrei passare più tempo qui. La domanda cruciale è il “passport rule”, un passaporto come quello che abbiamo ora a Londra che consente di operare con controparti Ue. Se sarà mantenuto anche nel dopo Brexit, allora non dovremo cambiare proprio nulla. Ma la Ue potrebbe imporre nuove condizioni sul Regno Unito, spingendo le banche a ridimensionare la loro presenza a Londra. Non sappiamo ancora cosa accadrà: lo scenario peggiore è che dovremo spostare alcune migliaia di dipendenti in altre sedi nell’Eurozona, anche se la maggior parte delle persone dovrebbe rimanere in Gran Bretagna.
JP Morgan Chase spende 9 miliardi di dollari l’anno in tecnologia, per investimenti in nuovi sistemi, piattaforme di trading e per garantire la massima sicurezza (cyber security).
John Pierpont Morgan, l’aristocratico che plasmò più di tutti il capitalismo del Novecento.
Si dirà che proprio il banchiere John Pierpont Morgan, battezzato dal giornalista investigativo Lincoln Steffe «il boss dei boss», è stato l’artefice del primo scandalo finanziario della storia moderna: nel 1896 promise un ingente somma di denaro al candidato repubblicano William McKinley se avesse sconfitto l’avversario William Jennings Bryans, che voleva abolire il protezionismo doganale. L’episodio non impedì tuttavia a Morgan di essere acclamato come salvatore dell’America poco più di un decennio dopo (e ancora oggi), quando, durante «la tempesta perfetta del 1907», convinse i miliardari uomini d’affari di Wall Street e della City a rimettere liquidi in circolazione. Fu così convincente con i londinesi da far sembrare i cinquanta milioni di dollari di John Rockefeller una briciola al cospetto del carico di lingotti d’oro che arrivò dall’Inghilterra (quello si vendicò dopo la morte affermando che in fondo «John non era neanche molto ricco»).
Il banchiere, fondatore nel 1871 insieme ad Anthony Drexel della «Drexel, Morgan & Co», che sarebbe diventata di lì a poco la banca più importante d’America, si era guadagnato la stima dei colleghi con il metodo passato alla storia come «morganization»: prendere aziende sull’orlo del fallimento, ristrutturarle, renderle produttive e accorparle. Nascono così la U.S. Steel Corporation e la General Electric. Attraverso quella che viene presto definita «House of Morgan», crea un impero che controlla i nodi centrali del sistema produttivo ed economico: energia, trasporti, telecomunicazioni.
Un potere che si misura in opere d’arte e gemme preziose. Morgan, uno dei più grandi collezionisti di tutti i tempi, viaggi a parte, trovava conforto dalla depressione solo tra i Leonardo, Michelangelo e le bibbie di Gutenberg (ne possedeva 3 delle 49 copie esistenti nel mondo).
La figura del fondatore è fondamentale per capire la finanza di oggi. È lui che inaugura quell’intreccio tra mondo finanziario ed economico che porterà Jp Morgan un secolo dopo a sedere nei consigli di amministrazione di quasi 40 compagnie con 72 mila impiegati e sette miliardi di dollari in asset. Così come è il banchiere a inaugurare quella che Charnow definisce «l’altalena di potere tra Washington e Wall Street»: l’anno della morte di Morgan il presidente Theodore Roosevelt fonda la Federal Reserve per non lasciare a nessun altro, mai più, il potere di salvare o distruggere l’economia di una nazione. Mentre il banchiere convince Londra a finanziare con i bond la fiorente industria al di là dell’Atlantico, la geopolitica del mondo segna una nuova divisione tra «grandi prestatori di denaro» e «grandi debitori». E i suoi figli continueranno la tradizione diventando partner economici di Francia e Germania nel primo Dopoguerra.
D’altronde, fu Morgan a inventare quel gentleman banker’s code che ancora si ritrova nel ceo Jamie Dimon considerato fino agli scandali recenti il nuovo asso della finanza mondiale. La fiducia prima di tutto è stata per decenni lo slogan del fondatore, come quando nel 1912 pronunciò la frase «Non potrei mai prendere bond da una persona di cui non mi fido ciecamente».
Qualcuno l’ ha definita la banca dei governi e degli istituti centrali, per come nel corso degli ultimi duecento anni si è sempre affiancata alle istituzioni offrendo il proprio apporto in termini di expertise e know how sulle più delicate materie finanziarie e monetarie. Ma la JP Morgan, come tutte le altre grandi banche globali, non fa beneficienza, ma affari con imprese e istituzioni in giro per il mondo, grazie a una presenza territoriale che molti le invidiano.
A cent’ anni di distanza, la JP Morgan guidata in Italia da Guido Nola, con l’ ex ministro Vittorio Grilli a capo dell’ investment banking europeo, è ancora alla ribalta delle cronache finanziarie per essersi ritagliata un ruolo di primo piano nell’ operazione di salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, non ancora conclusa e con una serie di ostacoli sulla sua strada.
La discesa in campo è stata preceduta, come spesso accade quando in gioco ci sono banche di rilevanza mondiale, da un incontro a quattr’ occhi tra il numero uno globale, Jamie Dimon, e il premier italiano Matteo Renzi, propiziata, si dice, da un altro banchiere di standing internazionale, Claudio Costamagna, presidente della Cassa Depositi e Prestiti. Un incontro fatale, dev’ essere stato, poiché da quel momento Renzi ha abbandonato l’ idea di intervenire con soldi pubblici nel capitale del Monte dei Paschi, per affidarsi mani e piedi alle cure della grande banca americana, chiedendo soltanto la presenza al suo fianco di Mediobanca.
Il tandem stava già lavorando da un annetto con il Tesoro per negoziare con i riottosi uffici di Bruxelles della Concorrenza il tema della creazione di una bad bank in cui infilare i crediti deteriorati delle banche senza impattare sulla normativa per gli aiuti di Stato. JP Morgan e Mediobanca si sono poi inventate il meccanismo delle Gaacs, cioè le garanzie pubbliche sulle tranche di cartolarizzazioni, l’ unico in grado di superare lo scoglio degli aiuti di stato. Poi, insieme a Mediobanca, ha formato un consorzio di pre-garanzia per un aumento di capitale da 5 miliardi in cui sono confluiti altri colossi come Credit Suisse, Bofa Merrill Lynch, Deutsche Bank, Santander.
La partita che JP Morgan si sta giocando in Italia è dunque forse la più visibile di sempre, sia per le ricadute in termini di reputazione sia per il ritorno in termini di remunerazione (una stima un po’ grossolana indica in 500 milioni il monte commissioni che graverà sul bilancio Mps se verranno portati a termine prestito ponte e aumento di capitale). Più di una buona ragione per tagliare fuori l’ advisor principale delle precedenti ricapitalizzazioni del Monte in cui la parte del leone la fece la svizzera Ubs.
Non è la prima volta che JP Morgan si schiera a fianco del governo italiano in situazioni difficili, offrendo i suoi servizi sempre ottimamente retribuiti. Era stato il New York Times nel febbraio 2010 a parlare per la prima volta dell’ aiuto che JP Morgan offrì al governo italiano nella seconda parte degli anni ’90 per facilitarne l’ ingresso nell’ euro. «Con l’ aiuto di JP Morgan - ha scritto il quotidiano americano - l’ Italia riuscì nel suo intento. Nonostante alti deficit, un derivato attivato nel 1996 consentì di portare il budget italiano in linea con i parametri swappando valute con JP Morgan a un tasso di cambio favorevole e mettendo più soldi nelle mani del governo. Come contropartita l’ Italia si impegnò a futuri pagamenti che non erano contabilizzati come passività».
Tra i tanti italiani che si sono fatti le ossa negli uffici della banca americana, c’ è chi oggi ricorda che quell’ operazione era stata denominata in codice Cristal , ed era coperta dal massimo riserbo anche all’ interno della banca tanto che ne erano a conoscenza una decina di alti funzionari appena. E non è un mistero che l’ esplosione del debito pubblico italiano, avvenuta dalla metà degli anni ’80 in poi, ha rappresentato una vera e propria manna, in termini di commissioni incassate, per quelle banche d’ affari internazionali che erano presenti con propri uffici e team nel Belpaese ed erano riuscite ad agganciare un cliente importante come il Tesoro italiano.
Tra queste c’ era sicuramente la JP Morgan, ma anche la Lehman Brothers, la Morgan Stanley, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch oltre ad alcune ditte europee come Credit Suisse e Deutsche Bank. Tutti a consigliare come gestire al meglio quella massa crescente e sempre più articolata rappresentata dal debito pubblico italiano, il secondo al mondo.
Quando a metà degli anni ’90 cominciò il processo di convergenza tra i tassi italiani e quelli tedeschi diventò fondamentale il rispetto del parametro del 3% di deficit sul Pil, obbiettivo che sembrava alla portata del governo Prodi che poteva contare sull’ ex banchiere centrale Ciampi alla guida del Tesoro e Mario Draghi alla direzione generale. Fu così che, racconta chi stava in JP Morgan all’ epoca, un genietto dei prodotti derivati di nome Bertrand des Pallieres, si inventò uno swap tra lo yen e la lira che permetteva di contabilizzare immediatamente un utile per la Repubblica Italiana e che veniva pagato a rate negli anni successivi senza figurare come passività nella contabilità nazionale.
Negli anni Duemila la potenza di JP Morgan aumenta notevolmente sfruttando la possibilità offerta sotto la presidenza Clinton di diventare banca universale, spaziando in tutti i segmenti dell’ attività bancaria, dai crediti ai mutui, dalla gestione del risparmio al private e all’ investment banking. Prima si fonde con la Chase Manhattan, poi con Banc One e quando scoppia la grande crisi finanziaria nel 2007-08 è costretta a rilevare Bear Stearns sull’ orlo del collasso e Washington Mutual piena di mutui subprime. Anche se subirà, insieme alle altre grandi banche del sistema americano, la ricapitalizzazione forzata da parte del Tesoro per permettere al sistema bancario di continuare la propria attività di prestatore di fondi all’ economia reale.
JP Morgan ha dunque le spalle larghe, è diventata la prima banca Usa ma è ancora molto presente in Europa e in Italia
Nel momento peggiore della crisi la Deutsche scarica sul mercato miliardi di titoli di Stato italiani, ma Jp Morgan cerca di distinguersi dal coro, fedele alla tradizione, aumentando la propria esposizione verso controparti italiane: 5 miliardi nel 2011 diventano 7,5 miliardi nel 2015 e 8,4 nel marzo 2016.
Dopo aver cresciuto negli ultimi trent’ anni banchieri che via via assumono posizioni di rilievo nel panorama finanziario italiano (da Giovanni Gorno Tempini e Matteo Del Fante approdati alla Cdp dopo essersi fatti le ossa nella divisione obbligazionaria della JP Morgan, a Marco Morelli, oggi chiamato a guidare il Montepaschi in una situazione difficile, a Federico Imbert, che in seguito alla fusione con Chase Manhattan diventò numero uno in Italia del nuovo gruppo americano) oggi si trova nella fortunata congiuntura di avere Grilli chairman europeo, il fiorentino Francesco Rossi Ferrini a presidiare i fondi sovrani, e tutto il team milanese (in Italia la banca impiega 160 persone) a remare per salvare il Monte e arrichire la banca.
Il legame con il governo Renzi è talmente forte che su suggerimento di JP Morgan non solo è stato licenziato Fabrizio Viola ma è stato insediato al suo posto Marco Morelli. Tuttavia per mandare in porto l’ operazione occorre fare filotto, a partire dal referendum costituzionale sul quale Renzi rischia la poltrona. E il rischio di insuccesso, questa volta, è molto elevato.
Ecco in esclusiva la lettera firmata ieri da Jamie Dimon Ceo di J.P. Morgan Chase e Daniel Pinto, Ceo di J.P.Morgan Corporate & Investment Bank, indirizzata al team di JP Morgan che ha lavorato all’operazione di mercato per l’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena e il deconsolidamento con cartolarizzazione di un portafoglio di non-performing loans per un valore lordo di 27,7 miliardi di euro. La cessione delle sofferenze prevedeva anche un prestito-ponte, che JP Morgan ha proposto con un suo impegno di garanzia per 2,6 miliardi di dollari, per anticipare la liquidità alla società-veicolo che avrebbe acquistato i NPLs entro il 31 dicembre 2016 per poi cartolarizzarli nel 2017.
Questo impegno è stata un’altra importante manifestazione di come noi continuiamo a tenere alta la nostra storia centenaria in Italia e la nostra tradizione che dura da oltre due secoli di persone, di clienti, di comunità internazionali che vengono da noi in tempi difficili per il nostro aiuto e il nostro supporto. Non sappiamo mai esattamente quale può essere l’esito dei nostri sforzi e cosa ci può portare il futuro, ma noi abbiamo creduto e portato avanti con i migliori intenti e con speranza la ricerca di una soluzione di mercato e a quella abbiamo dato tutto noi stessi.
MPS aveva invece deciso di legare il suo destino al piano di JPMorgan per cancellare 28 miliardi di euro in crediti inesigibili e raccogliere 5 miliardi di euro di patrimonio netto - aumento di capitale che si è concluso con un fallimento nelle prime ore di venerdì, quando l’istituto senese ha riferito di non aver trovato abbastanza investitori e si è rivolto al salvataggio dello stato.
Per gli scettici del piano di JPMorgan per MPS, il fallimento nel salvataggio della banca è la testimonianza di una fiducia mal riposta nel governo, per cui l’Italia possa davvero trovare una soluzione al suo problema bancario senza la necessità di un piano di salvataggio di Stato che sarebbe politicamente impopolare.
Renzi pensava di aver finalmente trovato l’uomo che avrebbe risolto uno dei suoi mal di testa politici più grandi, nonostante il piano di JPMorgan comportasse un aumento di 10 volte il valore di mercato del Monte Paschi, una prodezza praticamente mai realizzata in Europa.
JPMorgan a sua volta sperava di entrare nel grande mercato italiano delle operazioni, una sfera in cui quest’anno è rimasta indietro rispetto alla rivale statunitense Goldman Sachs.
Se il piano di salvataggio di MPS fosse riuscito, JPMorgan e il suo co-adviser Mediobanca, insieme ad altre 10 banche di investimento e fondi bancari parte del fondo Atlante, avrebbero condiviso delle commissioni per un valore di 558 milioni di euro, più o meno pari alla capitalizzazione di mercato del Monte Paschi, come mostrano dei documenti di pubblico dominio.
JPMorgan e altre banche coinvolte nella trattativa credevano che un cambiamento di gestione fosse necessario per far funzionare il piano, perché sotto Viola la banca aveva bruciato 8 miliardi di euro di nuovo capitale.
Monte dei Paschi lo ha sostituito con Marco Morelli, ex capo della Bank of America Merrill Lynch in Italia, che sui è subito buttato su un nuovo piano industriale. Ha poi lanciato un roadshow internazionale, incontrando 280 investitori in Europa, negli Stati Uniti e in Asia alla ricerca di appoggio. La risposta è stata sottomessa. Un funzionario in un hedge fund che ha partecipato alla riunione tenutasi presso la sede di New York di JPMorgan ha descritto l’atmosfera come “antagonista” e ha detto che il pubblico era confuso dalla complessità del progetto.
È sopravvissuto al crollo di Lehman Bros, alla grande crisi finanziaria, a un cancro, sopravviverà anche a Montepaschi, Jamie Dimon. Di certo, l’impresa non verrà ricordata nel lungo elenco dei suoi successi. A capo di Jp Morgan da oltre un decennio, ha visto i suoi colleghi delle grandi banche americane cadere come birilli sotto i colpi della crisi restando sempre saldo al suo posto. Guadagnando sempre di più, tipo 20 milioni di euro all’anno, per capirsi.
«Per Dimon l’Italia vale come un paese africano» dice un banchiere italiano di lungo corso, liquidando così le ricadute per Jp Morgan del fallimento dell’operazione Mps. Non è proprio così. E lo dimostrano i lunghi e dettagliati articoli usciti nelle ultime settimane sul ruolo della banca americana - per chiarire, una delle più grandi del mondo - nella disgraziata operazione «di mercato» per l’istituto senese. Da ultimo, il Financial Times ieri in un ampio pezzo raccontava «Come il piano di Dimon per salvare Montepaschi è andato in pezzi». Non gli avrà fatto piacere, a Dimon, leggere un titolo simile in una delle testate simbolo della finanza globale.
Alla fine la sua colpa è stata quella di fare visita a Matteo Renzi, agli inizi di luglio, quando l’inquilino di Palazzo Chigi era alle prese con la grana Mps e di rassicurarlo: a risolvere il problema ci avrebbero pensato i suoi ragazzi. Poi è tornato in America, a occuparsi di cose più serie tipo guidare una delle banche più grandi del mondo. Con il cerino in mano è rimasto Guido Nola, capo delle attività in Italia della banca, l’uomo che più di tutti è stato in primissima fila in questi ultimi sei tormentati mesi della vita della banca. Da lì è successo di tutto.
Il primo passo falso è stato proprio il primo passo: «Diciamo che sono entrati in banca senza bussare», racconta un testimone. Gli uomini di Jp Morgan hanno la loro ricetta, l’appoggio del governo e le idee chiare. Aumento di capitale sul mercato da 5 miliardi, pulizia completa delle sofferenze e un prestito ponte di cinque o sei miliardi fornito dalla stessa Jp Morgan in attesa della garanzia pubblica sulle sofferenze. Qualcuno a Roma ha capito male: «Abbiamo dovuto spiegare a Palazzo Chigi che “bridge loan” è un prestito da restituire, debito e non capitale», racconta lo stesso protagonista.
La svizzera Ubs, da tempo consulente di Siena, dice che non si può fare: cinque miliardi sono troppi. Presenta un piano alternativo al quale si associa Corrado Passera, ma non c’è nulla da fare. Si deve andare avanti con Jp Morgan. Ubs sbatte la porta e a fine luglio l’allora ad Fabrizio Viola presenta il piano targato Jp Morgan. Passa qualche settimana e inizia a circolare l’indiscrezioni che sì, in effetti si potrebbe fare anche la conversione di bond. E che forse 5 miliardi sono troppi.
Jp Morgan chiede la testa di Viola - al quale era stata appena confermata la fiducia - che in un paio di giorni perde il posto. Arriva Marco Morelli, ex Mps ed ex Jp Morgan. Presenta un nuovo piano con la conversione dei bond e il ruolo forte di un «anchor investor», forse il fondo sovrano del Qatar, che avrebbe dovuto prendere il 20%. Poi ci sono i tempi stretti, il referendum, la vittoria del No, l’uscita di Renzi dal governo e la Bce che insiste per chiudere tutto entro la fine dell’anno. Il Qatar non si vede. Il complicato piano di Jp Morgan, nato in un caldo luglio romano, è morto ieri sera.
Ma per Jamie Dimon la notizia peggiore sarà un’altra: da tutto questo gran casino, Jp Morgan - lo ha chiarito Mps ieri - non prenderà un euro.
Perché il governo ha puntato tutte le fiches su Jp Morgan? «La poesia racconta di una cena con Blair da cui sarebbe partito l’ innamoramento del premier per la banca americana. Più prosaicamente io ritengo che Renzi voglia rimanere presidente del Consiglio il più a lungo possibile ma non disdegni di pensare anche al futuro più lontano. Io gli credo quando dice che dopo la politica farà un altro lavoro». Cioè? «Jp Morgan è una bella assicurazione sulla vita».
Non solo Monte dei Paschi: dove c’è una banca in difficoltà in Italia, trovi di sicuro Jp Morgan. Disponibile, efficace e discreta, al giusto prezzo. Come nell’operazione con Veneto Banca che nel 2015, con la crisi già conclamata dell’istituto, ha permesso a 1500 fortunati azionisti di liberarsi delle proprie azioni prima che il loro valore venisse azzerato. Un’operazione ardita condotta dall’allora direttore generale Vincenzo Consoli, poi arrestato.
Il 13 gennaio 2015, il consiglio di amministrazione di Montebelluna approva un’operazione in cui è difficile vedere una razionalità economica: Veneto Banca compra da Jp Morgan un portafoglio di circa 1200 Prestiti Ipotecari Vitalizi (Piv) erogati a partire dal 2005 per un valore di circa 205,55 milioni. I Piv sono prestiti strani, che infatti vengono guardati con sospetto dal collegio dei sindaci: è un finanziamento per chi ha almeno 60 anni e chiede un anticipo di liquidità alla banca, dando in garanzia un immobile di proprietà. Alla morte del debitore, gli eredi possono scegliere se estinguere il debito o vendere la casa, rimborsare la banca e tenersi la differenza. Sono contratti poco diffusi, difficili quindi da valutare. Un investimento bizzarro per un istituto in crisi come Veneto Banca. Infatti il vero scopo dell’operazione con Jp Morgan è un altro: la banca americana si impegna ad acquistare 900.000 azioni di Veneto Banca appartenenti a soci, al valore di 39,50 euro, l’esborso complessivo è di 35,55 milioni.
Pochi mesi dopo, a dicembre, il valore delle azioni Veneto Banca (che non è quotata) veniva di fatto rivisto al ribasso dal cda a 7,30 euro, per poi praticamente azzerarsi al momento della tentata, e fallita, quotazione in Borsa. Nel suo rapporto sulla governance di Veneto Banca, la Bce osserva che le azioni da Jp Morgan erano “vendute da azionisti risparmiatori che avevano già dato un ordine di vendita ma non era ancora stato eseguito per mancanza di ordini d’acquisto”. In pratica, a 1500 soci viene trovata una via di fuga anche se, comprensibilmente, nessuno sul mercato vuole farsi carico delle loro azioni con la perdita quasi certa che incorporano. Per anni Veneto Banca ha evitato che il problema esplodesse, ricomprando le azioni dei soci che volevano vendere o incentivandoli a non farlo dando piuttosto finanziamenti agevolati. Poi, a crisi conclamata, la vigilanza ha bloccato queste operazioni.
L’affare con Jp Morgan, si legge nel report Bce, “è stato approvato senza una reale valutazione dei rischi e delle sue reali motivazioni (far fronte alle richieste di vendita degli azionisti risparmiatori)”. Inoltre, è mancata “ogni valutazione sui costi che derivano da questa operazione”, come l’impatto negativo di 5 punti base sul Cet1, cioè il coefficiente che misura la solidità della banca.
Com’è finita? Male per Veneto Banca, ovviamente. Nell’ultimo bilancio, quello relativo al 2015, si legge che il collegio sindacale “considerate le debolezze e le criticità dell’operazione nel suo complesso, ha raccomandato al consiglio di amministrazione la necessità di attenersi, in sede di valutazione e contabilizzazione dell’operazione, a criteri e a valori il più possibile prudenziali”. Perché il valore di quei prestiti vitalizi ipotecari agli ultrasessantenni che Jp Morgan ha rifilato a Montebelluna è assai dubbio. Dopo soltanto pochi mesi da quell’operazione conclusa a febbraio, già a dicembre 2015 Veneto Banca ha dovuto accantonare un “onere del credito”, a fronte cioè del rischio di perdita dal mancato recupero delle somme, di circa 4,5 milioni, di cui 3,8 sono crediti deteriorati.
L’affare è stato tutto per Jp Morgan: ha speso 35,5 milioni per aiutare Veneto Banca (o meglio, il suo capo Consoli) a salvare qualche azionista amico e in cambio si è fatta pagare 205,55 milioni. Un incasso netto di 170 milioni a fronte della cessione di quel pacchetto di crediti assai dubbi che, a giudicare dalle sofferenze che accumula, per Veneto Banca sembra destinato a confermarsi un pessimo investimento.
John Pierpont Morgan è morto nel sonno mentre era in vacanza a Roma il 31 marzo del 1913, all’età di 75 anni. A dicembre di quello stesso anno nasceva la Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti. C’è chi dice che questi due eventi siano in qualche modo collegati. Soprattutto perché JP Morgan fu molto più potente dei presidenti della Fed.
Oggi ritroviamo il colosso da lui creato, che nel 2015 ha registrato 24,4 miliardi utili, nel mezzo di molte partite importanti per il nostro Paese. Dal salvataggio di Mps, di cui peraltro la banca d’affari è stata consulente anche in passato, a quello dell’Ilva passando per la riforma costituzionale al centro del referendum del 4 dicembre.
Tornando alla storia di John Pierpont Morgan, in pochi sanno che nel 1902 finanziò anche la nascita dell’International Mercantile Marine Company, una compagnia di navigazione che puntava a controllare i trasporti oceanici. La Immc possedeva anche il transatlantico Titanic. Ed è proprio il suo affondamento a segnare la strada verso il fallimento della compagnia. Anche i grandi banchieri a volte scommettono sul cavallo sbagliato.
Jp Morgan passa per la salvatrice della patria ormai dal 6 luglio, e cioè da quando il suo capo Jamie Dimon disse a Matteo Renzi che mai avrebbe lasciato fallire Mps per l’inezia di 5 miliardi. Se abbandonato, Mps avrebbe trascinato nel gorgo il sistema bancario e dunque l’Italia. Giammai. Il premier gli prestò fede, ma dopo tre mesi la grande banca americana ha ancora firmato nessun accordo vincolante. E non ha firmato nemmeno il partner italiano dell’operazione, e cioè Mediobanca.
Tanto incaponirsi su Jp Morgan, rappresentata in Italia dall’ex ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, induce a chiedersi se il consiglio di Mps possa o non possa ascoltare l’ex ministro dello Sviluppo economico che, nella sua vita precedente, vanta i successi del Banco Posta e di Intesa Sanpaolo? Di solito i consigli esplorano le alternative. Se non lo fanno, lo devono spiegare. In questo caso, sorge il dubbio che a Dimon sia stata concessa l’esclusiva. Se fosse, il consiglio dovrebbe chiarire quando, come e a quali condizioni. Oppure l’esclusiva è stata concessa de facto dall’azionista di riferimento di Mps, e cioè dal Tesoro? O forse ancora da palazzo Chigi?
Al mercato Mps ha presentato un piano targato Jp Morgan che non è stato realizzato. E ora cambia il vertice, su richiesta della stessa Jp Morgan (non di Mediobanca), e cambia pure il “suo” piano, ma tenendone ben fermi i costi sensazionali. Il 29 luglio il consiglio aveva annunciato la svalutazione dei crediti deteriorati e la cessione di tutti quelli in sofferenza. La conseguente perdita di 5 miliardi sarebbe stata ripiantata con un equivalente aumento di capitale da offrire in opzione ai soci. Il soggetto deputato all’acquisto delle sofferenze, finora misterioso, dovrebbe pagare subito Mps. Poiché si finanzia emettendo obbligazioni, quel soggetto avrà bisogno di un prestito ponte che verrà rimborsato con l’incasso delle obbligazioni. Ma lo schema non decolla. La scusa ufficiale è il referendum. Palazzo Chigi lo ha presentato come un’ordalia tra la luce e le tenebre. Gli investitori resteranno alla finestra fino al 4 dicembre. L’argomento non depone a favore della saggezza del governo, che non dovrebbe mai presentate il proprio Paese sull’orlo di un precipizio. Se vincesse il No, dal 5 dicembre sarebbe Renzi per primo a gettare acqua sul fuoco e a invocare il ritorno al business as usual. La verità è che, alla faccia della grandeur di Jp Morgan, 5 miliardi non sono noccioline. Il consorzio bancario internazionale di garanzia non si forma. E il ritardo rischia di infilare Mps nell’ingorgo delle ricapitalizzazioni dei colossi Deutsche Bank, Unicredit e Caixa.
Due parole sui costi by Jp Morgan. Le commissioni per l’aumento di capitale da 5 miliardi peserebbero per 230 milioni. La progettazione e la costruzione del veicolo che compra le sofferenze ne prenderebbe altri 45. Il prestito ponte di 5 miliardi, studiato per 18 mesi ma che, essendo ottimisti, verrà usato per soli 6 mesi, assorbirebbe altri 150 milioni tra interessi e commissione upfront. Le banche finanziatrici avranno come garanzia l’intero ammontare delle sofferenze, e cioè 9,2 miliardi, perciò al momento svalutabili fino al 18% del valore facciale. Attenzione dunque alle clausole, perché alle banche finanziatrici converrebbe l’insolvenza del veicolo. Poi vengono gli interessi sulle obbligazioni senior (60 milioni l’anno), quelli sulle mezzanine riservate al fondo Atlante (100 milioni l’anno), le commissioni per il recupero dei crediti (altri 100 milioni l’anno). Se consideriamo che il lungo periodo di recupero potrà essere equivalente a 5 annualità, ecco che il giro di soldi tra commissioni e interessi si aggira sugli 1,7 miliardi. Cifre che oggi possono essere solo suggestive, ovvio. Ma insomma, se quest’operazione nel primo anno costa più di quanto vale oggi in Borsa la terza banca italiana, qualcosa da capire ancora resta. O no?
La banca americana Jp Morgan, rappresentata in Italia dall’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, ha ottenuto un mandato in bianco da Palazzo Chigi per il salvataggio di Mps. Per tutto il mese di luglio c’è stato un braccio di ferro tra gli uomini di Grilli e l’allora amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola, debolmente spalleggiato dalla Banca d’Italia e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il 29 luglio Viola ha lanciato il suo piano per la “soluzione strutturale e definitiva” del problema dei crediti inesigibili, detti “sofferenze”. Il piano prevede di liberarsi di 9,2 miliardi di sofferenze e di compensare le perdite patrimoniali dell’operazione con un’iniezione di capitali freschi da 5 miliardi. Jp Morgan e Mediobanca hanno assunto il ruolo di global coordinators, quelli che convincono gli investitori. Normalmente le banche collocatrici formano il cosiddetto consorzio di garanzia, cioè si impegnano a certe condizioni a sottoscrivere le azioni che nessuno ha voluto comprare. Tra le condizioni poste c’è “il buon esito dell’attività di marketing”: cioè Jp Morgan e Mediobanca garantiranno il successo dell’aumento di capitale solo dopo averne verificato il successo. Per questo disturbo hanno chiesto a Viola 250 milioni, ma l’amministratore delegato ha imposto la formula del success fee (pago solo se le cose vanno in porto). Jp Morgan, indispettita dalle resistenze del cliente a cui pretendeva di dare ordini, ha chiesto e ottenuto da palazzo Chigi la cacciata di Viola e ha anche potuto indicare il successore in Morelli. Il quale adesso ha lo stesso problema di Viola: il mercato finanziario non vuole investire su Mps. Per ridurre lo sforzo da 5 a 3 miliardi si è pensato di convertire le obbligazioni subordinate per circa 2 miliardi.
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I toni sono particolarmente intensi e calorosi. Non solo un grande grazie “per il lavoro straordinario che avete fatto per sistemare la più vecchia banca del mondo, il Monte dei Paschi di Siena”, ma il ricordo di legami che hanno scritto la storia, cento anni di rapporti con l’Italia e oltre due secoli durante i quali i clienti “si rivolgono alla nostra azienda in tempi turbolenti”. Jamie e Daniel, come si sono firmati Dimon e Pinto il numero uno della JP Morgan Chase e il capo dei servizi bancari d’investimento, hanno scritto a tutti i collaboratori una lettera accorata. L’operazione Montepaschi è stata condotta dalla casa madre; Vittorio Grilli che guida le operazioni in Europa, medio oriente e Africa, è rimasto dietro le quinte: come ex direttore generale del Tesoro e poi ministro, non sarebbe stato elegante. Galeotta fu la cena londinese organizzata a luglio da Pasquale Terracciano, l’ambasciatore italiano in terra britannica. Jamie e Matteo si erano conosciuti già nel 2012 a Firenze quando Renzi era sindaco e avevano trovato un’ottima chimica personale. Il salvataggio Mps poteva essere il suggello per un rapporto di lunga durata. Invece, sono caduti insieme nel palio politico-finanziario di Siena. Sarà la prassi, sarà un gesto di cortesia, eppure le parole scelte con cura, l’enfasi e la commozione della lettera dimostrano che la sconfitta brucia. Certo c’è la perdita delle ricche commissioni (450 milioni che potevano diventare un miliardo e mezzo in cinque anni compresi gli interessi), ma soprattutto c’è l’orgoglio e la reputazione.
JP Morgan è la numero uno in America e non è abituata a stare in un angolo. Da quando John Pierpont, archetipo del grande banchiere con sigaro Avana tra le dita, panciotto e yacht affollato di belle ragazze, divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico-finanziari. Dimon, che ha sempre aiutato soprattutto i democratici, ha rifiutato l’offerta di Donald Trump che lo voleva come segretario al Tesoro (poi il presidente si è rivolto all’eterna rivale Goldman Sachs). L’arcipelago del No l’ha accusato di aver dettato a Renzi la riforma costituzionale, frutto dello studio sulle deboli e inefficaci costituzioni dei paesi dell’Europa meridionale scritto nel 2013 (in realtà un rapporto sulla sostenibilità dell’euro). Il Guardian ha dipinto la banca come agente immobiliare occulto del Papa negli anni 30 con i soldi del Concordato. L’Osservatore romano ha raccontato che, al contrario, canalizzava milioni di dollari negli Stati Uniti per finanziare la guerra contro Hitler. Tra complotti veri e fasulli, insomma, è sempre sotto tiro.
I legami con l’Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont Morgan viene invitato ad assumere l’incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell’unità d’Italia. “Nessuno lo merita più di lui”, scrive il comitato organizzatore. Il suo mito supera la stessa realtà: si racconta che nel 1907 abbia salvato l’America dal crac chiudendo dentro una stanza i maggiori operatori di Borsa, mentre lui nel frattempo attendeva a bordo del suo panfilo Corsair (corsaro come Henri Morgan il bucaniere) ancorato sul fiume Hudson. J.P. muore a Roma il 13 marzo 1913, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l’anno. Nel 1915 i suoi successori partecipano a un prestito di 25 milioni di dollari al governo italiano, guidato dalla Guaranty Trusting Company presso la quale la Banca d’Italia apre il primo conto in dollari. Durante la Grande guerra, è la JP Morgan a fare da riferimento per gli alleati, suggello del ruolo interpretato sulla scena internazionale. Prima nel 1925 e poi nel 1927 finanzia Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard (il sistema che regolava i cambi delle principali valute collegandole all’oro). Nel 1928 sbarca a Milano la Chase National Bank che tre anni dopo verrà controllata dai Rockefeller. Gli stretti rapporti tra Gianni Agnelli e David Rockefeller, capo di quella che dal 1955 diventa Chase Manhattan, aiuteranno la Fiat sia in Italia sia negli Stati Uniti. Nel dicembre 2000, il matrimonio tra la Chase e la JP Morgan dà vita a un gigantesco supermercato finanziario con 235 mila dipendenti e un giro d’affari vicino ai cento miliardi di dollari. Tra i suoi scaffali, per così dire, figura anche il Vaticano, cliente eccellente e a lungo fedele, almeno fino al 2012, quando viene chiuso il conto allo Ior finito sotto la lente della procura di Milano dopo che la Banca d’Italia ha individuato anomali movimenti con l’estero, sollevando il sospetto di riciclaggio.
Di guai con la giustizia, del resto, la JP Morgan ne ha avuti e non solo in Italia. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale, la balena è il gigantesco ammanco scoperto nella filiale londinese: sei miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, dalla procura di New York parte una denuncia per truffa sui mutui subprime. La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008 dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare. Una scelta che, secondo le accuse degli investigatori, ha accelerato la caduta dell’immensa valanga che ha poi travolto la Lehman Brothers e l’intero sistema finanziario mondiale. “Noi abbiamo capito che la bolla stava per scoppiare, gli altri no”, si difendono alla JP Morgan. Poi, però, gli avvocati patteggiano un risarcimento da 13 miliardi di dollari.
Jamie Dimon, nato a New York nel 1956 da genitori di origine greca, dopo una laurea in Psicologia e un master alla Harvard Business School fa carriera all’American Express dove acquisisce l’esperienza di venditore che dal 2005 porterà anche alla JP Morgan Chase. La grande crisi finanziaria non lo travolge, anzi. La banca sta meglio di tutte le altre, ma accetta 25 miliardi dal Tesoro. Dimon conosce il galateo istituzionale. “Il governo degli Stati Uniti ce lo ha chiesto e noi lo faremo”, così nel settembre 2008 zittisce il capo della finanza che resisteva di fronte al gigantesco salvataggio della Aig (American International Group) presso la quale si erano assicurate tutte le grandi banche del mondo. JP Morgan e Goldman Sachs fanno da ponte per l’intervento diretto del governo una volta approvato dal Congresso il piano Tarp. Il Tesoro resta quattro anni, poi vende le proprie quote e guadagna 22 miliardi di dollari.
Il salvataggio delle banche americane è una storia di successo. Sono scomparsi i grandi intermediari indipendenti, le banche d’investimento, secondo la definizione europea: la Lehman Brothers è fallita e le sue operazioni negli Usa sono state assorbite dalla Barclays; la Bear Stearns è stata rilevata da JP Morgan Chase; la Bank of America ha acquisito Merrill Lynch; Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state trasformate in holding bancarie, quindi non possono più sottrarsi alla regolazione delle autorità pubbliche. Fannie Mae e Freddie Mac, le due grandi agenzie di credito ipotecario, sono state nazionalizzate. E’ aumentata la concentrazione, ma il sistema finanziario è meno bancocentrico di quello europeo.
La legge bancaria Dodd-Frank Act approvata nel 2010 ha favorito questi cambiamenti. Ora Donald Trump la vuole rovesciare come un guanto, per rendere le banche più sicure e sottrarle allo strapotere dei banchieri, alla Dimon o alla Lloyd Blankfein, il big boss di Goldman Sachs, gli unici due sopravvissuti alla crisi. L’argomento è popolare e populista insieme. Gli uomini scelti da Trump, tutti di scuola Goldman Sachs, da un lato vogliono che le banche aumentino il capitale in rapporto agli impieghi, una misura all’europea che irrigidisce il sistema, dall’altro predicano di allentare le regole che impediscono alle aziende creditizie di prendere i depositi e giocarseli a Wall Street. La banca che presta soltanto oggi non fa profitti, ci vuole quella che scommette in Borsa, ma non è chiaro come si combineranno questi due obiettivi in sé contrastanti. La Trumpnomics allo stato attuale è tutta una contraddizione. In Europa, la JP Morgan è stata colpita a più riprese. Lo scorso mese la commissione di Bruxelles se ne è uscita con la richiesta alle grandi banche straniere di mantenere una quota extra di capitale all’interno dei confini europei, così da poter intervenire se le filiali hanno problemi. E’ la risposta sia pur tardiva a quel che hanno deciso le autorità americane due anni fa. Una tendenza ad alzare muri, ha scritto il Wall Street Journal, che sta diventando il nuovo mal sottile dell’economia mondiale. Ogni paese cerca di farsi più protettivo alimentando la grande onda protezionista che mette in crisi il laissez faire. Questa spinta non è cominciata con Trump, ma The Donald sembra intenzionato a peggiorarla.
La JP Morgan deve pagare a Bruxelles la multa più pesante (337 milioni di euro) per aver manipolato insieme alla britannica Hsbc e alla francese Crédit Agricole, tra il 2005 e il 2008, il tasso d’interesse chiamato Euribor, punto di riferimento per la maggior parte dei mutui immobiliari. Insieme a loro hanno complottato Deutsche Bank, Barclays, Rbs e Société Générale, ma queste quattro hanno patteggiato in anticipo. C’è poi tutta l’ordalia sui derivati, contratti finanziari nei quali la JP Morgan è stata un’apripista. Oggi dai suoi bilanci risulta la presenza di derivati per 43 mila miliardi di dollari, quattro volte il prodotto lordo degli Stati Uniti. Non è vero, come vuole una vulgata popolare, che sia lei ad averli inventati. Secondo alcuni risalgono agli albori del mercato finanziario e c’è chi evoca persino Shylock, il quale presta i suoi quattrini al ricco mercante Antonio ma chiede come sottostante una libbra della sua carne. Non c’è dubbio, tuttavia, che si deve ai cervelloni della JP Morgan il credit default swap, uno degli strumenti più usati contro il rischio di credito, introdotto per proteggersi dal disastro petrolifero provocato dalla Exxon Valdez nel 1994. Oggi i cds rappresentano la stragrande maggioranza dei derivati in pancia alle banche di tutto il mondo.
Dalla fine degli anni 80 la JP Morgan ha ingaggiato un braccio di ferro con le autorità monetarie americane, o meglio con la Commodity Futures Trading Commission (Cftc), agenzia indipendente che sovrintende agli scambi in opzioni e derivati, affinché questi contratti non venissero regolati, come avviene invece per i futures. Il lobbista Mark Brickell è stato l’alfiere di questa battaglia. Secondo Franco Spinelli, ordinario di Economia politica a Brescia e autore con Michele Fratianni di una fondamentale storia della lira, “Brickell fa finta di non vedere che i derivati non annullano il rischio, ma lo spostano semplicemente da un’istituzione a un’altra, con conseguente formarsi anche di un grado di interconnessione tra le medesime, che prima non esisteva”. Sono loro i nuovi untori della peste. Demonizzati quasi ovunque, vengono usati in Italia come argomento strumentale dai media e dalla magistratura. Il programma televisivo Report diventa il paladino della lotta alla piaga e mette sott’accusa in particolare i comuni che li hanno usati per imbellettare i loro bilanci. Nel mirino finiscono Milano, l’immancabile JP Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa. Secondo la procura, avrebbe «raggirato» l’amministrazione milanese stipulando nel 2005 uno swap trentennale (contratti sottoscritti dalla giunta Albertini e poi rinnovati più volte sotto la giunta Moratti) senza informare come dovuto di tutti i rischi dell’operazione. Gli imputati, però, sono stati assolti perché “il fatto non sussiste” e con molte scuse. Tanto rumore per nulla? Il procuratore aggiunto Alfredo Robledo che ha condotto l’accusa, commenta serafico: “In una materia così nuova e complessa, è più che legittima la diversità di opinione”. Il tribunale, dunque, come un’aula universitaria? Colpirne uno (quattro in questo caso) per educarne cento?
I derivati non sono un pranzo di gala, hanno penalizzato persino JP Morgan, figurarsi il Tesoro italiano. La Corte dei conti accusa: hanno prodotto un danno erariale e la colpa sarebbe questa volta di Morgan Stanley. La banca è stata convocata insieme ai maggiori funzionari del Tesoro vecchi e nuovi (Vittorio Grilli, Vincenzo La Via, Maria Cannata). La magistratura contabile chiede indietro 4,1 miliardi di euro. Anche la Germania ha perduto quattrini, mentre l’Olanda è quella che più ha tratto vantaggio seguita da Svezia, Portogallo e Francia. Dunque, l’untore non contamina tutti allo stesso modo. La caccia all’errore è benemerita, molto meno la caccia alle streghe. I prestiti in tempi di crisi generano perdite certe e immediate, i derivati rinviano la resa dei conti, ne è convinta anche la Bce; ecco perché Mps ha fallito gli stress test e Deutsche Bank no (non ancora). Jamie Dimon, rimasto in sella anche durante gli otto mesi di chemioterapia per un cancro alla gola, non può continuare per sempre. Ha guadagnato milioni di dollari anche quando la banca li ha persi come nel caso London Whale, ha sfidato gli azionisti che nel 2013 volevano ridurre i suoi poteri, insieme a Warren Buffett e Mary Barra della General Motors si è speso per salvare l’idea di public company, l’impresa senza padrone dove il manager è re. Amatodiato dalla Borsa, rispettato e a lungo vezzeggiato dai politici, si fanno sempre più forti le voci sulla sua successione; il mese scorso l’agenzia Reuters ha passato in rassegna i sei possibili candidati, tra i quali Daniel Pinto, lo stesso che ha firmato la lettera di ringraziamento dopo il fiasco senese. Chissà se influirà anche il piccolo Montepaschi sul futuro del grande elefante. Ai vertici della banca senese c’è chi confessa la propria delusione: “Certo un colosso che fa 40 miliardi di dollari di utili e in sei mesi non ci trova un investitore da 500 milioni stupisce”, commenta un top manager al Sole 24 Ore. E “la svolta” annunciata da Paolo Gentiloni che ha salutato l’intervento diretto del Tesoro e l’abbandono del piano JP Morgan sponsorizzato da Renzi, può essere un segnale che la stella di Wall Street, almeno in Italia, non luccica più come prima?
Ecco in esclusiva la lettera firmata ieri da Jamie Dimon Ceo di J.P. Morgan Chase e Daniel Pinto, Ceo di J.P.Morgan Corporate & Investment Bank, indirizzata al team di JP Morgan che ha lavorato all’operazione di mercato per l’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena e il deconsolidamento con cartolarizzazione di un portafoglio di non-performing loans per un valore lordo di 27,7 miliardi di euro. La cessione delle sofferenze prevedeva anche un prestito-ponte, che JP Morgan ha proposto con un suo impegno di garanzia per 2,6 miliardi di dollari, per anticipare la liquidità alla società-veicolo che avrebbe acquistato i NPLs entro il 31 dicembre 2016 per poi cartolarizzarli nel 2017.
La lettera
«Al team MPS
Cari tutti,
desideriamo ringraziarvi per lo straordinario lavoro che tutti voi avete svolto per sostenere la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena.
Un impegno e uno sforzo di questo tipo non sempre hanno esito positivo, ma è in tempi come questi che noi dimostriamo e riscopriamo di cosa siamo fatti. E noi abbiamo visto la forza, la determinazione, l’impegno di tutti voi di fronte a un mercato e un contesto politico difficili.
Così tanti di voi – sotto enorme pressione .- hanno lavorato a tempo pieno, e siete andati sempre oltre per fare e dare quel qualcosa in più per servire i nostri clienti, la nostra azienda, i nostri paesi. Questo impegno, che si aggiunge alla sottoscrizione da parte della nostra stessa banca di $2,6 miliardi di dollari per un prestito-ponte a favore di MPS, è stata un’altra importante manifestazione di come noi continuiamo a tenere alta la nostra storia centenaria in Italia e la nostra tradizione che dura da oltre due secoli di persone, di clienti, di comunità internazionali che vengono da noi in tempi difficili per il nostro aiuto e il nostro supporto. Non sappiamo mai esattamente quale può essere l’esito dei nostri sforzi e cosa ci può portare il futuro, ma noi abbiamo creduto e portato avanti con i migliori intenti e con speranza la ricerca di una soluzione di mercato e a quella abbiamo dato tutto noi stessi.
Siamo onorati di lavorare al vostro fianco, con tutti voi».
JPMorgan tra il salvataggio MPS e Renzi: storia di un fallimento
28 Dicembre 2016 - 08:58
Flavia Provenzani
JPMorgan tra il salvataggio MPS e Renzi: storia di un fallimento
Ecco come il piano di JPMorgan per salvare MPS è arrivato al fallimento, come i progetti del gigante di Wall Street per Matteo Renzi.
Ecco come il piano di salvataggio di JPMorgan per MPS è arrivato al fallimento, lo stesso destino riservato all’ex premierMatteo Renzi da tempo annodato alla banca di Wall Street.
La mattina del 29 luglio, l’ex ministro Corrado Passera stava viaggiando su un treno ad alta velocità verso la città medievale di Siena, di corsa ad incontrare i dirigenti della banca più antica del mondo per presentare loro un piano di salvataggio.
Monte dei Paschi di Siena, la terza banca più grande d’Italia, era destinata a fallire nei mesi seguenti a meno di una raccolta di miliardi di euro che potesse risolvere, almeno in parte, la grande quantità di crediti in sofferenza che minacciava di dar fine i cinque secoli di storia di MPS.
Il piano di ricapitalizzazione di Passera era sostenuto dalla banca di investimenti svizzera UBS - da lungo tempo consigliere di Monte dei Paschi - ma l’ex ministro è rimasto a corto di tempo.
L’istituto di credito toscano aveva già cambiato le carte sul tavolo della consulenza - abbandonando UBS e Citi, e rivolgendosi invece a JPMorgan per progettare una strategia di sopravvivenza, secondo quanto riportano i banchieri vicine alla questione. Il consiglio di MPS si è riunito quel giorno nel suo quartier generale in una fortezza del tredicesimo secolo per decidere se impegnarsi formalmente al progetto della grande banca di Wall Street, riferiscono le fonti.
Passera, banchiere veterano, pensava che avrebbe avuto almeno la possibilità di esporre il suo progetto. Non l’ha fatto. Mentre il suo treno raggiungeva Firenze, a circa 70 km da Siena, il suo telefono squillò. Era il presidente del Monte dei Paschi, che gli ha riferiva che il consiglio di MPS non lo avrebbe ascoltato, secondo una fonte vicina agli eventi.
Il destino di MPS legato al piano di JPMorgan
MPS aveva invece deciso di legare il suo destino al piano di JPMorgan per cancellare 28 miliardi di euro in crediti inesigibili e raccogliere 5 miliardi di euro di patrimonio netto - aumento di capitale che si è concluso con un fallimento nelle prime ore di venerdì, quando l’istituto senese ha riferito di non aver trovato abbastanza investitori e si è rivolto al salvataggio dello stato.
Per gli scettici del piano di JPMorgan per MPS, il fallimento nel salvataggio della banca è la testimonianza di una fiducia mal riposta nel governo, per cui l’Italia possa davvero trovare una soluzione al suo problema bancario senza la necessità di un piano di salvataggio di Stato che sarebbe politicamente impopolare.
La proposta di Passera - che non è mai stata resa pubblica - coinvolgeva un aumento di capitale di 2,5 miliardi di euro riservato a fondi di private equity e una quota di 1 miliardo di euro per la vendita agli investitori Monte dei Paschi già esistenti, secondo una fonte familiare agli eventi.
Gli esperti ritengono che era improbabile che il piano per MPS di Passera potesse avere maggiore successo rispetto a quello di JPMorgan, data la mancanza di interesse degli investitori per il Monte dei Paschi e il settore bancario in generale. Le banche italiane sono schiacciate sotto il peso di 360 miliardi di euro di crediti in sofferenza - un terzo del totale di tutta la zona euro - a seguito della crisi finanziaria.
Ma il fatto che MPS abbia riposto tutta la sua fiducia in JPMorgan, e nel piano che le autorità di regolamentazione europee a Bruxelles e Francoforte avevano detto sin dall’inizio che era destinato al fallimento, sottolinea la cattiva gestione del governo di un problema che continua a gettare un’ombra su tutto il paese e la sua economia.
A differenza della Spagna, l’Italia ha rifiutato un piano di salvataggio finanziato dall’UE per le sue banche quando le regole europee per farlo erano più miti, e per troppo tempo non ha preso delle misure decisive per affrontare i bad loans delle sue banche. Monte dei Paschi, che ha già ricevuto aiuti di Stato due volte nella sua storia, è diventato un simbolo dell’inefficienza del governo nell’affrontare i problemi del suo settore bancario.
MPS e il salvataggio di JPMorgan fallito: il ruolo di Renzi
Tre settimane prima del viaggio in treno sprecato di Passera, l’idea di un piano di salvataggio di MPS finanziato da privati è nata durante il pranzo a Roma tra il capo di JPMorgan, Jamie Dimon, e il primo ministro Matteo Renzi, secondo fonti informate.
Renzi pensava di aver finalmente trovato l’uomo che avrebbe risolto uno dei suoi mal di testa politici più grandi, nonostante il piano di JPMorgan comportasse un aumento di 10 volte il valore di mercato del Monte Paschi, una prodezza praticamente mai realizzata in Europa.
Renzi voleva evitare un salvataggio statale di MPS a tutti i costi, perché le nuove norme europee (bail in) prevedono delle perdite per gli investitori per scongiurare un piano di salvataggio finanziato dai contribuenti.
Tra gli obbligazionisti della banca troviamo decine di migliaia di italiani, molti dei quali fanno parte del potere politico.
JPMorgan a sua volta sperava di entrare nel grande mercato italiano delle operazioni, una sfera in cui quest’anno è rimasta indietro rispetto alla rivale statunitense Goldman Sachs.
Se il piano di salvataggio di MPS fosse riuscito, JPMorgan e il suo co-adviser Mediobanca, insieme ad altre 10 banche di investimento e fondi bancari parte del fondo Atlante, avrebbero condiviso delle commissioni per un valore di 558 milioni di euro, più o meno pari alla capitalizzazione di mercato del Monte Paschi, come mostrano dei documenti di pubblico dominio.
Vincendo un posto nel consiglio di amministrazione della banca toscana, JPMorgan e Mediobanca hanno fatto fuori i rivali UBS e Citi, e tutti per guadagnare un jackpot di commissioni all’interno di un settore che potrebbe aver bisogno di 40 miliardi di euro di capitale nel corso dei prossimi anni.
MPS ha dichiarato lo scorso giovedì che le le banche coinvolte nel piano di salvataggio fallito non riceveranno alcun tipo di commissione.
MPS e il fallimento del piano di JPMorgan: i campanelli d’allarme
I campanelli di allarme sulla fattibilità del piano di salvataggio di MPS hanno cominciato a suonare i primi di settembre, quando il Monte dei Paschi ha improvvisamente annunciato il suo amministratore delegato, Fabrizio Viola, si sarebbe dimesso.
Viola aveva ricevuto una telefonata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che lo invitava a lasciare la guida di MPS, secondo una fonte vicina a quanto accaduto.
Parlando dell’episodio in TV ad ottobre, Padoan ha spiegato che, dato che il Tesoro è azionista di maggioranza della banca a seguito del piano di salvataggio del 2013, doveva avere un rapporto con il top management della banca senese.
"Con la Viola, abbiamo valutato insieme ciò che era meglio per la banca",
ha detto.
JPMorgan e altre banche coinvolte nella trattativa credevano che un cambiamento di gestione fosse necessario per far funzionare il piano, perché sotto Viola la banca aveva bruciato 8 miliardi di euro di nuovo capitale.
Monte dei Paschi lo ha sostituito con Marco Morelli, ex capo della Bank of America Merrill Lynch in Italia, che sui è subito buttato su un nuovo piano industriale. Ha poi lanciato un roadshow internazionale, incontrando 280 investitori in Europa, negli Stati Uniti e in Asia alla ricerca di appoggio.
La risposta è stata sottomessa. Un funzionario in un hedge fund che ha partecipato alla riunione tenutasi presso la sede di New York di JPMorgan ha descritto l’atmosfera come “antagonista” e ha detto che il pubblico era confuso dalla complessità del progetto.
Nel disperato tentativo di trovare investitori e soddisfare le esigenze normative, il consiglio della banca ha avuto degli incontri-maratona spesso trascinati fino a tarda notte, con pizze e casse di acqua minerale portati dentro le sale dove si decideva il destino di MPS.
Non è stato raro per le dichiarazioni uscissero nelle prime ore del mattino.
Il fallimento del piano di salvataggio di JPMorgan è risultato certo il 4 dicembre, quando gli italiani si sono gettati sul voto di sfiducia nei confronti Renzi al referendum costituzionale, dicendo No alle sue riforme costituzionali elaborate con la Boschi. Renzi si è dimesso, ponendo le basi a mesi di instabilità politica e spaventando ancor di più i potenziali investitori di MPS.
La crisi di governo ha fatto affondare l’ultima speranza di MPS e l’investimento di 1 miliardo di euro da parte del fondo sovrano del Qatar non si è mai materializzato.
Fonte: [g. pao.], La Stampa 23/12/2016
Testo Frammento
IL GRANDE FLOP DI JP MORGAN. COSÌ DIMON AVEVA ILLUSO RENZI –
È sopravvissuto al crollo di Lehman Bros, alla grande crisi finanziaria, a un cancro, sopravviverà anche a Montepaschi, Jamie Dimon. Di certo, l’impresa non verrà ricordata nel lungo elenco dei suoi successi.
A capo di Jp Morgan da oltre un decennio, ha visto i suoi colleghi delle grandi banche americane cadere come birilli sotto i colpi della crisi restando sempre saldo al suo posto. Guadagnando sempre di più, tipo 20 milioni di euro all’anno, per capirsi.
«Per Dimon l’Italia vale come un paese africano» dice un banchiere italiano di lungo corso, liquidando così le ricadute per Jp Morgan del fallimento dell’operazione Mps. Non è proprio così. E lo dimostrano i lunghi e dettagliati articoli usciti nelle ultime settimane sul ruolo della banca americana - per chiarire, una delle più grandi del mondo - nella disgraziata operazione «di mercato» per l’istituto senese. Da ultimo, il Financial Times ieri in un ampio pezzo raccontava «Come il piano di Dimon per salvare Montepaschi è andato in pezzi». Non gli avrà fatto piacere, a Dimon, leggere un titolo simile in una delle testate simbolo della finanza globale.
Alla fine la sua colpa è stata quella di fare visita a Matteo Renzi, agli inizi di luglio, quando l’inquilino di Palazzo Chigi era alle prese con la grana Mps e di rassicurarlo: a risolvere il problema ci avrebbero pensato i suoi ragazzi. Poi è tornato in America, a occuparsi di cose più serie tipo guidare una delle banche più grandi del mondo. Con il cerino in mano è rimasto Guido Nola, capo delle attività in Italia della banca, l’uomo che più di tutti è stato in primissima fila in questi ultimi sei tormentati mesi della vita della banca. Da lì è successo di tutto. Il primo passo falso è stato proprio il primo passo: «Diciamo che sono entrati in banca senza bussare», racconta un testimone. Gli uomini di Jp Morgan hanno la loro ricetta, l’appoggio del governo e le idee chiare. Aumento di capitale sul mercato da 5 miliardi, pulizia completa delle sofferenze e un prestito ponte di cinque o sei miliardi fornito dalla stessa Jp Morgan in attesa della garanzia pubblica sulle sofferenze. Qualcuno a Roma ha capito male: «Abbiamo dovuto spiegare a Palazzo Chigi che “bridge loan” è un prestito da restituire, debito e non capitale», racconta lo stesso protagonista. La svizzera Ubs, da tempo consulente di Siena, dice che non si può fare: cinque miliardi sono troppi. Presenta un piano alternativo al quale si associa Corrado Passera, ma non c’è nulla da fare. Si deve andare avanti con Jp Morgan. Ubs sbatte la porta e a fine luglio l’allora ad Fabrizio Viola presenta il piano targato Jp Morgan. Passa qualche settimana e inizia a circolare l’indiscrezioni che sì, in effetti si potrebbe fare anche la conversione di bond. E che forse 5 miliardi sono troppi. Jp Morgan chiede la testa di Viola - al quale era stata appena confermata la fiducia - che in un paio di giorni perde il posto. Arriva Marco Morelli, ex Mps ed ex Jp Morgan. Presenta un nuovo piano con la conversione dei bond e il ruolo forte di un «anchor investor», forse il fondo sovrano del Qatar, che avrebbe dovuto prendere il 20%. Poi ci sono i tempi stretti, il referendum, la vittoria del No, l’uscita di Renzi dal governo e la Bce che insiste per chiudere tutto entro la fine dell’anno. Il Qatar non si vede. Il complicato piano di Jp Morgan, nato in un caldo luglio romano, è morto ieri sera.
Ma per Jamie Dimon la notizia peggiore sarà un’altra: da tutto questo gran casino, Jp Morgan - lo ha chiarito Mps ieri - non prenderà un euro.
[g. pao.]
Perché il governo ha puntato tutte le fiches su Jp Morgan?
«La poesia racconta di una cena con Blair da cui sarebbe partito l’innamoramento del premier per la banca americana.
Fonte: Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 19/10/2016
Testo Frammento
JP MORGAN, L’AFFARE CON VENETO BANCA CRITICATO DALLA BCE –
Non solo Monte dei Paschi: dove c’è una banca in difficoltà in Italia, trovi di sicuro Jp Morgan. Disponibile, efficace e discreta, al giusto prezzo. Come nell’operazione con Veneto Banca che nel 2015, con la crisi già conclamata dell’istituto, ha permesso a 1500 fortunati azionisti di liberarsi delle proprie azioni prima che il loro valore venisse azzerato. Un’operazione ardita condotta dall’allora direttore generale Vincenzo Consoli, poi arrestato, che il Fatto può ricostruire sulla base delle osservazioni di un rapporto della Bce su Veneto Banca del 6 agosto 2015, firmato da un team di ispettori guidati da Vincenzo Nardone della Banca d’Italia. Dal 2014, la vigilanza bancaria sui 14 principali gruppi italiani è passata alla Bce che la esercita con i Joint Supervisory Team (Jst), composti da personale di Francoforte e di via Nazionale. Anche la Consob indaga sul contratto con JP Morgan.
Il 13 gennaio 2015, il consiglio di amministrazione di Montebelluna approva un’operazione in cui è difficile vedere una razionalità economica: Veneto Banca compra da Jp Morgan un portafoglio di circa 1200 Prestiti Ipotecari Vitalizi (Piv) erogati a partire dal 2005 per un valore di circa 205,55 milioni. I Piv sono prestiti strani, che infatti vengono guardati con sospetto dal collegio dei sindaci: è un finanziamento per chi ha almeno 60 anni e chiede un anticipo di liquidità alla banca, dando in garanzia un immobile di proprietà. Alla morte del debitore, gli eredi possono scegliere se estinguere il debito o vendere la casa, rimborsare la banca e tenersi la differenza. Sono contratti poco diffusi, difficili quindi da valutare. Un investimento bizzarro per un istituto in crisi come Veneto Banca. Infatti il vero scopo dell’operazione con Jp Morgan è un altro: la banca americana si impegna ad acquistare 900.000 azioni di Veneto Banca appartenenti a soci, al valore di 39,50 euro, l’esborso complessivo è di 35,55 milioni.
Pochi mesi dopo, a dicembre, il valore delle azioni Veneto Banca (che non è quotata) veniva di fatto rivisto al ribasso dal cda a 7,30 euro, per poi praticamente azzerarsi al momento della tentata, e fallita, quotazione in Borsa. Nel suo rapporto sulla governance di Veneto Banca, la Bce osserva che le azioni da Jp Morgan erano “vendute da azionisti risparmiatori che avevano già dato un ordine di vendita ma non era ancora stato eseguito per mancanza di ordini d’acquisto”. In pratica, a 1500 soci viene trovata una via di fuga anche se, comprensibilmente, nessuno sul mercato vuole farsi carico delle loro azioni con la perdita quasi certa che incorporano. Per anni Veneto Banca ha evitato che il problema esplodesse, ricomprando le azioni dei soci che volevano vendere o incentivandoli a non farlo dando piuttosto finanziamenti agevolati. Poi, a crisi conclamata, la vigilanza ha bloccato queste operazioni.
L’affare con Jp Morgan, si legge nel report Bce, “è stato approvato senza una reale valutazione dei rischi e delle sue reali motivazioni (far fronte alle richieste di vendita degli azionisti risparmiatori)”. Inoltre, è mancata “ogni valutazione sui costi che derivano da questa operazione”, come l’impatto negativo di 5 punti base sul Cet1, cioè il coefficiente che misura la solidità della banca. Ci sono anche commissioni da pagare a consulenti esterni che vengono rivelate al consiglio di amministrazione soltanto molti mesi più tardi, il 28 aprile 2015: una percentuale dell’1 per cento alla Centrale Attività Finanziarie, una società specializzata in recupero crediti, e 450.000 euro più Iva a Eidos Partners, altra specialista dei crediti difficili, guidata dall’ex Lehman Brothers Riccardo Banchetti.
Tutta l’operazione viene condotta da Consoli in Veneto Banca, sottolinea la Bce, “senza il coinvolgimento della funzione di compliance”, cioè di quella struttura che serve proprio a verificare le procedure per prevenire irregolarità e rischi legali per gli amministratori. Soltanto in giugno, cioè quasi sei mesi dopo la decisione, viene coinvolto il risk management per valutare l’accordo con Jp Morgan.
Com’è finita? Male per Veneto Banca, ovviamente. Nell’ultimo bilancio, quello relativo al 2015, si legge che il collegio sindacale “considerate le debolezze e le criticità dell’operazione nel suo complesso, ha raccomandato al consiglio di amministrazione la necessità di attenersi, in sede di valutazione e contabilizzazione dell’operazione, a criteri e a valori il più possibile prudenziali”. Perché il valore di quei prestiti vitalizi ipotecari agli ultrasessantenni che Jp Morgan ha rifilato a Montebelluna è assai dubbio. Dopo soltanto pochi mesi da quell’operazione conclusa a febbraio, già a dicembre 2015 Veneto Banca ha dovuto accantonare un “onere del credito”, a fronte cioè del rischio di perdita dal mancato recupero delle somme, di circa 4,5 milioni, di cui 3,8 sono crediti deteriorati.
L’affare è stato tutto per Jp Morgan: ha speso 35,5 milioni per aiutare Veneto Banca (o meglio, il suo capo Consoli) a salvare qualche azionista amico e in cambio si è fatta pagare 205,55 milioni. Un incasso netto di 170 milioni a fronte della cessione di quel pacchetto di crediti assai dubbi che, a giudicare dalle sofferenze che accumula, per Veneto Banca sembra destinato a confermarsi un pessimo investimento.
Fonte: Camilla Conti, il Giornale 6/10/2016
Testo Frammento
IL GOVERNO RENZI OBBEDISCE A JP MORGAN? –
John Pierpont Morgan è morto nel sonno mentre era in vacanza a Roma il 31 marzo del 1913, all’età di 75 anni. A dicembre di quello stesso anno nasceva la Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti. C’è chi dice che questi due eventi siano in qualche modo collegati. Soprattutto perché JP Morgan fu molto più potente dei presidenti della Fed. Oggi ritroviamo il colosso da lui creato, che nel 2015 ha registrato 24,4 miliardi utili, nel mezzo di molte partite importanti per il nostro Paese. Dal salvataggio di Mps, di cui peraltro la banca d’affari è stata consulente anche in passato, a quello dell’Ilva passando per la riforma costituzionale al centro del referendum del 4 dicembre.
Cosa c’entra la riforma – in casa nostra – con Jp Morgan? Ebbene, martedì scorso la Repubblica ha ospitato un confronto ravvicinato fra Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sostenitore della riforma costituzionale varata da Renzi. Fra le domande, Settis ha ricordato che mentre Napolitano era ancora in carica un accreditato commentatore politico, Marzio Breda, scriveva sul Corriere della Sera (1 aprile 2014) un articolo dal titolo «Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme». In esso, citando una nota del Quirinale, Breda scriveva che «la riforma per il capo dello Stato è importante, anzi improrogabile», e va «associata alla legge elettorale». Ricordando che a questo proposito, sarebbe bastato rileggersi uno studio diffuso da Jp Morgan il 28 maggio 2013 in cui veniva fotografata la crisi economica europea indicando nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano». La domanda di Settis è dunque: «Quell’analisi della banca americana può valere, come alcuni vorrebbero, come un argomento per riformare la Costituzione?». Napolitano non ha risposto.
Eppure la ricetta degli americani pare calzare a pennello con la riforma voluta da Matteo Renzi (grande fan di Tony Blair, che oggi lavora proprio per Jp Morgan), e sponsorizzata dall’ex inquilino del Quirinale. Cosa suggeriva la banca d’affari? Smontare la Costituzione perché troppo socialista, asservire il Parlamento al governo, una legge elettorale bipolare. Per chi mastica la finanza, non è inusuale che le banche d’affari propongano soluzioni o forniscano scenari ideali per garantire la crescita di una società o anche di un Paese. Ma la mancata risposta di Napolitano fa rumore anche perché va ad aggiungersi ai rapporti sempre più fitti fra gli americani e Palazzo Chigi dove a luglio è stato accolto in pompa magna il numero uno mondiale di Jp Morgan, Jamie Dimon arrivato a Roma per festeggiare i cento anni di attività della banca in Italia. Incontro cui è seguito un articolo apparso sul Sunday Telegraph in merito a una soluzione studiata dalla stessa banca d’affari contattata appunto dal governo italiano per risolvere il nodo dei crediti deteriorati del Monte. In cambio di laute commissioni.
L’asse Renzi-Jp Morgan – allargato anche a Davide Serra e all’altro advisor in pista sul Monte ovvero la Mediobanca guidata da Alberto Nagel su cui il premier aveva scommesso, perdendo, nel match contro Cairo su Rcs – starebbe irritando i piani alti della Bce ma anche le altre banche d’affari concorrenti. Tanto che lo stesso pesante attacco alle riforme renziane lanciato martedì dal Financial Times (e arrivato a poche ore dall’editoriale di fuoco sulle ingerenze del governo nella vicenda senese firmato da Ferruccio de Bortoli sul Corriere) andrebbe letto in questa chiave.
Tornando alla storia di John Pierpont Morgan, in pochi sanno che nel 1902 finanziò anche la nascita dell’International Mercantile Marine Company, una compagnia di navigazione che puntava a controllare i trasporti oceanici. La Immc possedeva anche il transatlantico Titanic. Ed è proprio il suo affondamento a segnare la strada verso il fallimento della compagnia.
Anche i grandi banchieri a volte scommettono sul cavallo sbagliato.
Fonte: Massimo Mucchetti, Il Fatto Quotidiano 3/10/2016
Testo Frammento
MONTE PASCHI, JP MORGAN È UNA TASSA DA 1,7 MILIARDI –
Arriva. A questo punto della triste storia del Monte dei Paschi ecco la domanda delle cento pistole: perché il consiglio di amministrazione della banca senese si limita al forno di Jp Morgan e non lo mette in concorrenza con l’altro forno proposto da Corrado Passera? La questione è curiosa, Jp Morgan passa per la salvatrice della patria ormai dal 6 luglio, e cioè da quando il suo capo Jamie Dimon disse a Matteo Renzi che mai avrebbe lasciato fallire Mps per l’inezia di 5 miliardi. Se abbandonato, Mps avrebbe trascinato nel gorgo il sistema bancario e dunque l’Italia. Giammai. Il premier gli prestò fede, ma dopo tre mesi la grande banca americana ha ancora firmato nessun accordo vincolante. E non ha firmato nemmeno il partner italiano dell’operazione, e cioè Mediobanca.
Tanto incaponirsi su Jp Morgan, rappresentata in Italia dall’ex ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, induce a chiedersi se il consiglio di Mps possa o non possa ascoltare l’ex ministro dello Sviluppo economico che, nella sua vita precedente, vanta i successi del Banco Posta e di Intesa Sanpaolo?
Di solito i consigli esplorano le alternative. Se non lo fanno, lo devono spiegare. In questo caso, sorge il dubbio che a Dimon sia stata concessa l’esclusiva. Se fosse, il consiglio dovrebbe chiarire quando, come e a quali condizioni. Oppure l’esclusiva è stata concessa de facto dall’azionista di riferimento di Mps, e cioè dal Tesoro? O forse ancora da palazzo Chigi?
Al mercato Mps ha presentato un piano targato Jp Morgan che non è stato realizzato. E ora cambia il vertice, su richiesta della stessa Jp Morgan (non di Mediobanca), e cambia pure il “suo” piano, ma tenendone ben fermi i costi sensazionali.
Il 29 luglio il consiglio aveva annunciato la svalutazione dei crediti deteriorati e la cessione di tutti quelli in sofferenza. La conseguente perdita di 5 miliardi sarebbe stata ripiantata con un equivalente aumento di capitale da offrire in opzione ai soci. Il soggetto deputato all’acquisto delle sofferenze, finora misterioso, dovrebbe pagare subito Mps. Poiché si finanzia emettendo obbligazioni, quel soggetto avrà bisogno di un prestito ponte che verrà rimborsato con l’incasso delle obbligazioni. Ma lo schema non decolla. La scusa ufficiale è il referendum. Palazzo Chigi lo ha presentato come un’ordalia tra la luce e le tenebre. Gli investitori resteranno alla finestra fino al 4 dicembre. L’argomento non depone a favore della saggezza del governo, che non dovrebbe mai presentate il proprio Paese sull’orlo di un precipizio. Se vincesse il No, dal 5 dicembre sarebbe Renzi per primo a gettare acqua sul fuoco e a invocare il ritorno al business as usual. La verità è che, alla faccia della grandeur di Jp Morgan, 5 miliardi non sono noccioline. Il consorzio bancario internazionale di garanzia non si forma. E il ritardo rischia di infilare Mps nell’ingorgo delle ricapitalizzazioni dei colossi Deutsche Bank, Unicredit e Caixa.
Parte così la ridda teleguidata delle voci in attesa che il 24 ottobre il nuovo amministratore delegato, Marco Morelli, scopra le carte. Morelli era stato sponsorizzato dal “Giglio magico” per Unicredit, ma il consiglio della multinazionale bancaria italiana gli preferì il francese Mustier. Ora, a Siena, sembra giocare in squadra con Jp Morgan, per la quale un tempo aveva lavorato. Secondo le voci prevalenti, la ricapitalizzazione resterebbe pari a 5 miliardi, ma verrebbe effettuata in parte con un aumento di capitale e in parte con la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni.
Nella nuova versione dell’aumento sparirebbe il diritto di opzione. Perché? Per guadagnare tempo, si dice. E poi, visto che Mps vale meno di 600 milioni, che diritto ci sarà mai? A certe condizioni, i diritti possono valere qualcosa, e in ogni caso ci si chiede se la totale rinuncia ai diritti non implichi un danno erariale per il Tesoro. E non ci si venga a dire che il Tesoro ha solo il 4 per cento perché con questa partecipazione ha il potere di licenziare l’ex ad Fabrizio Viola e assumere Morelli.
Quanto alla conversione delle obbligazioni subordinate, in prima battuta sarebbe volontaria, poi si vedrà. Certo è che i fondi avvoltoio le hanno appena comprate a 70 e guadagnerebbero bene anche con la conversione a 90, mentre i risparmiatori cassettisti, che le avevano prese a 100, materializzerebbero una perdita che potrebbe essere recuperata solo dal rimbalzo delle quotazioni azionarie.
Due parole sui costi by Jp Morgan. Le commissioni per l’aumento di capitale da 5 miliardi peserebbero per 230 milioni. La progettazione e la costruzione del veicolo che compra le sofferenze ne prenderebbe altri 45. Il prestito ponte di 5 miliardi, studiato per 18 mesi ma che, essendo ottimisti, verrà usato per soli 6 mesi, assorbirebbe altri 150 milioni tra interessi e commissione upfront. Le banche finanziatrici avranno come garanzia l’intero ammontare delle sofferenze, e cioè 9,2 miliardi, perciò al momento svalutabili fino al 18% del valore facciale. Attenzione dunque alle clausole, perché alle banche finanziatrici converrebbe l’insolvenza del veicolo. Poi vengono gli interessi sulle obbligazioni senior (60 milioni l’anno), quelli sulle mezzanine riservate al fondo Atlante (100 milioni l’anno), le commissioni per il recupero dei crediti (altri 100 milioni l’anno). Se consideriamo che il lungo periodo di recupero potrà essere equivalente a 5 annualità, ecco che il giro di soldi tra commissioni e interessi si aggira sugli 1,7 miliardi. Cifre che oggi possono essere solo suggestive, ovvio.
Ma insomma, se quest’operazione nel primo anno costa più di quanto vale oggi in Borsa la terza banca italiana, qualcosa da capire ancora resta. O no?
Veniamo così alle voci sulla proposta alternativa. Passera coprirebbe il buco di 5 miliardi con un aumento di capitale di 2,5 miliardi riservato a 4-5 fondi di chiara fama, dai quali avrebbe ottenuto via libera. Per questo non ci sarebbe più bisogno dell’avallo di Ubs.
A questo intervento dei nuovi soci di riferimento si aggiungerebbe un altro miliardo di aumento riservato in opzione agli attuali azionisti. Il resto verrebbe dalla rinuncia ai dividendi per due o tre anni. Passera, si sostiene, non toccherebbe le obbligazioni subordinate. I risparmiatori continuerebbero a percepire gli interessi e sarebbero pienamente rimborsati alla scadenza. Ma soprattutto Passera non cederebbe le sofferenze a prezzo vile a un veicolo messo su da Jp Morgan ma a un veicolo formato con personale Mps, le cui azioni sarebbero date ai soci Mps. La banca deconsoliderebbe le sofferenze, ma l’upside resterebbe in famiglia.
Ora, queste voci provenienti dall’uno e dall’altro forno sono vere o false? Di certo influenzano il mercato, e dunque, mentre mi chiedo che cosa vigili la Vigilanza Unica, mi aspetterei che la Consob facesse chiarezza. Ma soprattutto che il governo si assumesse le sue responsabilità. Magari in Parlamento. Chiarendo che, se tutto andasse male, si potrebbe sempre nazionalizzare in via temporanea utilizzando la clausola esimente dal bail in. Ma di questo parleremo un’altra volta.
* giornalista, senatore del Pd, presidente commissione Industria
Fonte: Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 29/9/2016
Testo Frammento
NELL’AGONIA DI MPS CERTI SOLO I GUADAGNI DELLA JP MORGAN –
La sorte del Monte dei Paschi di Siena, e in particolare dei suoi azionisti e dei suoi obbligazionisti, è appesa a un filo. La strada per l’aumento di capitale da 5 miliardi, imposto dalla vigilanza Bce, è in salita. E nell’intrecciarsi di riunioni e telefonate sembra che nessuno abbia in mano il timone. Lunedì scorso il consiglio d’amministrazione di Rocca Salimbeni, nella prima riunione con il nuovo amministratore delegato Marco Morelli, ha rinviato di un mese l’approvazione del piano industriale e ufficializzato l’idea di proporre la conversione volontaria delle obbligazioni subordinate in azioni, “alla luce della rapida evoluzione del mercato e delle indicazioni preliminari ricevute da investitori istituzionali”. Insomma, si naviga a vista. Vediamo perché.
La banca americana Jp Morgan, rappresentata in Italia dall’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, ha ottenuto un mandato in bianco da Palazzo Chigi per il salvataggio di Mps. Per tutto il mese di luglio c’è stato un braccio di ferro tra gli uomini di Grilli e l’allora amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola, debolmente spalleggiato dalla Banca d’Italia e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il 29 luglio Viola ha lanciato il suo piano per la “soluzione strutturale e definitiva” del problema dei crediti inesigibili, detti “sofferenze”. Il piano prevede di liberarsi di 9,2 miliardi di sofferenze e di compensare le perdite patrimoniali dell’operazione con un’iniezione di capitali freschi da 5 miliardi.
Jp Morgan e Mediobanca hanno assunto il ruolo di global coordinators, quelli che convincono gli investitori. Normalmente le banche collocatrici formano il cosiddetto consorzio di garanzia, cioè si impegnano a certe condizioni a sottoscrivere le azioni che nessuno ha voluto comprare. Tra le condizioni poste c’è “il buon esito dell’attività di marketing”: cioè Jp Morgan e Mediobanca garantiranno il successo dell’aumento di capitale solo dopo averne verificato il successo. Per questo disturbo hanno chiesto a Viola 250 milioni, ma l’amministratore delegato ha imposto la formula del success fee (pago solo se le cose vanno in porto).
Jp Morgan, indispettita dalle resistenze del cliente a cui pretendeva di dare ordini, ha chiesto e ottenuto da palazzo Chigi la cacciata di Viola e ha anche potuto indicare il successore in Morelli. Il quale adesso ha lo stesso problema di Viola: il mercato finanziario non vuole investire su Mps. Per ridurre lo sforzo da 5 a 3 miliardi si è pensato di convertire le obbligazioni subordinate per circa 2 miliardi. Cura dolorosa: le obbligazioni alla scadenza danno diritto al rimborso integrale del capitale versato, le azioni possono vaporizzarsi in Borsa come quelle dei precedenti aumenti di capitale da 8 miliardi in tutto (oggi Mps vale 565 milioni). Ma incombe la minaccia del bail in: se l’aumento di capitale non riesce deve intervenire lo Stato, previo sacrificio di azionisti e obbligazionisti subordinati, modello Etruria. Una settimana fa l’autorevole agenzia Reuters ha scritto: “I regolatori europei si aspettano che il Monte dei Paschi si debba rivolgere allo Stato per un sostegno, anche se questa mossa incontrerebbe una forte resistenza in Italia se dovesse implicare di imporre perdite per gli obbligazionisti. Lo riferiscono tre funzionari della zona euro a conoscenza della situazione”.
Mentre nessuno sa dove trovare almeno 3 miliardi e ci si interroga su un presunto intervento di sceicchi del Qatar attraverso acrobatiche triangolazioni con la Cassa Depositi e Prestiti, i consulenti banchettano attorno alle sofferenze. È in corso la valutazione approfondita per definire il prezzo giusto dei 9,2 miliardi di crediti deteriorati. Il fondo Atlante ha incaricato la Fonspa del gruppo Tages. Jp Morgan – che ha imposto a Mps un “prestito ponte” da 6 miliardi al tasso del 6 per cento, giudicato da alcuni protagonisti della vicenda utile solo alla banca che incasserà almeno 360 milioni di interessi – ha designato come valutatore l’Italfondiario del colosso americano Fortress. Quest’ultimo è tra i soggetti più interessati all’acquisto dei crediti inesigibili di Mps. A che prezzo? Il rischio è che, indirettamente, sia il compratore a fare la perizia di valore per il venditore. Ma nella crisi delle banche ormai sono i conflitti d’interesse a farla da padrone. Una roba che i politici italiani in confronto sono dei dilettanti.
Fonte: di Marco Lillo, il Fatto Quotidiano 17/9/2016
Testo Frammento
MPS, LE AMNESIE DI MORELLI SUL FAVORE FATTO A JP MORGAN –
Il consiglio di Monte dei Paschi di Siena ha nominato mercoledì Marco Morelli amministratore delegato della banca. L’articolo del Fatto con la ricostruzione del ruolo di Morelli nel 2008 nel prestito di 60 milioni da Mps, di cui era vicedirettore generale, al gruppo Btp di Riccardo Fusi, un amico di Denis Verdini, non ha influenzato le scelte ormai prese da Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.
Nessuno ha chiesto spiegazioni a Morelli sul perché si fosse speso per quel prestito in tempi lontani, quando Giuseppe Mussari era presidente della banca e Denis Verdini era coordinatore del Pdl. Una perdita di una cinquantina di milioni di euro in una banca, che oggi ha lo Stato come primo azionista, meritava forse qualche attenzione. Anche perché i carabinieri nell’indagine su questa brutta storia (Morelli non è stato mai indagato) hanno sequestrato a Fusi un appunto dal quale emerge la ripartizione progettata dei 150 milioni prestati da quattro banche tra cui Mps, se ne caricava da sola 60 milioni. L’appunto si conclude con la scritta “Fossombroni 4 milioni e 200 mila euro” e “Denis 800 mila euro”. Fossombroni è il cognome da nubile della moglie di Verdini.
Nella loro informativa, i carabinieri annotavano che, per prestazioni diverse, sul conto di Verdini, due mesi dopo, il finanziamento arrivava a circa 700 mila euro da “persone fisiche e giuridiche, comunque interessate alla vicenda del finanziamento dei 150 milioni”. Coincidenze, quisquilie per Renzi e Padoan. Come quelle telefonate di Morelli pubblicate dal Fatto nelle quali a perorare quel prestito con il neo ad Mps, su mandato di Fusi, è Andrea Pisaneschi, professore e avvocato senese, nominato consigliere Mps in quota centrodestra nel 2003 e poi presidente di Antonveneta nel 2008. Pisaneschi è sotto processo per false fatture a Firenze (come Verdini per la sua parte) in relazione a 400 mila euro presi insieme al fratello Niccolò Pisaneschi “per l’attività di lobbying prestata in favore del gruppo Fusi-Bartolomei” su Mps per il finanziamento da 150 milioni. Niccolò insieme allo studio Olivetti Rason, era stato scelto come consulente legale dal gruppo Fusi-Bartolomei nell’operazione. Per i tre legali era prevista una parcella a percentuale dell’uno per cento dei 150 milioni: 1,5 milioni. Cose vecchie. Oggi Andrea Pisaneschi, è nel Comitato per il Sì. Il coimputato di Verdini passa da promotore del prestito a Fusi a promotore delle riforme di Renzi con agilità.
Nelle carte di un altro procedimento penale, quello sull’operazione Antonveneta e Mps, c’è un’altra vicenda che merita di essere raccontata. Il 26 luglio 2012, Marco Morelli è stato sentito come persona informata dei fatti dal pm di Siena Antonino Nastasi. Il magistrato indagava sulle modalità anomale di finanziamento dell’acquisto di Antonveneta e quel giorno chiede a Morelli di alcune lettere di indemnity che accordavano alla banca Jp Morgan la copertura dai rischi derivanti dai rovesci finanziari (che poi si verificheranno) di Mps ai sottoscrittori di un prestito denominato Fresh.
La domanda chiave del pm Nastasi sulle indemnity al teste Morelli arriva subito. La risposta è fumosa: “Non ho seguito la vicenda e l’interlocuzione con Banca d’Italia. (…) Non ricordo se furono rilasciate indemnity a Jp Morgan per l’operazione Fresh. A questo punto – prosegue il verbale – l’Ufficio mostra al dichiarante indemnity datata 15 aprile 2008 su carta intestata Banca Mps con destinatario JP Morgan”. Morelli replica: “Adesso che me lo ponete in visione ricordo questo documento. La firma è mia. L’indemnity copre JP Morgan dalle conseguenze negative che avrebbe sopportato dal mancato o ritardato pagamento del corrispettivo dei titoli collocati”. Morelli qualcosa ricorda, però: “Posso dire con certezza che questo atto, prima della mia sottoscrizione, è stato valutato dall’ufficio legale della banca e da chi seguiva gli aspetti tecnici dell’operazione, altrimenti non lo avrei firmato (…) ho informato il direttore generale”. Infine ammette: “Non sono in grado di dire se il suddetto documento è stato trasmesso a Banca d’Italia”. Il manager si farà risentire dal pm per dire che quell’indemnity durava solo 24 ore. Il pm Nastasi, quando lo sente la prima volta, chiede a Morelli però anche di un’indemnity più ‘delicata’, rilasciata il 10 marzo 2009 a Bank of New York. Morelli non ricorda e il pm gli esibisce come al solito l’email del 12 marzo (ricevuta da Morelli) con allegata la lettera di indemnity.
Allora lui aggiunge: “Ricordo che alcuni giorni prima dell’assemblea parlai con Molinari (manager di Mps) circa i problemi sollevati da alcuni investitori e da Jabre (fondo che pretendeva l’indemnity, ndr) e valutammo cosa fare. Tra le possibili soluzioni vi era anche quella del rilascio di una indemnity a Bank of New York. Tale soluzione l’avevo rimessa alla valutazione di Molinari”. Anche stavolta conclude: “Non so se detto atto è stato trasmesso a Banca d’Italia”. Nel bilancio del 2013, proprio per rimettere a posto i conti mal rappresentati a causa di quell’indemnity, l’amministratore di Mps, Fabrizio Viola, ha dovuto fare una rettifica da 76 milioni di euro. Ora lo hanno indotto alle dimissioni. Invece Morelli, che per quella vicenda sarà sanzionato dalla Banca d’Italia e indagato a Siena ma prosciolto a Milano, dopo il trasferimento dell’inchiesta, è in sella.
Per la Bce è lui l’uomo giusto per guidare Mps. D’altro canto, proprio Jp Morgan è il partner individuato per aiutare la banca senese nella missione che oggi pare quasi impossibile, di trovare risorse per un aumento di capitale da 5 miliardi. In cambio di una commissione da centinaia di milioni. Gli investitori sono scettici, però il titolo Mps ieri è crollato ancora del 9,34 per cento a 0,2 euro per azione.
di Marco Lillo, il Fatto Quotidiano 17/9/2016
Fonte: Luciano Capone, Il Foglio 17/9/2016
Testo Frammento
SU REFERENDUM E BANCHE, IRROMPONO “I PROTOCOLLI DEI SAVI DI JP MORGAN” –
Roma. Per decenni i “Protocolli dei Savi di Sion” sono stati il documento che svelava la cospirazione ebraica per il dominio del mondo. Il fatto che appena dopo la pubblicazione venne dimostrato che si trattava di un falso storico, non ne impedì la diffusione, anche perché gli antisemiti aggirarono il problema dell’attendibilità dei Protocolli con il ragionamento sintetizzato così dal filosofo nero Julius Evola: “Il problema della loro autenticità è secondario e da sostituirsi con quello, ben più essenziale, della loro veridicità. Quand’anche i Protocolli non fossero autentici, è come se lo fossero, perché i fatti ne dimostrano la verità”.
Così è più facile capire come – nel dibattito sulla riforma della Costituzione, che è pur sempre un obiettivo modesto rispetto alla conquista del mondo – sia possibile che il fronte del “no” al referendum creda che la riforma Renzi-Boschi sia una cospirazione della Jp Morgan, anche perché in questo caso i “Protocolli dei Savi di Jp Morgan” sono pure autentici. Pochi giorni fa il grillino Alessandro Di Battista, pubblicando la foto di un report della banca americana, ha scritto: “Vi invito solo a unire i punti. Questo è il documento della Jp Morgan nel quale si invitano i paesi del sud Europa a superare le proprie Costituzioni in quanto troppo incentrate sui diritti sociali”. E da lì, di puntino in puntino, Dibba ha unito il recente cambio ai vertici di Mps, l’ambasciatore americano, Manuel Barroso e Goldman Sachs, Bankitalia e tanto altro.
Cosa ci sarà mai scritto di tanto malefico in questo documento? E’ un report di 15 pagine sulla crisi dell’Eurozona che in un breve passaggio si sofferma sulle riforme istituzionali nei paesi periferici, le cui “Costituzioni mostrano una forte influenza socialista” e i cui sistemi politici hanno le seguenti caratteristiche: “Esecutivi deboli, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di consenso che favoriscono il clientelismo; e il diritto di protestare se vengono apportate modifiche sgradite allo status quo politico”. Si tratta insomma di poche righe, magari scritte da uno stagista, all’interno di un report come tanti altri che in quei mesi venivano prodotti da decine di istituti finanziari e organizzazioni internazionali. Nessun piano (che tra l’altro non aveva senso mettere per iscritto), anche perché di riforme istituzionali in Italia se ne parla da qualche decina d’anni. Inoltre il processo di riforma costituzionale era già stato avviato dall’allora premier Enrico Letta: quindi se dietro Renzi c’è Jp Morgan, dietro Jp Morgan ci dovrebbe essere Letta. Si capisce bene che non ha senso. Stavolta il povero Dibba non ha preso in prestito la favola da Sibilia e Bernini, i grillini teorici del finto allunaggio e dei microchip sottopelle, perché la storia della riforma della Costituzione voluta e ordinata dalla banca americana è stata esposta e protocollata dai raffinati intellettuali del mondo progressista e democratico. La prima a parlarne è stata Barbara Spinelli su Repubblica nel 2013: “Senza pudore, Jp Morgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti”. Dopo di lei ne hanno parlato tanti: Gustavo Zagrebelsky (“Nel rapporto di Jp Morgan si è letto che la nostra è una ‘Costituzione infida’”), Marco Travaglio (“Ci sono troppe coincidenze sul fatto che questo governo faccia riferimento a precise lobby, vedi Jp Morgan che fece sapere che la nostra Costituzione era obsoleta”), l’ex giudice costituzionale Paolo Maddalena (“La riforma è ispirata dalle lobby internazionali, è stata diffusa una chiara richiesta della Jp Morgan”), lo storico dell’arte Tomaso Montanari (è una riforma “plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali”). Ma c’è chi, come Dibba, unisce i puntini nello spazio e nel tempo. Antonio Ingroia, per esempio: “Lo stesso sogno del potere senza controlli lo ritroviamo nel post Berlusconi, quarant’anni dopo il Piano di rinascita (di Licio Gelli, ndr), nel memorandum di Jp Morgan”. E così, in un attimo, si passa dalla P2 alla JP2. Ma non basta, la politologa e presidente di Libertà e Giustizia Nadia Urbinati unisce un altro puntino: “Prima del documento di Jp Morgan, nel 1975 la Trilateral, una congrega internazionale dove è andata anche la Boschi, stilò il primo esposto sulla crisi della democrazia. Oggi, con questa riforma, si realizza il progetto della Trilateral”. Salvatore Settis, da buon archeologo, scava più a fondo: “L’ordine di scuderia viene da lontano. In realtà neanche al documento di Jp Morgan si deve la primogenitura, tutto questo viene da Margaret Thatcher e Roland (sic!) Reagan”. Jp Morgan, Mps, Licio Gelli, la Thatcher, la Trilateral, l’unione di questi puntini ricorda una passo del “Pendolo di Focault”, il classico di Umberto Eco sul complottismo: “Amparo mi sussurrò che le pareva mancassero solo Cambronne, Geronimo e Pancho Villa”.
Luciano Capone, Il Foglio 17/9/2016
Jp Morgan e Deutsche Bank hanno bilanci di dimensioni paragonabili, eppure la banca americana capitalizza in Borsa il 9,4% dei suoi attivi da quasi 2.500 miliardi di dollari, mentre quella tedesca viene valutata in proporzione dieci volte meno: lo 0,94% dei suoi attivi, un’inezia. Del resto anche Unicredit capitalizza appena l’1,2% degli attivi, Bnp Paribas il 2,6%, Intesa Sanpaolo il 4,3% e Montepaschi solo lo 0,46%.
Fonte: Sergio Bocconi, Corriere della Sera 29/7/2016
Testo Frammento
BANCHE, SUI CREDITI DETERIORATI SPAGNA E GERMANIA STANNO PEGGIO DI NOI –
Le maggiori banche italiane soffrono per i crediti dubbi, mentre il confronto con i big spagnoli, tedeschi o svizzeri è a loro favore se si guarda a derivati, attività illiquide o prestiti che possono creare problemi. Il quadro che emerge dall’ultimo rapporto sulle «Principali banche internazionali», realizzato da R&S-Mediobanca, consegna indicazioni che sembrano smentire generalizzati giudizi negativi sullo stato di salute del nostro settore creditizio e le valutazioni «da saldo» espresse in Borsa. Considerazioni che arrivano alla vigilia dell’esito degli stress test relativi a 53 banche europee, di cui 5 italiane. E che, pur non avendo alcuna relazione con le «pagelle» di Eba e Bce, sembrano suggerire che la nostra industria bancaria sia penalizzata.
Il rapporto R&S si apre con una panoramica mondiale, dalla quale emerge che il settore a livello globale «arranca ancora» nel 2016. Però mentre le banche Usa hanno lasciato alle spalle la crisi con ristrutturazioni e recupero di efficienza, in Europa il processo non è compiuto e pesano gli oneri straordinari. La novità più significativa riguarda la vetta della classifica: la più grande banca commerciale per attivo è la Icb of China, che a quota 3.146 miliardi di euro ha superato la statunitense Jp Morgan Chase a 2.989 miliardi, seguita dalla BofA 2.557 miliardi. Nelle prime cinque posizioni si trovato altri due gruppi bancari cinesi che hanno superato la Hsbc, leader europeo al settimo posto con attivi per 2.309 miliardi.
Fonte: Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore 7/7/2016
Testo Frammento
«SÌ ALLO STATO NELLE BANCHE IN CASI STRAORDINARI». INTERVISTA AL NUMERO 1 DI JP MORGAN JAMIE DIMON –
Le banche? È giusto che il governo italiano «metta in campo tutti gli strumenti di protezione» perché «non esiste un’economia solida senza un sistema bancario solido». Gli aiuti di Stato? Le normative europee non consentono l’intervento pubblico nel capitale delle banche senza burden sharing «ma un accordo per mitigare queste regole in circostanze speciali, nell’incertezza di questi giorni, può meritare». Le regole sulle banche? «Vanno ridotte», devono poter fare il loro mestiere, il credito alle imprese. Brexit? «Non penso che porterà a una recessione globale» ma i politici europei devono agire in fretta e fermare l’incertezza, meglio se con un’Europa più unita, «altrimenti la correzione dei mercati che c’è stata finora sarà molto peggio».
Jamie Dimon, chairman del board e ceo di JP Morgan, è convinto che non vi siano problemi senza soluzioni e ha pronta una risposta diretta e schietta a ogni domanda. Ne ha viste di crisi nei suoi dieci anni alla guida di JP Morgan, tra le più grandi e potenti banche d’investimento (235mila dipendenti, quasi 100 miliardi di dollari in ricavi). Dimon era ieri a Roma per festeggiare i cento anni di attività della banca in Italia: Paese che era nel cuore del fondatore, John Pierpont, ed è in quello di Dimon. «I love Italy» esclama quando gli viene detto che Milano ambisce a diventare come la City. Ma i tempi sono duri, per Brexit e non solo. Dimon racchiude la via di uscita in una sola parola: crescita. «La cosa più importante adesso è la crescita, i politici devono fare tutto per la crescita».
Le banche europee sono nuovamente sotto attacco. Meno di quelle americane. E alcune banche italiane sono prese di mira in Borsa: il Governo Renzi sta negoziando con Bruxelles per trovare una soluzione. Cosa fare? Due i problemi: la ricapitalizzazione e i non-performing loans...
Il settore bancario statunitense si è completamente ripreso: è solido e funziona bene. Sono d’accordo, il settore bancario europeo è più debole perché l’economia europea è più debole. L’economia cresce e si contrae, va su e giù e il settore bancario si comporta alla stesso modo e rifletterà sempre l’economia reale. Ma vengono continuamente introdotte nuove normative quando invece bisognerebbe aiutare il sistema bancario. Non esiste un’economia solida senza un sistema bancario solido. È nell’interesse di tutti avere un sistema bancario che svolge il proprio ruolo, fa credito alle imprese. Il presidente della Bce Mario Draghi sta facendo un ottimo lavoro, capisce perfettamente il sistema bancario. Penso però che arrivati ad un certo punto i regolatori debbano ridurre la quantità di regole per consentire alle banche di fare il proprio mestiere: finanziare l’economia. La cosa più importante ora è la crescita e non l’introduzione di centinaia di nuove regole.
In quanto all’Italia, considerati i giorni di grande incertezza che viviamo, penso che il vostro governo stia facendo la cosa giusta a mettere in campo tutti gli strumenti di protezione che ha a disposizione, per ridurre i rischi che potrebbero concretizzarsi. Ad oggi le normative europee non consentono l’intervento pubblico nel capitale delle banche senza burden sharing. Ritengo che un accordo per mitigare queste regole in circostanze specifiche, che non hanno precedenti, possa avere un valore. È importante che ci sia una chiara comunicazione di un accordo, quando questo sarà raggiunto, per evitare speculazioni e ridurre l’incertezza nel mercato. Ci aspettiamo che i mercati reagiranno positivamente a operazioni capaci di fornire soluzioni definitive al problema che hanno alcune banche sulla vendita dei non-performing loans (Npl).
JP Morgan è sempre stata storicamente molto vicina all’Italia, nei tempi buoni e in quelli cattivi. Continuerà ad esserlo anche ora, nella nuova turbolenza scatenata da Brexit?
Sono 100 anni. John Pierpont Morgan, fondatore di J.P. Morgan, amava l’Italia e trascorse gli ultimi giorni della sua vita qui. Io stesso amo questo Paese. Siamo attivi in Italia da 100 anni e sempre presenti, dai tempi della Grande Crisi. Il fatto di aver raggiunto questo traguardo dei 100 anni ci rende orgogliosi. Abbiamo aumentato la nostra esposizione creditizia nei confronti del Paese e delle controparti italiane proprio nei momenti più difficili per fare la nostra parte, sostenere l’economia (l’esposizione verso l’Italia è di 8,4 miliardi di dollari al 30 marzo 2016 con un aumento del 50 % negli ultimi 5 anni, ndr).
L’Italia sta crescendo lentamente ma ha aziende di prim’ordine. JP Morgan ha fatto molto per sostenere lo sviluppo delle aziende italiane. Circa un terzo del nostro business è costituito da transazioni domestiche ma portiamo anche le aziende italiane nel mondo, in Cina, Africa e in America e portiamo aziende e investitori di tutto il mondo qui in Italia, la transazione Pirelli-Chem Cina ne è un esempio recente. E continueremo a farlo, che l’Italia cresca più o meno velocemente. Ma i politici, i governi, devono focalizzarsi su buone politiche per rafforzare la crescita.
Cosa pensa del Governo Renzi?
Penso che Renzi abbia introdotto molti cambiamenti positivi per migliorare l’Italia. Brexit è un esempio di retorica senza basi politiche. Non funziona. Serve collaborazione, basata sui fatti e analisi non su slogan, tra aziende, governi, e i diversi attori del mondo dell’economia. Sono ottimista e penso che il vostro governo stia introducendo i giusti cambiamenti per migliorare il Paese. Il nostro impegno qui in Italia continua, indipendentemente da Brexit.
Brexit: è una Grande Crisi ma è diversa dalla Grande Crisi Finanziaria? Che tipo di crisi è quella che stiamo vivendo in questi giorni? Politica?
Il modo in cui io vedo Brexit... i cittadini britannici hanno votato per Brexit. Ma nessuno ora sa veramente che cosa porterà il futuro, nemmeno le persone che hanno sostenuto e voluto Brexit tante le potenziali implicazioni che ha. Brexit sta determinando molta incertezza nei mercati e nell’economia. Nel breve termine porterà ad un rallentamento dell’economia nell’Eurozona e nel Regno Unito ma non sappiamo ancora in che misura. Non credo che provocherà una recessione. Creerà incertezza. I mercati si chiedono cosa significa veramente Brexit e come sarà il negoziato dell’uscita: ci saranno rabbia e rappresaglie oppure ci saranno, come mi auguro, delle politiche ragionevoli? Questa incertezza continuerà inevitabilmente a pesare sull’economia.
Rispetto alla Grande Crisi, la situazione è diversa, il settore bancario globale è più solido ora. La questione vera ora è capire gli effetti di Brexit sull’economia dell’Eurozona, quali le implicazioni per il futuro dell’Eurozona e per un investitore o un’impresa che intende investire direttamente nell’Eurozona. Dobbiamo adattarci a questo nuovo mondo ma c’è grande incertezza e che non sappiamo come sarà. Spero davvero che Brexit non assomigli neanche lontanamente alla Grande Crisi.
Nel frattempo JP Morgan continuerà a servire i propri clienti. Quello che voglio chiarire è che Brexit non cambia ciò che facciamo e che continueremo a fare, servire i nostri clienti in Italia, in Europa e nel mondo. Forse dovremo spostare alcuni dipendenti in un’entità legale nell’Eurozona per servire i clienti basati nella Ue.
Sposterete e potenzierete alcuni uffici a Milano?
Amo l’Italia. Una parte della mia famiglia ha origini italiane (sua nonna è metà italiana e metà greca, ndr) e vorrei passare più tempo qui. La domanda cruciale è il “passport rule”, un passaporto come quello che abbiamo ora a Londra che consente di operare con controparti Ue. Se sarà mantenuto anche nel dopo Brexit, allora non dovremo cambiare proprio nulla. Ma la Ue potrebbe imporre nuove condizioni sul Regno Unito, spingendo le banche a ridimensionare la loro presenza a Londra. Non sappiamo ancora cosa accadrà: lo scenario peggiore è che dovremo spostare alcune migliaia di dipendenti in altre sedi nell’Eurozona, anche se la maggior parte delle persone dovrebbe rimanere in Gran Bretagna.
Per una banca globale come JP Morgan la location è tutto: avete chiuso mille ticket al secondo nelle ore successive al voto di Brexit. Le nuove tecnologie hanno funzionato?
JPMorgan c’è sempre per i suoi clienti. Quelle mille transazioni al secondo che ha menzionato mostrano esattamente questo. Le piattaforme di clearing sono molto veloci e molto efficienti per i nostri clienti. JP Morgan Chase spende 9 miliardi di dollari l’anno in tecnologia, per investimenti in nuovi sistemi, piattaforme di trading e per garantire la massima sicurezza (cyber security). Continueremo a fare “market making” fornendo ai mercati liquidità, concedendo finanziamenti indipendentemente dal momentaneo contesto di mercato.
E qual è il contesto adesso? I vostri clienti, cosa chiedono ora con Brexit? Sono nel panico?
Il mercato sa essere razionale. In futuro ci sarà più incertezza di quanto in molti si aspettassero: i mercati hanno reagito di conseguenza. È un modo di pensare e di agire razionale: il valore degli assets scenderà, i mercati si assumeranno meno rischio di credito. Il mondo si è razionalmente adeguato a questa nuova realtà. Dopo questa correzione a livelli più bassi, i mercati inizieranno a porsi nuove domande: ci sarà volatilità e i mercati reagiranno in modo diverso a seconda delle notizie.
Ci vorranno mesi per capire dove stiamo andando...
Forse anni! Non avremo vere risposte per molto tempo. Ci sono tanti trattati, tante norme, l’articolo 50 e altro ancora...
Il 2016 era iniziato già male per i mercati, preoccupati ora dalla Cina, ora dall’economia americana, ora dal Giappone...
Ho detto che qualche volta i mercati hanno ragione,valutano una nuova situazione e si adeguano. A gennaio e febbraio di quest’anno ho detto che i mercati stavano avendo una reazione eccessiva sull’economia in Cina e Usa. Alla fine la Cina cresce al 6% pur rimanendo volatile come moltissimi altri Paesi. E c’è stata troppa preoccupazione attorno al Giappone e alle prospettive dell’economia americana: ho pensato che i mercati stessero avendo una reazione eccessiva. L’economia americana sta reggendo bene, con un tasso di crescita al 2% circa, potrebbe rallentare, certo, ma rimarrà il segno positivo e questo è importante. Mi potrei sbagliare ma al momento non penso che Brexit allontanerà gli Usa da questo percorso di crescita.
E cosa dire del ruolo delle banche centrali in tutto questo? Ha detto che Draghi conosce le banche. Ma i tassi negativi danneggiano il sistema bancario...
Non sono un fan dei tassi negativi. E non sono convinto che si comprenda a fondo come funzionano nella vita reale. Ho detto e ripeto che Mario Draghi ha fatto un ottimo lavoro ma non può da solo compensare quello che deve fare la politica. È fondamentale che i policy makers introducano delle politiche adeguate per generare crescita; questo incide positivamente su lavoro, salari, riduce le ineguaglianze. I tassi negativi assottigliano i profitti del sistema bancario e diminuiscono la capacità di qualche banca di fornire credito. Anche i regolatori vogliono vedere banche solide e profittevoli: banche deboli e in perdita non portano a un’economia sana.
L’Italia sta provando a cambiare le regole europee, a renderle migliori per il sistema bancario ma anche per l’economia. Ma è difficile dialogare con l’Europa e tra Stati europei. Molto spesso ci viene detto che “questo non si può fare, quello non si può fare”. Lei come vede la situazione e che ricette ha per l’Europa adesso?
L’ho detto anche prima del voto, che nel caso di Brexit, l’uscita del Regno Unito avrebbe potuto essere l’occasione per portare l’Unione europea a fare cambiamenti in positivo, rafforzare la coesione e l’unione, ma in caso contrario avrebbe potuto anche alimentare un’ulteriore divisione. Sono favorevole a migliorare e rafforzare l’Unione europea, più mercato comune. Una maggiore separazione tra gli Stati europei avrebbe ripercussioni enormi. Spero che i politici comprendano che le proteste di molti europei relative alla burocrazia, alle rigidità del lavoro, alle normative che rallentano il flusso delle attività economiche sono legittime come quelle che hanno preoccupato i cittadini britannici: l’Europa dovrebbe ascoltare queste voci. Spero che gli europei non si limitino a sedersi ad un tavolo e negoziare, arrabbiarsi tra di loro invece di decidere di fare le cose più intelligenti, di essere “smart”. Gli europei dovrebbero pensare: ci sono proteste razionali e comprensibili alle quali dobbiamo rimediare per tutti i cittadini europei, non solo per gli inglesi. Forse si potrebbe persino tornare indietro su Brexit. Ci sono sempre soluzioni ai problemi, purché si mettano le persone giuste attorno ad un tavolo.
Forse però intorno al tavolo delle decisioni nell’Unione europea ci sono troppe persone?
Questo è un ottimo punto.
E Brexit? È un processo irreversibile?
Se stai acquistando una casa senza mai averla vista prima può accadere che – dopo averla vista – non ti piaccia e cambi idea. Non c’è nulla di sbagliato nel cambiare opinione. Si dovranno considerare tutti i dettagli concreti, i reali flussi di investimenti dall’estero, la complessità dell’articolo 50, la possibilità di rappresaglie, le complesse negoziazioni con 27 Paesi diversi. Dovrebbe emergere chiaramente che c’è un modo migliore di tutto questo e che Brexit è un territorio inesplorato. L’Unione europea dovrebbe promuovere il cambiamento per il bene di tutti.
Ci si può adattare a tutto, sui mercati? Anche a questa Brexit?
JP Morgan può adattarsi a tutti questi cambiamenti. Questa è la ragione per la quale siamo qui. Ci adattiamo ogni giorno, facciamo continuamente analisi per capire le implicazione su questo o quel settore, su questo o quel Paese. Dunque sarebbe molto saggio da parte dei policy makers agire in fretta e razionalmente, per evitare che i mercati e tutti inizino a pensare che da qui ad un anno o tra due anni la situazione potrebbe essere ancora molto complicata. Se questo fosse il caso, allora si verificherebbe un’ulteriore correzione, peggiore di quella avvenuto finora.
Servono soluzioni rapide... ma in Europa questo è proprio difficile!
Non sarà un processo rapido. Ciò che gli europei possono fare è comunque prendere decisioni ponderate. Se fossi un policymaker europeo, penserei: come posso rendere l’Europa un posto migliore, con un’economia solida e sana, come posso migliorare la crescita. È fondamentale per il mondo intero che l’Europa sia forte, solida e con un’economia sana. Europa costituisce ovviamente un’economia più grande rispetto ai singoli Stati. La creazione dell’Eurozona ha rappresentato un processo molto complesso, alcuni errori erano inevitabili. E i momenti difficili sono arrivati. L’Europa è riuscita a restare unita per decenni di guerre. I tempi duri arrivano, prima o poi. Rimango ottimista: credo che ci sia la luce alla fine del tunnel e che le cose miglioreranno.
Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore 7/7/2016
Fonte: ItaliaOggi 1/7/2016
Testo Frammento
QUATTRO BANCHE CINESI FRA LE PRIME CINQUE AL MONDO –
Quattro delle cinque banche più importanti del mondo sono cinesi. Icbc, Ccb, Boc e Abc: acronimi che, ai più, non dicono nulla. Eppure sono tutte nella Top Five della classifica annuale del mensile The Banker.
Al primo posto svetta la Industrial and Commercial Bank of China, con 274 miliardi di dollari (247 mld di euro) di fondi propri.
In seconda, quarta e quinta posizione si trovano rispettivamente China Construction Bank (Ccb), Bank of China (Boc) e Agricultural Bank of China (Abc).
Unica presenza occidentale in questa Top Five è la banca americana Jp Morgan Chase, al terzo posto, con 200 miliardi di dollari di fondi propri. Bank of America, che era quinta lo scorso anno, è stata retrocessa in sesta posizione.
A partire dalla crisi finanziaria, le banche cinesi hanno rubato la scena alle loro concorrenti Usa. Nel 2006 infatti, secondo The Banker, esse contavano per il 4% del totale degli utili delle prime 1.000 banche mondiali. In dieci anni la percentuale è salita al 32%.
I colossi finanziari dell’ex Celeste Impero nel 2015 hanno realizzato quasi 308 miliardi di utili ante imposte, contro i 206 miliardi degli istituti a stelle e strisce, approfittando della crescita a doppia cifra dell’economia domestica e della politica favorevole del governo.
Lo stato cinese mantiene, attraverso un fondo di investimento, una larga maggioranza del capitale dei quattro giganti, che, di fatto, restano dunque delle banche pubbliche.
Tuttavia non è tutto oro quello che luccica. Nel 2015, con il rallentamento della crescita dell’economia cinese, l’insolente successo delle banche del paese ha cominciato a vacillare. Numerosi settori dell’economia sono in crisi e per la prima volta dal 2004 gli utili delle banche locali si sono ridotti, perdendo il 3,5%. Così questi istituti hanno aumentato i fondi propri più velocemente dei loro attivi, proprio l’opposto di quanto avveniva in passato.
Ma soprattutto nell’ex Celeste impero è risorto un fantasma del passato: da quattro anni a questa parte infatti sono in aumento i crediti deteriorati, i prestiti che le banche hanno concesso e che non sono stati più rimborsati. Nel dicembre dello scorso anno essi hanno raggiunto il più alto livello dal 2006. Un fenomeno già noto alle banche cinesi, che hanno già dovuto assorbire miliardi di yuan di non performing loan (Npl) in seguito alla crisi asiatica della fine degli anni novanta. A volte ritornano.
ItaliaOggi 1/7/2016
Fonte: Giuliana Ferraino, Corriere della Sera 23/1/2016
Testo Frammento
«L’ECONOMIA REALE VA MOLTO MEGLIO DI QUANTO SEGNALANO I MERCATI FINANZIARI». PAROLA DI JAMIE DIMON, CAPO DI JP MORGAN –
«Le forti oscillazioni sui mercati finanziari? Spero che questo sia soltanto un aggiustamento e che finisca presto. L’economia reale va molto meglio di quanto segnalano i mercati finanziari», dice al Corriere Jamie Dimon, 59 anni, gli ultimi dieci alla guida di Jp Morgan Chase. Sorridente e in camicia azzurra senza cravatta, il top manager sembra molto più ottimista dei suoi colleghi europei. E ha più di una ragione per sentirsi così.
Jp Morgan ha chiuso il 2015 con utile netto record di 24,4 miliardi di dollari. E l’istituto di Wall Street, il maggiore in America per dimensioni, ha alzato del 35% la busta paga di Dimon, che intasca 27 milioni di dollari rispetto ai 20 milioni dell’anno passato. Secondo quanto emerge dalle comunicazioni alla Sec, l’autorità di vigilanza sui mercati Usa, Dimon incassa 1,5 milioni di retribuzione base, invariata rispetto a un anno fa; un bonus in contante di 5 milioni (era stato di 7,4 milioni nel 2014); e il resto in cosiddette «performance share units» o psu, cioè azioni riservate legate al raggiungimento di determinati target da parte della banca nel corso di 3 anni, come avevano chiesto e ottenuto alcuni fondi attivisti all’ultima assemblea dei azionisti, minacciando altrimenti di votare contro la remunerazione del management.
Il ritocco in busta paga, riportando la retribuzione di Dimon quasi ai livelli del 2007, quando il Ceo intascò 30 milioni, è l’ultimo segnale che la crisi finanziaria negli Stati Uniti è davvero finita.
Dopo 7 anni di denaro quasi a zero, anche la banca centrale americana è tornata a rialzare i tassi di interesse lo scorso dicembre. Anche se la forte volatilità sui listini e le incertezze a livello globale e in particolare per l’economia dei Paesi emergenti ora potrebbero costringere la Federal Reserve a rivedere i piani di politica monetaria. Si parlava di quattro rialzi nel corso dell’anno, ora molti credono che al massimo ne vedremo un altro. Dimon non ne è convinto e in ogni caso non lo teme. «Non penso che la Fed abbia pianificato quattro rialzi di tassi. Quello era il consenso degli osservatori dopo il primo intervento. Ma Janet Yellen ha sempre ripetuto che la banca centrale guarderà con attenzione i dati sull’economia americana e in particolare sull’occupazione e l’inflazione e partendo da quei numeri prenderà le sue decisioni. La verità, però, è che 25 punti base di rialzo sui tassi non fa nessuna differenza. Non possiamo nemmeno parlare di una stretta monetaria».
Fonte: Anna Lombardi, la Repubblica 16/12/2015
Testo Frammento
È NARCISO, SICURO E INVIDIOSO. RITRATTO DEL COLLEGA TOSSICO CHE ROVINA LA VITA A TUTTI –
L’impiegato “tossico” avvelena anche te: digli di smettere. Già. Si chiama proprio “toxic worker” o almeno così l’ha battezzato la bibbia del management, l’Harvard Business School, in una ricerca appena pubblicata, ripresa anche dal Financial Times. La prima nel suo genere specificano i suoi autori, l’analista del lavoro Michael Housman e il professore di amministrazione aziendale Dylan Minor. «Finora si è studiato ciò che migliora le performance aziendali, non ciò che le rallenta». Ma chi è davvero il lavoratore “tossico”? Un dipendente il cui comportamento ha un impatto così negativo sull’ambiente di lavoro (e di conseguenza sugli affari aziendali) che nemmeno i meriti di quelli che la stessa ricerca definisce “superstar workers”, lavoratori dalle competenze e lealtà “stellari”, riesce ad equilibrare.
Il “tossico”, in fondo, lo conosciamo tutti: ce n’è uno in ogni ufficio. È il collega bravissimo ma narciso, quello sicuro di sè che con le sue battute acide abbatte il morale della squadra, ma anche l’invidioso che bisbiglia critiche delegittimando il lavoro degli altri o lo spaccone che si prende meriti non suoi. Oppure il Gordon Gekko di turno: uno che – come l’immortale protagonista di Wall Street – gioca sporco. Lo studio cita infatti – come caso estremo – quel Bruno Iksil, la “balena bianca”, trader di JP Morgan che nel 2012 fece investimenti talmente azzardati sul mercato dei derivati da influenzarne l’andamento: scommesse costate alla banca 6 miliardi di dollari. Altrettanto estremo è il caso di Vester Lee Flanagan, l’ex reporter americano che, divorato dall’invidia, lo scorso agosto uccise in diretta tv due colleghi.
Fonte: ItaliaOggi 24/11/2015
Testo Frammento
IN SEI ANNI LE BANCHE AMERICANE ED EUROPEE HANNO PAGATO MULTE PER 216 MILIARDI DI EURO. IL COSTO DELLE PRATICHE SCORRETTE –
In soli sei anni, fra il 2009 e il 2014, le banche europee e americane hanno pagato multe per una cifra totale di 230 miliardi di dollari (216 mld euro). A rivelarlo è una ricerca condotta da Morgan Stanley, che elenca alcune fra le più comuni pratiche scorrette messe in atto dai colossi del credito: fra le più clamorose, la manipolazione dei tassi Euribor e Libor, e la vendita di prodotti finanziari a forte rischio aggirando i divieti entrati in vigore dopo la grande crisi.
Eppure la lezione non è bastata: dall’inizio dell’anno sono tornate a fioccare le sanzioni, come quella alla Deutsche Bank da 2,5 mld di dollari (2,35 mld euro).
Il fatto che questi pagamenti diventino sempre più frequenti sta mettendo in pericolo la redditività degli istituti. McKinsey sostiene che nel primo semestre del 2014 l’ammontare delle multe è stato di 59 mld di dollari (55,5 mld euro), pari al 10% degli utili incamerati. Va inoltre considerato che a partire dal 2008 il ritorno sui capitali investiti si è notevolmente ridotto. E le somme accantonate per fronteggiare le sanzioni sono in continua crescita: per esempio, SocGen è arrivata a 1,1 miliardi di euro, Deutsche Bank a quasi 5 miliardi. Oltreoceano, JP Morgan si è avvicinata a 25 mld di dollari (23,5 mld euro).
Le multe sono suddivise tra il 55-60% dell’importo complessivo alle banche americane e il resto a quelle europee. Se il settore non canta vittoria, ad avvantaggiarsi di questa politica sono le autorità americane, che hanno visto le entrate lievitare. I numeri forniti da Boston Consulting dicono che il 63% delle multe inflitte nel Vecchio continente è legato a pratiche scorrette effettuate negli Stati Uniti.
ItaliaOggi 24/11/2015
Fonte: Francesca Basso, Corriere della Sera 20/12/2014
Testo Frammento
JP MORGAN E L’EMAIL VERITÀ SUI SUBPRIME: COSTÒ 37 MILIARDI –
Tutto è cominciato con l’email di un’impiegata di Jp Morgan ai suoi capi: avvertiva che stavano mettendo prestiti inesigibili a copertura delle obbligazioni (si tratta di titoli emessi prima della crisi finanziaria). È il memo da cui è partito il terremoto giudiziario che ha svelato i mutui subprime e che è costato alle tre maggiori banche americane 36,65 miliardi di dollari in patteggiamenti. Il Wall Street Journal ricostruisce così l’inizio delle indagini del Dipartimento di giustizia sulla crisi finanziaria del 2008. Il risultato furono 128 miliardi di dollari sborsati dalle dieci maggiori banche Usa tra accordi, multe e sanzioni. Nel 2012 un assistente del procuratore di Sacramento, Richard Elias, si è imbattuto nell’email che metteva in guardia i manager sulla qualità dei prestiti confezionati in titoli e poi venduti, mentre stava analizzando una pila di documenti di JpMorgan. L’ufficio del procuratore mandò subito l’avviso di garanzia ai manager di JpMorgan. Passano tre mesi e da Washington arriva l’ordine di andare a caccia di documenti simili in altre banche soprattutto Bank of America e Citigroup. Dopo mesi di indagini il Dipartimento di giustizia ha deciso di perseguirle. Le tre banche hanno patteggiato gli ormai noti 36,65 miliardi di dollari, cui 16,65 solo di Bank of America, la più grande transazione di sempre tra il governo americano e una singola compagnia.
Fonte: Libero 13/5/2014
Testo Frammento
TOH, GRILLI FINISCE A JP MORGAN –
L’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli sbarca in Jp Morgan dove assumerà l’incarico di presidente della divisione Corporate e Investment per l’area Europa, Africa e Medio Oriente. La notizia rilanciata dal sito del Wall Street Journal è solo la conferma ufficiale di una voce che circolava da tempo, da anni gli abboccamenti tra la famosa banca d’affari e l’ex ministro dell’Economia del governo Monti rimbalzavano incassando la sdegnata smentita del diretto interessato.
Ora, salvo sorprese, Grilli assumerà il ruolo che già per un breve periodo aveva svolto al Credit Suisse. Occupandosi probabilmente del corposo dossier privatizzazioni per la banca d’affari americana. Un ruolo su un altro fronte della barricata non nuovo per questo alto papavero della burocrazia ministeriale. Infatti oltre che responsabile del dicastero di via XX Settembre nel governo di Monti, sempre a l dicastero dell’Economia aveva ricoperto la carica di viceministro e, prima ancora, quella ben più operativa di stato direttore generale del Tesoro da maggio 2005 fino a novembre 2011. Un ruolo fiduciario con diversi ministri anche di maggioranze diverse: da i Domenico Siniscalco, a Tommaso Padoa Schioppa e poi pure Giulio Tremonti.
Grilli è laureato in Discipline Economiche e Sociali alla Bocconi di Milano e ha conseguito un Master e un PhD alla Rochester di New York. È stato anche assistant professor alla Yale e al Birkbeck College di Londra. Al Tesoro è entrato nel 1994 e fino al 2000 è stato a capo della direzione per le privatizzazioni. Poi la breve parentesi in Credit Suisse, appunto e anche il ruolo di ragioniere Generale dello Stato, incarico fondamentale per la profonda conoscenza del meccanismo della macchina pubblica.
Lo sbarco di Grilli in Jp Morgan, proprio alla vigilia di una nuova ondata di importanti dismissioni di asset pubblici, fa emergere l’importanza che alle privatizzazioni viene assegnata oltre oceano. Giusto ieri la Repubblica ha svelato un presunto piano del Tesoro per procedere speditamente alla vendita di quote non strategiche di Eni e Enel. Insomma, non solo il collegamento di Poste ed Enav ma pure le ben più appetibili azioni dei due colossi energetici. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, starebbe pensando di cedere una quota in entrambi i gruppi energetici a partire dal 2016, scendendo così sotto la soglia del 30%. Ma senza rinunciare al controllo.
Fonte: Il Sole 24 Ore 11/4/2014
Testo Frammento
IL CAPO DI JP MORGAN SI SENTE LUTHER KING –
È già irritante vedere i politici impadronirsi delle parole di un grande dell’umanità, come Martin Luther King, ma sentirsi citare sermoni sulla morale e sulla giustizia da un banchiere è addirittura offensivo. Tanto più se quel banchiere è Jamie Dimon, capo di JP Morgan, la banca coinvolta nello scandalo della «Balena londinese», della truffa dei mutui subprime, per cui è stata costretta a restituire una ventina di miliardi alle agenzie governative. «Un’esperienza che ti fa saltare i nervi», l’ha definita ieri il povero Dimon. Tanto più per una banca che, come la descrive lui nella lettera agli azionisti, sembra più una istituzione di carità: che assume i militari veterani, finanzia le missioni, aiuta i poveri e i disgraziati e lotta contro le forti «disuguaglianze di reddito». Parole testuali: di uno che lo scorso anno ha guadagnato 20 milioni di $. E infine la perla, citando M.L. King («L’arco dell’universo morale è lungo, ma piega verso la giustizia»), quasi che anche lui e la sua banca stessero subendo ingiustizie paragonabili a quelle della popolazione nera nell’America degli anni ’60. (W.R.)
Il Sole 24 Ore 11/4/2014
Fonte: M. Val., Il Sole 24 Ore 13/12/2013
Testo Frammento
JP MORGAN PAGA CARO LO SCANDALO MADOFF –
Lo spettro di Bernie Madoff costa caro a JP Morgan. La banca, impegnata a voltare pagina dopo numerosi scandali, è pronta a pagare una multa da oltre un miliardo di dollari al Dipartimento della Giustizia Usa per archiviare l’inchiesta penale che la vede sospettata di aver chiuso più di un occhio sulla truffa del secolo. Una truffa con la quale Madoff, ricordiamo, fece sparire investimenti per 18 miliardi o, contando i falsi rendimenti, 65 miliardi. JP Morgan, la banca sulla quale si appoggiava il truffatore, dovrebbe firmare entro l’anno un accordo con la procura federale di New York guidata da Preet Bharara. L’istituto non avvisò mai le autorità nonostante al suo interno fossero emersi sospetti di operazioni irregolari durante 20 anni di rapporti con il truffatore. E nonostante paradossalmente avesse lanciato qualche allarme in Gran Bretagna.
Fonte: Claudia Cervini, Milano Finanza 15/11/2013
Testo Frammento
PESCI IN FACCIA A JP MORGAN SU TWITTER –
Non è stata apprezzata dai risparmiatori l’idea di Jp Morgan Chase di tenere un dibattito pubblico su Twitter sui temi legati al mondo del credito. La banca ha infatti dovuto cancellare la sessione di dialogo avviata sul sito di micro-blogging dopo avere ricevuto migliaia di insulti. Il motivo? Le perdite miliardarie dovute agli errori sul trading di derivati nella vicenda London whale e il patteggiamento da 13 miliardi di dollari per violazioni sui titoli garantiti da mutui. A riferire la vicenda è il Financial Times, secondo cui Jimmy Lee, banchiere che ha seguito la vendita di titoli del social network, avrebbe dovuto moderare un evento online con l’hashtag #AskJPM, «chiedi a Jp Morgan». Nel gergo della comunicazione l’accaduto viene chiamato epic fail, fallimento totale delle strategie di marketing. (riproduzione riservata)
Fonte: Il Sole 24 Ore 20/9/2013
Testo Frammento
PER JP MORGAN UN MEA CULPA FORZATO–
La multa è salata, ma non quanto il mea culpa forzato. Jp Morgan dovrà pagare 920 milioni di dollari alle autorità americane e britanniche, poca cosa rispetto alle perdite di 6,2 miliardi sui derivati che hanno portato all’indagine. La svolta è che la maggiore banca Usa ha ammesso le sue numerose colpe, dalla mancanza di controlli sui trader alle carenze di corporate governance. È una vittoria per la Securities and Exchange Commission, che ha optato per la linea dura e volta pagina dopo oltre due decenni in cui le indagini si sono risolte con la mera imposizione di multe, mentre le banche coinvolte se la sono sempre cavata senza ammettere e senza negare le proprie responsabilità. Un escamotage per tutelare la reputazione ma anche per bloccare possibili azioni legali.
Il mea culpa ufficiale di Jp Morgan apre quindi un nuovo capitolo nei rapporti tra banche e autorità di controllo, ma schiude anche la porta a possibili cause da parte degli investitori.
Fonte: Serena Danna, Corriere della Sera 19/8/2013
Testo Frammento
AMBIZIONI, INGANNI E SCANDALI: STORIA DI JP MORGAN, LA BANCA-MITO -
Sembra un tiro mancino della Storia, eppure l’annus horribilis di JP Morgan coincide davvero con i 100 anni dalla morte del suo fondatore, John Pierpont Morgan, l’aristocratico che plasmò più di tutti il capitalismo del Novecento. Nella stessa settimana dell’incriminazione ufficiale di Javier Martin-Artajo e Julien Grout, i trader accusati di avere creato del buco da 6,2 miliardi di dollari per le scommesse sui derivati, un’inchiesta del New York Times rivela che la banca avrebbe assunto figli di alti funzionari cinesi per spianare la strada a investimenti e incarichi in Cina. Tra questi Tang Xiaoning, figlio di un ex dirigente della Banca Popolare Cinese e oggi a capo di una conglomerata pubblica, la China Everbright Group, e Zhang Xixi, figlia di un ex dirigente delle ferrovie cinesi. Se la corruzione, visto il periodo, non può passare dal denaro, a Pechino — come a Roma e New York — un «posto di lavoro» ai figli è diventata un’alternativa anche nella sede della potente banca americana.
Si dirà che proprio il banchiere John Pierpont Morgan, battezzato dal giornalista investigativo Lincoln Steffe «il boss dei boss», è stato l’artefice del primo scandalo finanziario della storia moderna: nel 1896 promise un ingente somma di denaro al candidato repubblicano William McKinley se avesse sconfitto l’avversario William Jennings Bryans, che voleva abolire il protezionismo doganale. L’episodio non impedì tuttavia a Morgan di essere acclamato come salvatore dell’America poco più di un decennio dopo (e ancora oggi), quando, durante «la tempesta perfetta del 1907», convinse i miliardari uomini d’affari di Wall Street e della City a rimettere liquidi in circolazione. Fu così convincente con i londinesi da far sembrare i cinquanta milioni di dollari di John Rockefeller una briciola al cospetto del carico di lingotti d’oro che arrivò dall’Inghilterra (quello si vendicò dopo la morte affermando che in fondo «John non era neanche molto ricco»).
Il banchiere, fondatore nel 1871 insieme ad Anthony Drexel della «Drexel, Morgan & Co», che sarebbe diventata di lì a poco la banca più importante d’America, si era guadagnato la stima dei colleghi con il metodo passato alla storia come «morganization»: prendere aziende sull’orlo del fallimento, ristrutturarle, renderle produttive e accorparle. Nascono così la U.S. Steel Corporation e la General Electric. Attraverso quella che viene presto definita «House of Morgan», crea un impero che controlla i nodi centrali del sistema produttivo ed economico: energia, trasporti, telecomunicazioni.
Un potere che si misura in opere d’arte e gemme preziose. Morgan, uno dei più grandi collezionisti di tutti i tempi, viaggi a parte, trovava conforto dalla depressione solo tra i Leonardo, Michelangelo e le bibbie di Gutenberg (ne possedeva 3 delle 49 copie esistenti nel mondo). A chi si chiede come mai un marchio che è riuscito a cavalcare per più di un secolo le intemperie della finanza e della politica senza perdere onore e prestigio, sia finito «venduto» nella pancia di una «balena londinese», il trader francese Bruno Iksil, può trovare qualche risposta in The House of Morgan , il libro di Ron Chernow che spiega perché la figura del fondatore è fondamentale per capire la finanza di oggi. È lui che inaugura quell’intreccio tra mondo finanziario ed economico che porterà Jp Morgan un secolo dopo a sedere nei consigli di amministrazione di quasi 40 compagnie con 72 mila impiegati e sette miliardi di dollari in asset. Così come è il banchiere a inaugurare quella che Charnow definisce «l’altalena di potere tra Washington e Wall Street»: l’anno della morte di Morgan il presidente Theodore Roosevelt fonda la Federal Reserve per non lasciare a nessun altro, mai più, il potere di salvare o distruggere l’economia di una nazione. Mentre il banchiere convince Londra a finanziare con i bond la fiorente industria al di là dell’Atlantico, la geopolitica del mondo segna una nuova divisione tra «grandi prestatori di denaro» e «grandi debitori». E i suoi figli continueranno la tradizione diventando partner economici di Francia e Germania nel primo Dopoguerra.
D’altronde, fu Morgan a inventare quel gentleman banker’s code che ancora si ritrova nel ceo che sta provando a portare la banca fuori dalla tempesta perfetta di questi anni, quel Jamie Dimon considerato fino
agli scandali recenti il nuovo asso della finanza mondiale. La fiducia prima di tutto è stata per decenni lo slogan del fondatore, come quando nel 1912 pronunciò la frase «Non potrei mai prendere bond da una persona di cui non mi fido ciecamente».
È stato il rovesciamento di prospettiva — dalla fiducia alla speculazione — che ha portato un gruppo di spregiudicati venti-trentenni della finanza a mandare all’aria il g entleman banker’s code , sgretolando le pareti di «House of Morgan»? Certo è che non è stata solo la voglia di arricchirsi a spingere brillanti e ambiziosi laureati delle migliori università anglosassoni a scommettere sui derivati. Peter Hancock, Bill Demchak, Blythe Masters e gli altri membri della Morgan Mafia negli anni 90 nei resort di Boca Raton, tra cocktail e bagni di notte in piscina, disegnarono scommesse ad altissimo rischio attraverso complessi strumenti finanziari. Come spiega Gillian Tett, autrice di Fool’s Gold: The Inside Story of J.P. Morgan and How Wall St. Greed Corrupted Its Bold Dream and Created a Financial Catastrophe , quegli yuppie di talento non avevano l’ambizione di diventare banchieri, voleva essere inventori. «Mi piaceva lavorare con i derivati — ha dichiarato Blythe Masters, attuale capo delle commodities della banca — perché richiedono tanta creatività». L’innovazione era entrata nella finanza e loro volevano dominarla. «Tra tutti Jamie Dimon è senz’altro il migliore — ha dichiarato Adam Haslett, autore di Union Atlantic , il primo romanzo sulla crisi economico-finanziaria del 2008 — ma non può sfuggire alla logica del sistema: l’avidità sconfigge la legge fino a quando non viene bloccata con la forza».
Fonte: Carlo Clericetti, la Repubblica 21/6/2013
Testo Frammento
JP MORGAN SHOCK: “BASTA COSTITUZIONI ANTIFASCISTE”–
Il sogno dei finanzieri (non di tutti, si spera) è uno Stato che funzioni come un’azienda, ma un’azienda di fine ‘800. Basta col bilanciamento dei poteri, ci vuole un governo forte. Basta con le protezioni del lavoro. Basta con queste Costituzioni antifasciste contaminate dalle idee socialiste. Basta con la libertà dei cittadini di protestare. E’ un sogno che JP Morgan, la più importante banca d’affari del mondo insieme a Goldman Sachs, ha messo nero su bianco in un documento sulla crisi in Europa.
Il paragrafo più significativo: «I sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)». JP Morgan ci spiega dunque che il buon funzionamento dell’economia non è un mezzo attraverso cui si cerca di migliorare il benessere collettivo, ma il fine da perseguire a costo di stracciare le garanzie e i diritti che definiscono uno Stato democratico. Naturalmente si presuppone che gli Stati siano guidati da élites. Sorprende, che i nostri finanzieri non abbiano menzionato esplicitamente anche la sospensione del diritto di voto, anche se la adombrano quando si preoccupano della «crescita di partiti populisti».
Fonte: Marco Valsania, Il Sole 24 Ore 27/2/2013
Testo Frammento
JP MORGAN TAGLIERÀ 15 MILA DIPENDENTI NEL SETTORE DEI MUTUI [ Altri 3-4 mila nella divisione retail] –
NEW YORK
JP Morgan è una delle banche americane che vanta i maggiori profitti. E il suo amministratore delegato Jamie Dimon non è timido nel definirla una corazzata, armata di grande liquidità e capitale. Anche il ponte di una corazzata finanziarie, però, è oggi battuto dal vento dei tagli dei costi per fare i conti con le tensioni sui mercati, con una crescita economica anemica e con la necessità di restare competitivi. L’istituto americano ha rivelato ieri, durante una presentazione agli investitori nel quartier generale di Manhattan, piani per una riduzione di quattromila posti di lavoro che farà salire a quasi ventimila il totale dei tagli nell’arco dei prossimi due anni, pari al 7,3% dei suoi dipendenti.
I quattromila posti saranno eliminati nel consumer banking, l’attività agli sportelli, entro la fine del 2013. Un passo che da solo ridimensiona dell’1,5% il totale della forza lavoro globale della banca, circa 259.000 dei quali un quarto, 63.500, sono nei servizi al consumo. E che dovrebbe consentire il risparmio di un miliardo di dollari. Entro la fine dell’anno prossimo, inoltre, la banca ha confermato la riduzione di almeno 13.000 e forse 15.000 posti nelle attività legate ai mutui, generando un ulteriore risparmio di tre miliardi di dollari. Le operazioni della banca d’investimento dovrebbero invece evitare interventi di austerity.
Altre banche, in cerca di redditività, hanno iniziato nuovi giri di vite sui costi. In dicembre Citigroup ha messo in cantiere undicimila tagli e Goldman Sachs, secondo indiscrezioni, potrebbe a sua volta far scattare nuove riduzioni del personale questa settimana. Goldman, che ha ridotto i dipendenti del 9% in due anni, tradizionalmente licenzia in questo periodo il 5% dei dipendenti con le performance peggiori. Ma ora le riduzioni potrebbero essere più drastiche almeno in alcune attività giudicate deboli, quali il trading azionario. Significativi tagli negli ultimi anni si sono inoltre susseguiti a Morgan Stanley, Bank of America e Ubs.
Nell’ultimo anno Jp Morgan ha riportato profitti record per oltre 21 miliardi di dollari. Non sono però mancati costosi passi falsi: su tutti lo scandalo delle aggressive scommesse nei derivati del suo ufficio di Londra, che ha provocato oltre sei miliardi di dollari di perdite. E paradossalmente la nuova strategia di risparmi è anche il frutto della risoluzione di una crisi, quella immobiliare: gli impegni straordinari presi con la autorità di regolamentazione per riesaminare mutui e pignoramenti irregolari avevano generato occupazione.
Ad oggi JP Morgan, potenziatasi durante e dopo la crisi facendo leva sulla fragilità mostrata invece di molti concorrenti, vanta una rete nazionale di filiali seconda solo a Wells Fargo, con 5.614 sedi. L’obiettivo resta di aggiungere un centinaio di sedi l’anno, facendo tuttavia leva sull’efficienza e su un crescente numero di servizi automatizzati. Entro il 2015 le filiali, ha stimato ieri il gruppo, dovrebbero avere in media un quinto di dipendenti in meno rispetto ad oggi. La banca è inoltre intenzionata a offrire in futuro nuovi servizi mirati anzitutto ai clienti più facoltosi e capaci di generare maggiori entrate.
Fonte: Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera 28/01/2013
Testo Frammento
IL PATTO CON SANTANDER E JP MORGAN. ADESSO SPUNTA UNA LETTERA SEGRETA - Un patto tra acquirente e venditore per truccare i conti e far salire il prezzo di Antonveneta. Un accordo non scritto tra gli spagnoli del Santander e gli italiani di Monte Paschi per dividersi la «plusvalenza» di quell’affare. Gli atti contabili, le comunicazioni interne, le relazioni trasmesse agli organi di vigilanza sequestrate otto mesi fa per ordine della magistratura di Siena e analizzate dagli specialisti della Guardia di Finanza, hanno consentito di trovare indizi concreti su questo intreccio illecito. E di aprire una nuova fase d’indagine che si concentrerà sui testimoni da ascoltare. Personaggi che potrebbero conoscere dettagli inediti di quanto accadde nel 2007 quando Santander acquistò la banca per 6,3 miliardi di euro e appena due mesi dopo riuscì a venderla a Mps per 9,3 miliardi di euro con un’aggiunta di oneri che fecero lievitare la cifra a 10,3 miliardi. Un ulteriore miliardo che potrebbe rappresentare la «stecca» aggiuntiva e coinvolge direttamente Jp Morgan.L’armadio dei documentiNell’elenco c’è anche il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior e da vent’anni responsabile di Santander per l’Italia che ha più volte incontrato l’ex presidente Giuseppe Mussari, come dimostrano le agende sequestrate a quest’ultimo. Lo scorso anno, indagando sui conti dell’Istituto opere religiose, le Fiamme gialle sequestrarono nel suo ufficio un armadio pieno di documenti sulle operazioni condotte da Santander nel nostro Paese. E contenevano i nomi di alcuni consulenti che negli anni hanno affiancato l’istituto spagnolo e potrebbero aver avuto un ruolo importante anche nella vendita di Antonveneta. Tra i nomi spicca quello di Marco Cardia, avvocato che si occupò di alcuni aspetti dell’acquisizione per conto di Mps all’epoca in cui suo padre Lamberto era presidente della Consob.Sono diverse le persone che in questi mesi avrebbero già aiutato gli uomini del Nucleo valutario a ricostruire il percorso dei soldi. Denaro trasferito all’estero e in parte fatto rientrare grazie allo scudo fiscale. Ma ancora molto ne manca all’appello e soprattutto altre speculazioni sono state effettuate negli ultimi mesi. Per questo, come viene confermato dai magistrati senesi, si continua a indagare pure per aggiotaggio. Non escludendo che anche in queste ore ci siano nuove manovre illecite sul titolo. Testimone chiave in questa fase si è dimostrato Nicola Scocca, l’ex direttore finanziario della Fondazione che sarebbe stato interrogato già quattro volte. Il patto tra le bancheSono gli ordini di perquisizione notificati il 9 maggio scorso a svelare quale sia il nocciolo dell’inchiesta. E per quale motivo siano finiti nel registro degli indagati l’ex direttore generale Antonio Vigni e gli ex sindaci Tommaso Di Tanno, Leonardo Pizzichi e Pietro Fabretti. Adesso l’indagine si è allargata coinvolgendo Mussari, il presidente della Fondazione Gabriello Mancini, l’ex direttore generale dell’ente Mario Parlangeli e l’attuale, Claudio Pieri. E con un faro acceso sull’attività di Gianluca Baldassarri, direttore dell’Area finanza fino allo scorso anno. Dopo l’esborso di oltre 10 miliardi e l’accollo dei debiti per ulteriori otto miliardi, bisogna ripianare il bilancio. Le ricapitalizzazioni e i prestiti del Tesoro non sono evidentemente sufficienti. E così i titoli Mps in portafoglio alla Fondazione finiscono in pegno a undici istituti di credito, una sorta di cordata guidata da Jp Morgan che coinvolgeva anche Mediobanca. I finanziamenti arrivano attraverso contratti di Total Rate of Return Swap (Tror) e per questo i magistrati chiedono ai finanzieri di sequestrare le «note propedeutiche agli accordi di stand still siglati con la Fondazione, la documentazione relativa alle contrattazioni che hanno determinato il rilascio di garanzie in favore delle banche o del "Term loan" da parte della Fondazione Mps, la loro novazione, documentazione concernente il ribilanciamento del debito contratto dalla Fondazione». Le manovre speculativeL’esame dei documenti effettuato in questi otto mesi dimostra che per sanare la voragine nei conti aperta con l’acquisto di Antonveneta furono messe in piedi operazioni ad altissimo rischio come i bond fresh del 2008 e quelle sui derivati. Ma non solo. I magistrati sono convinti che il valore delle azioni sia stato gonfiato dai dirigenti di Mps e che queste manovre speculative siano andate avanti anche negli anni successivi, in particolare tra giugno 2011 e gennaio 2012. Obiettivo: nascondere un disastro finanziario che i vertici del Monte Paschi avevano invece escluso. Non a caso nei decreti di perquisizione del maggio scorso viene evidenziato come «la documentazione acquisita e le informazioni testimoniali fanno emergere l’ostacolo all’attività di vigilanza della banca d’Italia poiché risulta che organi apicali e di controllo di Mps, contrariamente al vero rappresentavano che la complessiva operazione realizzava il pieno e definitivo trasferimento a terzi del rischio d’impresa e che la stessa non contemplava altri contratti oltre quelli già inviati». Il falso su Jp MorganAgli atti c’è una lettera trasmessa il 3 ottobre 2010 dal direttore generale di Mps Vigni a Bankitalia sull’aumento di capitale da un miliardo riservato a Jp Morgan. Dieci giorni prima Palazzo Koch aveva chiesto «delucidazioni circa la computabilità della complessiva operazione di rafforzamento patrimoniale da un miliardo di euro nel core capital». Vigni risponde che «in ordine all’assorbimento delle perdite Jp Morgan ha acquistato le proprietà delle azioni senza ricevere alcuna protezione esplicita o implicita dalla Banca». Affermazioni «non rispondenti al vero» secondo i pubblici ministeri che contestano al direttore generale di aver mentito «anche sulla flessibilità dei pagamenti riconosciuti alla stessa Jp Morgan». E di aver provocato un’ulteriore, gravissima perdita finanziaria a Mps.
Fiorenza Sarzanini
Fonte: Il Sole 24 Ore 13/5/2012
Testo Frammento
JP MORGAN, I VERTICI ORDINAVANO L’AUMENTO DI OPERAZIONI A RISCHIO - È questo, stando a indiscrezioni, il filone di indagine seguito dalle autorità mobiliari della Sec americana e della Fsa britannica. E ieri è venuto alla luce che la forte spinta agli hedge aggressivi e rivelatisi disastrosi - a colpi di centinaia di milioni di perdite al giorno nel giro di due settimane - durava da mesi e arrivava direttamente da top executive. JP Morgan, la maggior banca americana per asset e tra i protagonisti del mercato ancora oscuro e poco regolamentato dei derivati, aveva difeso un privilegio raro: quello d’essere uscita dalla precedente crisi intatta, senza trimestri in rosso e gravi scottature da speculazioni andate male. Una posizione invidiabile che dava credibilità anche agli sforzi della banca di moderare la spinta alla riforma finanziaria: la Volcker Rule, che vieterà il trading per conto proprio dei grandi istituti e dovrebbe emergere a luglio, come limiti all’esposizione a singole controparti e controlli su un universo globale dei derivativi da 647.000 miliardi di dollari. Oggi l’ammirazione per quel manto di invincibilità è ricordo del passato. Ha lasciato spazio, a Wall Street in attesa di una nervosa riapertura domani dopo le pesanti perdite sui titoli finanziari già venerdì, è ben diversa: se persino JP Morgan e il suo amministratore delegato Jamie Dimon non riescono, volenti o nolenti, a gestire questi rischi, chi può riuscirvi? Le banche troppo grandi per fallire sono forse troppo grandi e pericolose da guidare senza stringenti normative. JP Morgan aveva citato tra le sue obiezioni proprio la possibilità che il suo Chief Investment Office, la divisione che ha gestito le catastrofiche scommesse, venisse imbrigliata nei suoi indispensabili hedge dalle riforme. Ma una ricostruzione del Wall Street Journal ha rivelato che la vicenda dietro al CIO è ben più complessa e controversa. La divisione gestisce hedge prudenziali e anche manovre su un portafoglio titoli da 374 miliardi. Da mesi i vertici di JP Morgan ordinavano di aumentare le operazioni di hedge. L’obiettivo, ufficialmente virtuoso, era rientrare da un’esposizione considerata eccessiva sui mercati del credito in balia della crisi europea. Ma la pressione dall’alto spinge ora a cercare di scoprire chi sapeva e approvava delle specifiche strategie adottate. Della grande, esagerata, partita giocata in particolare da Londra su un indice legato al credito aziendale. E che punto il passivo sia diventato tale da richiedere la comunicazione agli investitori. Le perdite si sono gonfiate nel’arco di soli 15 giorni, al ritmo stratosferico quotidiano di 153 milioni in media. Di sicuro la tensione era salita dentro la stessa banca: il board si e’ riunito ripetutamente nelle ultime settimane. E Dimon, finora re di Wal Street, non e’ piu’ stato intoccabile: non e’ stata discussa una sua rimozione da Chief executive, ma e’ stata considerata una stretta sui controlli interni. Gli incontri si sono moltiplicati dopo il 13 aprile, quando le perdite sono lievitate oltre i 200 milioni al giorno. Squadre di ispettori interni hanno cominciato a esaminare le strategie e trovare errori e disattenzioni nelle operazioni di hedging. Nel mirino sono finiti, oltre al trader Bruno Iksil, il responsabile dell’ufficio di Londra del CIO, Achilles Macris, e il capo della divisione, Ina Drew, che aveva cercato di minimizzare la crisi. Una crisi che venerdi’ ha gia’ portato il titolo JP Morgan a perdere 14,4 miliardi di capitalizzazione in Borsa, con i volumi di scambi piu’ elevati dal 1984. E ha spinto Fitch a declassare la banca, citando problemi di reputazione e governance, e Standard & poor’s a minacciare a sua volta un prossimo taglio del rating. Marco Valsania • STRUMENTI ANCORA UTILI, IL PROBLEMA È NELL’ABUSO - Le perdite da almeno 2 miliardi di dollari della JP Morgan su posizioni in credit default swap sono uno shock non solo per le dimensioni ma per un’amara verità: neppure una delle più grandi banche al mondo, superdotata in fatto di expertise, mezzi, tecnologie e controlli interni, è riuscita a evitare l’uso spregiudicato ed eccessivo dello strumento derivato. Jamie Dimon sfoggiava il risk management della sua banca come un fiore all’occhiello: eppure non è riuscito a rendersi immune dai rischi oscuri dei derivati over-the-counter. Barings si è accartocciata su se stessa per colpa dei derivati di un solo operatore, Société Générale, un tempo considerata la prima banca al mondo in derivati sulle azioni, ha scosso la Francia con il buco da 4,9 miliardi di euro del trader Kerviel. Ora JP Morgan. Se questo è quanto accade nelle più blasonate istituzioni finanziarie del mondo, non può che preoccupare la gestione a livello di istituzioni piccole, medie e medio-piccole degli oltre 650 mila miliardi di dollari di valore nozionale dei derivati: anche se il valore dell’esposizione, calcolato tenendo conto del netting delle posizioni e guardando ai flussi dei pagamenti e non allo stock del nominale, si riduce notevolmente. Questi strumenti non sono cattivi per definizione ma può essere cattivo l’uso e l’abuso che se ne fa: i sistemi dei controlli interni ed esterni, la regolamentazione a livello nazionale e internazionale, la standardizzazione dei prodotti e l’avvio delle clearing houses con versamento di margini per neutralizzare il rischio-controparte, devono essere rafforzati e revisionati. In fretta. La crisi del debito sovrano europeo ha già un effetto estremamente destabilizzante sui mercati e qualsiasi bolla sui derivati, con il suo effetto moltiplicatore, va sgonfiata sul nascere. Isabella Bufacchi
JPMORGAN PROSSIMO DATORE DI LAVORO DI RENZI
Perché il governo ha puntato tutte le fiches su Jp Morgan?
«La poesia racconta di una cena con Blair da cui sarebbe partito l’ innamoramento del premier per la banca americana. Più prosaicamente io ritengo che Renzi voglia rimanere presidente del Consiglio il più a lungo possibile ma non disdegni di pensare anche al futuro più lontano. Io gli credo quando dice che dopo la politica farà un altro lavoro».
Cioè?
«Jp Morgan è una bella assicurazione sulla vita».
FARE I SOLDI CON L’ITALIA (DA UN SECOLO) - JP MORGAN SEMPRE PRESENTE: DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALL’INGRESSO NELLA MONETA UNICA. ORA HA PUNTATO MONTEPASCHI - DOPO L’INCONTRO CON DIMON, RENZI CAMBIA IDEA: PRIMA VOLEVA L’INTERVENTO PUBBLICO, POI HA LASCIATO IL BUSINESS ALLA BANCA D’AFFARI USA. PER QUESTO E’ STATO LICENZIATO FABRIZIO VIOLA
26/9/2016
Giovanni Pons per “Affari&Finanza - la Repubblica”
Qualcuno l’ ha definita la banca dei governi e degli istituti centrali, per come nel corso degli ultimi duecento anni si è sempre affiancata alle istituzioni offrendo il proprio apporto in termini di expertise e know how sulle più delicate materie finanziarie e monetarie.
Ma la JP Morgan, come tutte le altre grandi banche globali, non fa beneficienza, ma affari con imprese e istituzioni in giro per il mondo, grazie a una presenza territoriale che molti le invidiano.
In Italia, per esempio, ha appena celebrato il centesimo anno di attività, iniziata nel 1915-16 con la partecipazione a un prestito di 25 milioni di dollari a favore del governo italiano in cui Guaranty Trust Company di New York, l’ antenata della JP Morgan Chase di oggi, era coinvolta nel ruolo di co-head.
A cent’ anni di distanza, la JP Morgan guidata in Italia da Guido Nola, con l’ ex ministro Vittorio Grilli a capo dell’ investment banking europeo, è ancora alla ribalta delle cronache finanziarie per essersi ritagliata un ruolo di primo piano nell’ operazione di salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, non ancora conclusa e con una serie di ostacoli sulla sua strada.
La discesa in campo è stata preceduta, come spesso accade quando in gioco ci sono banche di rilevanza mondiale, da un incontro a quattr’ occhi tra il numero uno globale, Jamie Dimon, e il premier italiano Matteo Renzi, propiziata, si dice, da un altro banchiere di standing internazionale, Claudio Costamagna, presidente della Cassa Depositi e Prestiti.
Un incontro fatale, dev’ essere stato, poiché da quel momento Renzi ha abbandonato l’ idea di intervenire con soldi pubblici nel capitale del Monte dei Paschi, per affidarsi mani e piedi alle cure della grande banca americana, chiedendo soltanto la presenza al suo fianco di Mediobanca.
Il tandem stava già lavorando da un annetto con il Tesoro per negoziare con i riottosi uffici di Bruxelles della Concorrenza il tema della creazione di una bad bank in cui infilare i crediti deteriorati delle banche senza impattare sulla normativa per gli aiuti di Stato. JP Morgan e Mediobanca si sono poi inventate il meccanismo delle Gaacs, cioè le garanzie pubbliche sulle tranche di cartolarizzazioni, l’ unico in grado di superare lo scoglio degli aiuti di stato. Uno schema poi trasferito sull’ operazione Montepaschi dove JP Morgan si è detta disponibile a garantire una parte importante del bridge loan necessario per portare fuori dal bilancio della banca senese 10 miliardi di sofferenze nette.
Poi, insieme a Mediobanca, ha formato un consorzio di pre-garanzia per un aumento di capitale da 5 miliardi in cui sono confluiti altri colossi come Credit Suisse, Bofa Merrill Lynch, Deutsche Bank, Santander. La partita che JP Morgan si sta giocando in Italia è dunque forse la più visibile di sempre, sia per le ricadute in termini di reputazione sia per il ritorno in termini di remunerazione (una stima un po’ grossolana indica in 500 milioni il monte commissioni che graverà sul bilancio Mps se verranno portati a termine prestito ponte e aumento di capitale). Più di una buona ragione per tagliare fuori l’ advisor principale delle precedenti ricapitalizzazioni del Monte in cui la parte del leone la fece la svizzera Ubs.
D’ altronde, come sa bene il governo ma anche i regolatori europei, evitare un bail in del Monte dei Paschi è un obbiettivo primario per non creare un effetto contagio sul sistema bancario italiano ed europeo. Che, come il fallimento di Lehman Brothers insegna, potrebbe avere costi esponenziali e ricadute pesanti per tutti i protagonisti.
Non è la prima volta che JP Morgan si schiera a fianco del governo italiano in situazioni difficili, offrendo i suoi servizi sempre ottimamente retribuiti. Era stato il New York Times nel febbraio 2010 a parlare per la prima volta dell’ aiuto che JP Morgan offrì al governo italiano nella seconda parte degli anni ’90 per facilitarne l’ ingresso nell’ euro.
«Con l’ aiuto di JP Morgan - ha scritto il quotidiano americano - l’ Italia riuscì nel suo intento. Nonostante alti deficit, un derivato attivato nel 1996 consentì di portare il budget italiano in linea con i parametri swappando valute con JP Morgan a un tasso di cambio favorevole e mettendo più soldi nelle mani del governo. Come contropartita l’ Italia si impegnò a futuri pagamenti che non erano contabilizzati come passività».
Tra i tanti italiani che si sono fatti le ossa negli uffici della banca americana, c’ è chi oggi ricorda che quell’ operazione era stata denominata in codice Cristal , ed era coperta dal massimo riserbo anche all’ interno della banca tanto che ne erano a conoscenza una decina di alti funzionari appena. E non è un mistero che l’ esplosione del debito pubblico italiano, avvenuta dalla metà degli anni ’80 in poi, ha rappresentato una vera e propria manna, in termini di commissioni incassate, per quelle banche d’ affari internazionali che erano presenti con propri uffici e team nel Belpaese ed erano riuscite ad agganciare un cliente importante come il Tesoro italiano.
Tra queste c’ era sicuramente la JP Morgan, ma anche la Lehman Brothers, la Morgan Stanley, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch oltre ad alcune ditte europee come Credit Suisse e Deutsche Bank. Tutti a consigliare come gestire al meglio quella massa crescente e sempre più articolata rappresentata dal debito pubblico italiano, il secondo al mondo.
Quando a metà degli anni ’90 cominciò il processo di convergenza tra i tassi italiani e quelli tedeschi diventò fondamentale il rispetto del parametro del 3% di deficit sul Pil, obbiettivo che sembrava alla portata del governo Prodi che poteva contare sull’ ex banchiere centrale Ciampi alla guida del Tesoro e Mario Draghi alla direzione generale.
Fu così che, racconta chi stava in JP Morgan all’ epoca, un genietto dei prodotti derivati di nome Bertrand des Pallieres, si inventò uno swap tra lo yen e la lira che permetteva di contabilizzare immediatamente un utile per la Repubblica Italiana e che veniva pagato a rate negli anni successivi senza figurare come passività nella contabilità nazionale.
Negli anni Duemila la potenza di JP Morgan aumenta notevolmente sfruttando la possibilità offerta sotto la presidenza Clinton di diventare banca universale, spaziando in tutti i segmenti dell’ attività bancaria, dai crediti ai mutui, dalla gestione del risparmio al private e all’ investment banking.
Prima si fonde con la Chase Manhattan, poi con Banc One e quando scoppia la grande crisi finanziaria nel 2007-08 è costretta a rilevare Bear Stearns sull’ orlo del collasso e Washington Mutual piena di mutui subprime. Anche se subirà, insieme alle altre grandi banche del sistema americano, la ricapitalizzazione forzata da parte del Tesoro per permettere al sistema bancario di continuare la propria attività di prestatore di fondi all’ economia reale.
JP Morgan ha dunque le spalle larghe, è diventata la prima banca Usa ma è ancora molto presente in Europa e in Italia quando scoppia la crisi dei debiti sovrani innescata dalla Grecia. Goldman Sachs è accusata di aver aiutato il governo ellenico nel mascherare il debito pubblico, la stessa costruzione dell’ euro è messa sotto pressione e tutte le banche americane ed europee, attraverso i loro dipartimenti speculano sulla disintegrazione della moneta unica, che però non avviene.
Nel momento peggiore della crisi la Deutsche scarica sul mercato miliardi di titoli di Stato italiani, ma Jp Morgan cerca di distinguersi dal coro, fedele alla tradizione, aumentando la propria esposizione verso controparti italiane: 5 miliardi nel 2011 diventano 7,5 miliardi nel 2015 e 8,4 nel marzo 2016.
Dopo aver cresciuto negli ultimi trent’ anni banchieri che via via assumono posizioni di rilievo nel panorama finanziario italiano (da Giovanni Gorno Tempini e Matteo Del Fante approdati alla Cdp dopo essersi fatti le ossa nella divisione obbligazionaria della JP Morgan, a Marco Morelli, oggi chiamato a guidare il Montepaschi in una situazione difficile, a Federico Imbert, che in seguito alla fusione con Chase Manhattan diventò numero uno in Italia del nuovo gruppo americano) oggi si trova nella fortunata congiuntura di avere Grilli chairman europeo, il fiorentino Francesco Rossi Ferrini a presidiare i fondi sovrani, e tutto il team milanese (in Italia la banca impiega 160 persone) a remare per salvare il Monte e arrichire la banca.
Il legame con il governo Renzi è talmente forte che su suggerimento di JP Morgan non solo è stato licenziato Fabrizio Viola ma è stato insediato al suo posto Marco Morelli. Tuttavia per mandare in porto l’ operazione occorre fare filotto, a partire dal referendum costituzionale sul quale Renzi rischia la poltrona. E il rischio di insuccesso, questa volta, è molto elevato.
Fonte: Federico Fubini, Corriere della Sera 3/01/2017
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ORA L’INNOVAZIONE FINANZIARIA SPAVENTA L’EUROPA –
Suona curiosamente attuale in questo scorcio di 2017 Paul Volcker, l’uomo che precedette Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve. Ormai anziano, ma non per questo più mite, dopo la caduta di Lehman Brothers riassunse un’epoca in una frase: «La sola innovazione finanziaria utile degli ultimi vent’anni è stata il bancomat». Quando Volcker parlava così platee di ascoltatori con conti in banca a otto, nove o dieci cifre sprofondavano nel silenzio. Non era mai chiaro se fosse profondo rispetto, o imbarazzo.
Volcker naturalmente si riferiva alle innovazioni che dieci anni fa si ritorsero contro Wall Street: titoli strutturati o i «credit default swaps», derivati progettati durante una vacanza a Boca Raton, Florida, da un gruppo di banchieri di Jp Morgan nel 1994 per spalmare il rischio sui mercati nell’illusione di annullarlo. Nacque così la saggezza convenzionale del ventennio che si è chiuso nel 2007: investitori, regolatori e economisti spiegarono per anni che l’innovazione era in grado di prevenire le deflagrazioni del mercato. Chi avvertiva che un’illusione del genere avrebbe indotto nuovi incidenti era oggetto di scherno e umiliazioni dimostrative. Accadde per esempio a Raghuram Rajan nel 2005, maltrattato dall’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers per aver previsto ciò che sarebbe successo pochi anni dopo.
Non resta che chiedersi se questa sia davvero una storia che non tornerà. Nemmeno in forma diversa, nemmeno in Europa, nemmeno ora che c’è l’Unione bancaria. Resta da capire se il conformismo interessato degli esperti e le false certezze dei banchieri rendano davvero sicuri i sistemi di oggi nell’area euro. Eppure è passata nel silenzio la scelta della Banca centrale europea, la settimana scorsa, di mostrarsi per la prima volta flessibile nella vigilanza finanziaria. La parte dell’amministrazione di Francoforte incaricata di sorvegliare sulle grandi banche dell’area euro, sotto la guida della francese Danièle Nouy, per quest’anno ha ridotto i requisiti vincolanti di capitale di un certo numero di gruppi francesi, tedeschi, italiani o spagnoli.
È molto probabile che si sia trattato di una decisione corretta, ma certo che non è ciò che ci si aspetterebbe. Ora che le economie sono in ripresa e le banche hanno di fronte a sé la prospettiva di riprendere a guadagnare, la severa reputazione di Nouy avrebbe indotto ad attendersi al contrario. I requisiti di capitale di una banca sono paragonabili al patrimonio minimo da investire in un immobile per poter ottenere un mutuo e comprarselo. Ma ridurli proprio ora equivale a chiedere alla formica di mettere meno da parte durante la bella stagione, a rischio di doverlo poi fare dolorosamente quando farà freddo.
Se succede oggi in Europa, è a causa di un’innovazione finanziaria i cui risvolti ancora una volta sono del tutto sfuggiti di mano agli esperti, ai regolatori e i suoi stessi inventori. Si tratta dei cosiddetti «contingent convertible bonds» (CoCo bonds), obbligazioni di nuovo tipo pensate dopo la Grande recessione proprio per rimediare alla povertà di capitale delle banche emersa nel 2008. Questi titoli sono ambivalenti per natura: chi li compra sa che verranno cancellati o convertiti in azioni, svalutandosi, allo scoccare di certe condizioni di difficoltà di una banca. In tal modo l’istituto, quando è in crisi, può generare nuovo patrimonio o ridurre i debiti. Le banche hanno risposto emettendo CoCo bonds voracemente: entro metà del 2016, secondo Bloomberg, per 106 miliardi di euro. Del resto uno studio pubblicato nel 2013 della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), l’organismo delle grandi banche centrali del pianeta, ne magnificava le virtù e Andrew Haldane, capoeconomista della Bank of England, ne era così entusiasta da proporre che emettano questi strani i titoli anche i governi indebitati.
Come i «credit default swaps» dieci anni prima, i CoCo bonds sembravano l’elisir della stabilità. Nel suo studio del 2013, la Bri nota compiaciuta che vengano venduti in massa ai piccoli risparmiatori. Ma come dieci anni fa, erano sfuggiti due dettagli destabilizzanti: la Bce impedisce alle banche di pagare le cedole sui CoCo quando il loro capitale scende sotto i requisiti vincolanti, perché a quel punto il denaro deve restare in azienda; e se una prospettiva del genere appare all’orizzonte anche solo per un’unica banca, gli investitori ne vendono subito i CoCo facendo crollare le quotazioni, segnalando così crisi e innescando contagio sui CoCo e sui titoli azionari di tutte le altre concorrenti. È successo nel 2016 per tutti i grandi gruppi europei. I CoCo si sono rivelati sicuri come scudi ricoperti di tritolo. Per questo la Bce la settimana scorsa ha dovuto allentare i requisiti patrimoniali vincolanti delle banche, in modo da allontanare la soglia d’innesco del panico.
C’è poi un problema in più: le nuove regole Ue sugli aiuti di Stato di fatto trasformano retroattivamente i titoli subordinati venduti al pubblico in molti Paesi d’Europa in CoCo, strumenti pericolosi e inadatti alle famiglie. Ma non un economista che eccepisca. Anche loro tengono famiglia. Solo Paul Volcker, 90 anni, dice senza remore ciò che pensa.
Fonte: Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 29/12/2016
Testo Frammento
MPS: 6 MESI DI BUGIE. IL BLUFF DI MORELLI AVALLATO DA PADOAN –
Centosessantanove giorni di bugie sulla pelle del Monte dei Paschi e del settore bancario. Pier Carlo Padoan non è solo il ministro dell’Economia: è anche il maggior azionista – attraverso il Tesoro – della banca senese. Da questa posizione per 6 mesi il premier gli ha imposto di avallare un “piano di salvataggio” per Mps – proposto da Jp Morgan e accettato da Renzi il 6 luglio – che non aveva speranza di riuscire. “L’operazione avrà successo, non c’è bisogno di un piano B”, spiegava Padoan solo il 2 settembre. Sei giorni dopo, su ordine di Renzi, a sua volta pressato dalla banca Usa, licenziava l’ad Fabrizio Viola per sostituirlo con Marco Morelli, in passato in Mps ed ex di Jp Morgan: “Un segnale di discontinuità che aiuterà la realizzazione del piano industriale”.
Non era vero, ma da allora i giornali sono stati insufflati con fantomatici interessamenti di grandi investitori (anchor investor). Poi le cronache hanno informato che il finanziere George Soros o il fondo sovrano del Qatar (Qia) si erano sfilati dopo il voto referendario. “C’erano fino a metà dicembre: l’abbiamo saputo solo il 22”, informavano ieri le veline della banca. Altra bugia. “Dal Qatar arrivò in Bce un documento talmente pieno di distinguo da risultare superficiale”, ha scritto ieri il Corriere. È andata perfino peggio. Quella arrivata a Francoforte era simile a una risposta di cortesia. La finzione è dominante in questa Caporetto del governo. “Qia non poteva assolutamente accettare la proposta di Mps – racconta un grande investitore che lavora con gli arabi –. Nessun fondo sovrano poteva farlo, proprio per Morelli e Jp Morgan”. L’ad di Siena è stato infatti multato dalla Banca d’Italia nel 2013 per irregolarità compiute quando era in Mps nell’operazione “Fresh” finalizzata al disastroso acquisto di Antonveneta. Il Fresh era un aumento di capitale riservato a Jp Morgan che però con una serie di contratti collegati era salvaguardata da eventuali perdite. “Un’operazione a favore di Jp Morgan e a detrimento degli azionisti. Da questa posizione, non era possibile chiedere soldi per un aumento di capitale curato proprio dalla banca Usa. I fondi sovrani arabi sono istituzioni pubbliche: nessun comitato di controllo avrebbe mai dato il via libera”. E bastava guardare i numeri per capire che l’operazione “non aveva senso”: “Non permettevano di fare una due diligence, un esame dei crediti in sofferenza. La loro cessione era talmente a leva che bastava sbagliare di poco per aprire voragini. C’era forte incertezza sul vero valore dell’istituto: le commissioni chieste da Jp Morgan e compagnia azzeravano la capitalizzazione di Borsa e quindi ti compravi solo un’opzione sulla bontà del piano industriale. Se andava bene avevi una banca meno profittevole di Unicredit, che chiede al mercato 13 miliardi”. Perché usare il fondo del Qatar? “Perché Qia non ha relazioni con i media. E perché ha investito in Italia e quindi era più credibile. Ma dopo essersi scottati con Barclays e Deutsche bank non erano affatto interessati”. Eppure la finzione è continuata: “Non si prospettano per Mps misure di supporto pubblico o men che meno di nazionalizzazione” (Padoan, 12 ottobre); “ci sarà un aumento capitale, il piano funziona” (26 novembre); “i soldi sul mercato si trovano” (2 dicembre) e via dicendo. Migliaia di risparmiatori – sotto l’occhio vigile di Bankitalia e Consob – venivano attratti da un’operazione da cui gli investitori fuggivano e che prevedeva anche un’offerta di scambio in azioni agli obbligazionisti subordinati. Il 7 dicembre il Tesoro, che vanta un membro in cda, ha avallato la richiesta alla Bce di avere altri 20 giorni di tempo mentre Mps perdeva miliardi dai depositi ogni settimana, 8 da luglio, 6 negli ultimi tre mesi: 169 giorni persi.
La fotocopia in peggio del disastro fatto su Banca Etruria, Marche, CariFe e CariChieti “risolte” a novembre 2015. Governo e Tesoro hanno rassicurato per oltre un anno e mezzo che le trattative con l’Ue per soccorrerle con il Fondo di garanzia dei depositi sarebbero andate a buon fine. Eppure la Commissione per ben due volte (ottobre e dicembre 2014) s’era detta contraria, mentre gli istituti venivano rassicurati e – nel caso di Carife ad aprile – spinti dal Tesoro ad approvare il piano in assemblea. Ieri Sinistra italiana ha chiesto un’audizione urgente di Padoan. Il responsabile (con Renzi) della grande presa in giro.
Fonte: Giovanni Pons, https://it.businessinsider.com/padoan-sulle-banche-non-ne-imbrocca-una-e-i-tedeschi-ci-mandano-la-troika/
Testo Frammento
Negli ambienti finanziari milanesi ormai lo si dice da tempo ma nessuno finora ha mai osato gridarlo ad alta voce. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non è all’altezza della situazione, soprattutto per quanto riguarda la materia bancaria. È un bravo economista, come dimostra il suo curriculum, ma non ha la competenza tecnica che richiederebbe una situazione molto difficile e delicata come quella che sta attraversando l’Italia e le sue banche.
Qualcuno dirà: perché il ministro dell’Economia deve occuparsi di banche private?, per queste ci sono la Banca d’Italia e la Bce. In realtà chi ragiona in questo modo sottovaluta la portata della crisi delle nostre banche e la possibilità che tutto ciò porti a un effetto domino capace anche di mettere in dubbio la permanenza dell’Italia nell’euro.
È una drammatica sottovalutazione dei problemi che ha portato Padoan a procrastinare l‘intervento pubblico in Mps fino a renderlo inevitabile negli ultimi giorni ma così facendo è finito nella morsa della Vigilanza Bce (a guida tedesca) che ha avuto buon gioco ad alzare l’asticella dei fondi necessari al salvataggio (ora sono diventati 8,8 miliardi). Inoltre non si può escludere che l’obiettivo del governo di Angela Merkel sia quello di obbligare l’Italia a chiedere l’intervento del fondo europeo Esm (European stability mechanism, il cosiddetto fondo salva Stati) il quale per agire richiede la definizione di un programma di rientro la cui realizzazione deve essere vigilata dalla cosiddetta Troika, cioè da tre esponenti di Bce, Fmi e Ue. Ma vediamo in concreto quali sono stati i passi falsi commessi da Padoan.
Daniele Nouy, capo del supervisory board dell banca centrale europea. Daniel Roland AFP/Getty Images
Direttiva sul bail in. Il Regolamento Ue n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, che in pratica introduce il meccanismo del “bail in”, cioè della partecipazione di capitali privati al salvataggio di banche in crisi, è stato approvato il 15 luglio 2014. Un anno dopo, cioé il 2 luglio 2015 la direttiva europea è stata recepita dall’ordinamento italiano per una entrata in vigore definitiva fissata a gennaio 2016. Il governo Renzi è in carica dal 22 febbraio 2014 e Padoan è ministro dell’economia da quella data. Possibile che né governo, né Banca d’Italia né altre autorità italiane si siano rese conto delle potenzialità esplosive di quella direttiva del 2014 per il sistema bancario italiano? Solo a novembre 2015, quando si è dovuto far fronte a un meccanismo di risoluzione per quattro banche in crisi (Pop Etruria, CariChieti, CariFerrara, Banca delle Marche) allora tutti hanno cominciato a gridare contro la direttiva del bail in. Troppo tardi.
New York, gli uffici della JP Morgan Chase. Michael Nagle/Getty Images
Bad Bank. È almeno dall’autunno 2014 che sul tavolo di Padoan c’è il dossier bad bank, cioè la costituzione di un veicolo partecipato dallo Stato e con il contributo della Cassa Depositi e Prestiti in grado di assorbire la gran parte dei 200 miliardi di prestiti in sofferenza presenti nei bilanci delle principali banche italiane. Per trattare con gli organismi comunitari Padoan si è affidato alla JP Morgan ma alla fine la bad bank di Stato non ha visto la luce poiché non si è riusciti ad andare oltre il paletto degli aiuti di Stato. Il topolino che è stato partorito si chiama Gacs (garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze) e avrebbe dovuto permettere alle banche di dismettere gradualmente le loro sofferenze senza svalutarle troppo. La prova del nove doveva arrivare con la cartolarizzazione del Monte dei Paschi nell’ambito del piano di rafforzamento studiato proprio da JP Morgan. Ma il piano è saltato e finora le Gacs non hanno portato il beneficio sperato.
Crollo dei titoli in Borsa. Con la risoluzione delle quattro banche minori a fine 2015 si è fornito ai mercati finanziari un’arma micidiale: la svalutazione delle sofferenze fino a 18 centesimi. Quel numero avallato da Banca d’Italia e Mef ha rappresentato un punto di riferimento per analisti e investitori dei mercati finanziari che avevano a che fare con i titoli delle banche italiane. Portando a 18 centesimi il valore delle sofferenze nei bilanci di tutti gli istituti italiani gli ammanchi di capitale si rivelavano amplissimi e nell’ordine di decine di miliardi di euro. E di conseguenza, sulla prospettiva di forti richieste di capitali al mercato, i titoli bancari erano da vendere a più non posso. Quale l’errore di Mef e Banca d’Italia? Pensare che il prezzo a cui trattano le azioni delle banche in Borsa non sia un indice della bontà delle stesse ma solo il frutto della speculazione internazionale che vuole punire eccessivamente l’Italia. Invece il crollo delle quotazioni di Borsa per le banche è molto pericoloso poiché può minare la fiducia dei risparmiatori/correntisti e per questa via provocare una crisi di liquidità delle banche.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e l’ex premier Matteo Renzi. Pierpaolo Scavuzzo / AGF
Luglio 2016, l’occasione persa. Nel luglio scorso il governo Renzi è stato a un passo dall’intervenire con soldi pubblici nel Monte dei Paschi. Una lettera della Bce che imponeva un taglio alle sofferenze per 10 miliardi e gli stress test che segnalavano per la banca senese un capitale negativo, unica in Europa, in caso di scenario avverso, avevano indotto il governo a sondare Bruxelles sull’eventualità di una “ricapitalizzazione precauzionale” prevista dalle regole sul bail in. Il cda di Mps aveva ammesso il “buco” da 5 miliardi dovuto alla svalutazione delle sofferenze e dunque si imponeva una ricapitalizzazione della stessa entità. Ma Renzi era preoccupato del fatto che così operando avrebbe dovuto far fronte alla protesta dei piccoli risparmiatori con in mano le obbligazioni subordinate Mps così come era successo per i bond della Popolare Etruria. E a quattro mesi dal referendum ciò poteva rappresentare un classico autogol politico. Così, insieme a Padoan, ha scelto di soprassedere e di affidarsi ancora una volta alle cure di JP Morgan per un piano di rafforzamento patrimoniale di Mps da finanziarsi interamente sul mercato. Errore fatale poiché la prospettiva di aumento di capitale ha fatto crollare ulteriormente tutti i titoli bancari di piazza Affari e inoltre JP Morgan ha legati il successo dell’operazione alla vittoria del Sì al referendum, poiché in caso contrario gli investitori esteri sarebbero scappati dall’Italia. Una formula potenzialmente esplosiva che ha visto Renzi e Padoan sulla stessa linea anche se ora tocca al ministro dell’Economia mettere la faccia su un intervento dello Stato più elevato rispetto a luglio e con almeno 60 miliardi di minore capitalizzazione delle banche italiane in Borsa.
Marco Morelli, ad di Monte dei Paschi di Siena
Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo e ministro dello Sviluppo economico del governo Monti. Franco Cavassi / AGF
Sì a Morelli, no a Passera. Un altro errore fondamentale da attribuire a Padoan è stato quello di aver dato ascolto a JP Morgan e di aver provocato la sostituzione dell’ad del Monte Fabrizio Viola con Marco Morelli. I sondaggi presso gli investitori di mercato avevano segnalato che Viola non era la persona adatta a chiedere altri 5 miliardi al mercato dopo che i due precedenti aumenti di capitale si erano polverizzati. Dunque la sostituzione poteva essere corretta ma doveva essere fatta prima, a luglio, quando si scelse la via privata. Invece Padoan, in virtù del 4% della banca posseduto dal Tesoro, con una telefonata ha fatto fuori Viola e candidato Morelli, soluzione a cui nessuno in consiglio ha saputo opporsi. Agendo in questo modo Padoan ha provocato anche l’uscita del presidente Massimo Tononi e soprattutto ha chiuso le porte ad altre soluzioni come quella che aveva presentato l’ex banchiere di Intesa Sanpaolo Corrado Passera. Il cda guidato da Morelli e la JP Morgan si sono infatti sempre opposti a valutare lo schema di salvataggio proposto dall’ex ministro del governo Monti, che sulla base di un suo piano industriale aveva convinto investitori esteri a contribuire per 2 miliardi all’aumento in cambio di una due diligence di qualche settimana per verificare che i conti del Monte non fossero falsi. La soluzione Passera aveva inoltre il vantaggio si slegare il salvataggio di Mps dall’esito del referendum, abbraccio che come previsto si è rivelato fatale.
La cancelliera tedesca Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble
La resa dei conti con i tedeschi. L’indecisione del governo Renzi-Padoan nel risolvere per tempo e una volta per tutte il problema delle banche si sta rivelando un’arma in più in mano ai tedeschi per imporre ancora maggior rigore all’Italia. Il decreto Salva Risparmio varato dal governo Gentiloni il 23 dicembre deve infatti passare per le forche caudine di Bruxelles e della Bce. Quest’ultima – dopo aver negato una proroga di soli 20 giorni rispetto alla scadenza del 31 dicembre – ha già fatto sapere, per bocca di Danièle Nouy, che l’intervento necessario a salvare il Monte è pari a 8,8 miliardi e non più a 5.
Inoltre Padoan difficilmente potrà contare sulle risorse del fondo Atlante, finanziato con soldi privati dalle banche italiane, che verosimilmente non vorrà contribuire, se non in minima parte, al capitale di una futura Mps controllata in maggioranza dallo Stato.
E cosa succederà se i 15 miliardi stanziati dal decreto di Natale non fossero sufficienti a mettere in sicurezza Mps, le due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) che necessitano di nuovi interventi, Carige, e le altre situazioni a rischio nel sistema?
E cosa succederà alla Legge di Bilancio del 2017 che dovrà contenere i contributi per le banche versati nel corso dell’anno?
E se la liquidità del Montepaschi si andasse deteriorando ulteriormente come ha già messo in evidenza la Bce?
A quel punto sarà inevitabile ricorrere ai soldi europei (fondo Esm), come hanno già fatto Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro, ma questo tipo di intervento richiede la messa a punto di un piano di rientro con la Troika che ne sorveglia l’applicazione. In pratica l’Italia verrebbe commissariata dalla Germania, qualsiasi governo si alterni dopo le elezioni, per la felicità dei tedeschi. Il ministro Padoan ha sempre smentito contatti con l’Esm ma la sua credibilità è ai minimi visto che per sei mesi è andato avanti a smentire l’esistenza di un piano B per Mps che invece ha visto la luce la notte del 23 dicembre in una congiuntura astrale assai avversa.
Ma fino a quando Padoan potrà resistere al pressing germanico?