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 2017  gennaio 06 Venerdì calendario

In morte di Tullio De Mauro Franco Lo Piparo per Il Sole 24 Ore Tullio De Mauro aveva diverse qualità

In morte di Tullio De Mauro Franco Lo Piparo per Il Sole 24 Ore Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio. Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967. Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico. La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci. L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito. Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle. (1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti. (2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono. (3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre. De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale. I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni. Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica. La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica. L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società. Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele. *** Alessia Grossi per Il Fatto Quotidiano È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre. Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”. Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo. Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che – soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli – per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”. A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’ (come definiva le parolacce) in politica – non l’unico” – ci tenne a precisare – “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio – così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”. Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”. Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi” di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”. E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”. *** Silvia Truzzi intervista Gianluigi Beccaria per Il Fatto Quotidiano Abbiamo raggiunto Gian Luigi Beccaria – linguista, accademico della Crusca e dei Lincei – in una passeggiata in campagna. Gli abbiamo chiesto di ricordare Tullio De Mauro e lui ha cominciato così: “Conversare con lui era divertente ma anche impegnativo, bisognava stargli dietro nel senso letterale: camminava sempre, non riusciva a stare fermo mai, era un uomo in perenne movimento, non solo intellettuale. E sempre, immancabilmente, con la sigaretta accesa. Lo incontravo ai convegni, all’Accademia della Crusca a Firenze. Ci scambiavamo i nostri libri, quando uscivano, con dediche affettuose”. Che uomo era Tullio De Mauro? La sua principale caratteristica era essere straordinariamente comunicativo. Aveva interessi vari e precisi. È stato un innovatore autentico soprattutto per la capacità di leggere la lingua, il suo evolversi, legandola alla storia sociale del Paese. Questo è stato l’aspetto più importante dei suoi studi. Per chi fa questo lavoro, la sua Storia della lingua, pubblicata nel 1963 e mai invecchiata, e il suo Dizionario della lingua italiana in sei volumi sono testi imprescindibili. Uno dei suoi primi lavori è stato la traduzione della Linguistica generale di Ferdinand de Saussure. Un testo capitale. Saussure è stato il fondatore della linguistica, padre dello strutturalismo e della semiologia. Ricordo che il mio professore, Benvenuto Terracini, nel 1912 aveva recensito Saussure. Ma noi, negli anni Sessanta ne sapevamo ancora poco: il contributo di De Mauro è stato molto importante. Una caratteristica del professore è sempre stata quella di avere lo sguardo lungo sui riflessi sociali della lingua. Assolutamente. Penso per esempio alle ricerche su quanti italiani al momento dell’unificazione della Nazione, conoscessero la nostra lingua. Perché la nostra lingua di latte sono stati i dialetti: un altro temo molto caro a Tullio. Eravamo la patria dei grandi padri Trecenteschi – Dante, Petrarca, Boccaccio – ma contemporaneamente un insieme di piccole patrie linguistiche. L’italiano era una lingua straniera per quasi tutti. Per noi colleghi le statistiche di De Mauro erano strumenti di lavoro utilissimi. L’unificazione linguistica passa attraverso le guerre e poi la televisione. Migrazioni, servizio militare, guerre prima; poi la scatola magica che è entrata nei nostri salotti sono stati il fattore unificante. Certo anche con alcune perdite, ma anche con grandi acquisti. A Tullio interessava molto la cultura popolare. Ricordo le Lettere da una Tarantata dell’antropologa Annabella Rossi, cui lui aveva fatto una folgorante nota linguistica sull’uso dell’italiano da parte dei ceti popolari. L’altro aspetto è quello dell’impegno civile. E politico: era stato assessore alla cultura delle Comune di Roma e pure se solo per un anno, ministro della Pubblica istruzione nel governo Amato, all’alba degli anni Duemila. Aveva molto a cuore il tema dell’educazione e della formazione costante: di scuola ha continuato a occuparsi e interessarsi, fino alla Buona scuola di Renzi! Amava molto la Costituzione e spesso ne aveva sottolineato l’importanza della chiarezza linguistica in contrasto con l’oscurità del linguaggio burocratico e amministrativo. È stato più che uno studioso, è stato un uomo di grandi aperture e curiosità ed è questo che ha reso così prezioso il suo lavoro. *** Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera Tullio De Mauro, morto ieri a Roma, è stato Il (maiuscolo) Linguista (maiuscolo). Con intuizioni precocissime. Quando ancora in Italia lo strutturalismo era agli albori, fu Tullio De Mauro, nel 1967 per Laterza, a tradurre dal francese e a commentare il Corso di linguistica generale del ginevrino Ferdinand de Saussure, il maestro dei maestri, il vero faro della disciplina, un classico moderno di cui si sarebbero alimentati gli studi più importanti di De Mauro, che pure non si può dire uno strutturalista tout court . Far conoscere de Saussure è stato un suo grande merito storico, ma non l’unico. Perché gli si devono tante altre cose: una S toria linguistica dell’Italia unita (Laterza) destinata a diventare un classico a sua volta, un Dizionario dell’uso (Utet) che rompeva gli schemi della lessicografia tradizionale, un’attività editoriale e giornalistica instancabile e sempre sensibilissima alla società. Su tutti i meriti di De Mauro, il mag-giore, forse, era la sua presenza civile nella scena culturale e politica: perché considerava le due cose del tutto inestricabili, così come la lingua con i suoi mutamenti è inscindibile dalle trasformazioni della società e in definitiva della vita. Anche nei numerosi incarichi politici — da consigliere regionale (eletto come indipendente nelle liste del Pci), da assessore comunale, infine da ministro nel secondo governo Amato, spesso contestato in una fase economicamente difficile per la scuola (tanto per cambiare) e per di più complicata dalle riforme volute dal suo predecessore Luigi Berlinguer — non perdette di vista il Paese parlante e cioè la società reale. Era questo sguardo, importato dalla particolare sensibilità linguistica, il suo vantaggio rispetto ai politici-politici e ai colleghi accademici. Nato «un po’ per caso» a Torre Annunziata nel 1932, figlio di un farmacista foggiano e di una professoressa napoletana di matematica, il piccolo Tullio è affascinato dalla biblioteca di casa, impara l’alfabeto copiando i caratteri a stampa dal dorso dei libri, gusta il sapore delle parole bizzarre che circolano in famiglia, scopre presto le filastrocche e i calembour. Più sua madre che suo padre è stata fonte, per il bambino, di passione letteraria e di espressioni dialettali: «Nei casi di inconvenienti per cui si disperava ci diceva che si dava o si era data al diavolo e, se si sentiva colpevole, si dava la testa al muro. Di persona assai irritata, prossima a esplodere per l’ira fino a quel momento repressa, diceva: tiene i lapis a quadrigliè , espressione franco-napoletana un po’ misteriosa che a me faceva pensare ai lapis, alle matite, ma che più probabilmente si riferiva alle pietruzze del mosaico disposte a quadrettino». A dieci anni scopre Roma, dove la famiglia si trasferisce nel 1942, è attratto dal mito fascista, fascino che rimarrà nel fratello Mauro (ragazzo della Repubblica di Salò), non in Tullio. Il racconto autobiografico dell’infanzia, lieve, intenso e pieno di ironia, è consegnato a Parole di giorni lontani (Il Mulino, 2006), con la casa dell’Arenella, le prime letture, la passione precoce per il vocabolario. Da liceale aspira a fare l’insegnante, che considera «il mestiere più bello del mondo». Si laurea in Lettere classiche con Antonino Pagliaro, il glottologo benvoluto da Mussolini, presentando una tesi di filosofia del linguaggio. I genitori Oscar e Clementina, che si erano conosciuti in un laboratorio chimico, mantennero la promessa reciproca di avere cinque figli: avrebbero voluto dar loro i nomi dei gas nobili, ma optarono per soluzioni più ragionevoli. Il maggiore, Franco, sarebbe morto in guerra, il secondo (classe 1922) era Mauro, il giornalista dell’«Ora» che il 16 settembre 1970, mentre indagava sugli ultimi giorni di Enrico Mattei per conto del regista Franco Rosi, sarebbe stato rapito dalla mafia in circostanze oscure. Non fu più ritrovato e il mistero insoluto rimase una ferita aperta per la famiglia e per Tullio in particolare, che tornò più volte su quella vicenda sempre sperando che la magistratura facesse luce: furono anni molto duri, «è duro che ogni tanto il caso si riapra e si ricominci daccapo, è un lutto che ogni volta si ripropone», disse intervistato da Antonio Gnoli. «Elaborare una morte senza tomba è pressoché impossibile», disse a Paolo Conti. La sua convinzione era che il fratello fosse stato ucciso dalla mafia per avere scoperto elementi scottanti sulla morte del presidente dell’Eni. Ma Tullio De Mauro non finì di interrogarsi sul mandante. De Mauro è stato una presenza fisica (oltre che intellettuale) familiare del dopoguerra. Le sue orecchie ampie e un po’ bambinesche sono nell’immaginario visivo della cultura italiana almeno come il volto sdentato di Edoardo Sanguineti e la barba di Umberto Eco. Fu il primo a vincere in Italia una cattedra di Linguistica generale, nel 1967. Bruciate le tappe della carriera, diventato ordinario di Filosofia del linguaggio alla Sapienza, è stato un personaggio pubblico come raramente è accaduto per accademici che non hanno mai voluto rinunciare alla ricerca scientifica sul campo. Ed è stato anche un maestro nel trasmettere un’idea: il linguaggio non è un’entità neutra, ma qualcosa che ha riflessi sociali e politici. Lo studio linguistico è un accesso alla comprensione del mondo: «Le parole — scriveva De Mauro — sono esse stesse fatti, e fatti politicamente rilevanti». Per questo l’impegno nella politica non è disgiunto, per lui, dall’attività culturale: lo dimostra la direzione per Editori Riuniti, negli anni Sessanta-Settanta, della collana «Libri di base», che si proponeva di divulgare il sapere intellettuale e pratico «in modo semplice e chiaro», perché tutti potessero capire. In quella collana uscirono piccoli manuali su come si scrive e si parla (autore lo stesso De Mauro), ma anche su che cos’è la statistica, su come leggere la busta paga, sulla filosofia di Marx, sulla speleologia, sull’uguaglianza, sull’industria dell’acciaio eccetera. Una biblioteca alimentata da una seria preoccupazione per l’apprendimento, per la diffusione della cultura in un Paese dallo sviluppo storico anomalo, per la qualità dell’istituzione scolastica, vero Leitmotiv dei suoi saggi e degli interventi giornalistici (dopo aver scritto per «Il Mondo», «Paese Sera», per «L’Espresso», per «la Stampa», teneva una rubrica nel settimanale «Internazionale», diretto dal figlio Giovanni). Più di recente si soffermava sull’analfabetismo di ritorno che, pur mantenendosi lontano da accenti apocalittici, considerava una piaga angosciante. Sostenendosi sempre sui dati più aggiornati, De Mauro non si stancava di elaborare analisi e di elargire consigli sul sistema scolastico e universitario, di intervenire sulla qualità delle biblioteche pubbliche, sulla necessità di una politica che promuovesse la lettura (specie nell’infanzia), sulle magagne del mercato editoriale. L’incarico come presidente del Premio Strega era un modo per lui nuovo e diverso di leggere, attraverso la letteratura contemporanea, l’Italia in cui viveva. Ha imposto in tutti i modi soluzioni di voto più trasparenti. Leggeva tantissimi romanzi, ma non ne sembrava entusiasta. *** Giuseppe Conte per Il Giornale Tullio De Mauro è stato un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo, nel campo della ricerca scientifica e universitaria, e poi nel campo della politica e della organizzazione culturale. Insigne linguista, ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega: una carriera tutta nel cuore del potere, ma gestita con una certa indipendenza di giudizio, una vita costellata di successi, ma non senza drammi, se si pensa alla uccisione del fratello Mauro De Mauro, giornalista all’Ora di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970. Il giovane De Mauro si laurea in Lettere Classiche e intraprende subito l’attività universitaria, insegna filosofia del linguaggio e glottologia, prima di arrivare alla cattedra di Linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sua opera importante è la curatela completa, introduzione, traduzione e commento, al Trattato di linguistica generale di Ferdinand De Saussure, nel 1967, che contiene i fondamenti essenziali di quello strutturalismo che stava per esplodere negli studi non solo linguistici, ma in tutto il campo della critica letteraria, condizionando una intera stagione molto fervida di novità, anche se presto risolta in niente più che una moda. De Mauro, nonostante questo suo lavoro così importante, non fu uno strutturalista. Non partecipò alla appena successiva ondata semiologica. I suoi interessi di studioso lo portano ad ancorare la linguistica alla società e alla storia. Lo testimonia il suo saggio Storia linguistica dell’Italia unita, uscito nel 1963, ripreso molti anni dopo in Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, pubblicato nel 2014 da Laterza. Oltre a tanti altri saggi, che presto virano dal linguistico al sociologico, bisogna ricordare la sua direzione del Grande dizionario italiano dell’uso, in otto volumi (UTET, 2007). Tullio De Mauro fu risoluto nel combattere l’analfabetismo di ritorno, in un Paese dove pare che soltanto il 20 per cento delle persone adulte siano in grado di seguire un discorso che presenti anche minime difficoltà semantiche e di compiere operazioni matematiche un po’ al di sopra di quelle elementari. Nonostante la difesa dell’italiano, De Mauro non fu mai contrario ai dialetti, li ritenne una ricchezza e una risorsa. Se nel 1974 il 51 per cento degli italiani parlavano il dialetto, oggi la percentuale è scesa al 5. Ma in compenso sono aumentati quelli che lui chiama gli «alternanti», cioè coloro che usano indifferentemente italiano e dialetto, passando dal 18 per cento del 1955 al 44 del 1995. Questa alternanza può diventare miscela, carburante per nuove forme di espressività. Forse come nel «vigatese», forma ibrida di italiano e siciliano di Andrea Camilleri, con cui non a caso De Mauro firma un volume. De Mauro interviene anche su fenomeni del linguaggio tipici del nostro tempo. Per esempio, prende in esame il turpiloquio dei politici recenti, o la smania di ostentare frequenti e inappropriati anglismi, e giudica entrambi i fenomeni come prove della scarsa capacità di usare al meglio le risorse di una lingua come l’italiano, complessa sin dai tempi di Dante (che per altro nell’«Inferno» non disdegna il turpiloquio, ma certo con una potenza e necessità espressiva che le parolacce udite in Parlamento non hanno). La storia linguistica diventa per De Mauro storia di una comunità e del suo evolversi. Nella prefazione a Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, di Daniele Gouthier e Elena Ioli, De Mauro scrive: «Per Einstein il richiamo al linguaggio comune a ogni essere umano forniva anzitutto un argomento decisivo per affermare la natura profondamente sociale della conoscenza e della cultura». Così, il genio della fisica offre al linguista italiano una conferma delle proprie posizioni. Era forse fatale che la piega sociologica presa dagli interessi di De Mauro, oltre la sua disposizione all’impegno, lo portasse non soltanto verso la pubblicistica militante, su organi di stampa come Il Mondo, Paese Sera, L’Espresso, ma anche verso la politica vera e propria. Nel 1975 De Mauro è eletto nel consiglio regionale del Lazio, nelle liste del Pci, nel 1976 diventa assessore alla cultura e lo rimane sino al 1978. Dopo un ventennio, dalla ribalta regionale passa a quella nazionale, diventando ministro dell’Istruzione nel secondo governo Amato, dall’aprile 2000 al giugno 2001. Troppo poco per lasciare un vero segno in un campo come quello della scuola, dove si susseguono i disastri, e dove per la stessa ammissione di De Mauro quelle che il governo Renzi ha chiamato riforme sono niente più che «provvedimenti collaterali». Ultimo viene lo Strega. L’impressione è che lì De Mauro abbia svolto il proprio ruolo cercando meritoriamente di cambiare qualcosa. Ma senza quella vera passione che cambia le cose davvero. *** Fabrizio Ottaviani per il Giornale Il celebre professore Tullio De Mauro teneva lezione alle otto e mezza del mattino in una dipendenza di Villa Mirafiori, sede della facoltà di Filosofia della Sapienza circondata da un parco: un luogo in sintonia con la sua matrice epicurea, di ex napoletano condotto a Roma dal padre farmacista quando le bombe che gli americani sganciavano sul Golfo avevano preso a cadere un po’ troppo vicino alla dimora signorile nella quale viveva una famiglia composta anche di una madre laureata in matematica e di un fratello, Mauro, futuro giornalista dalla vicenda tragica. Quando entrava in classe, sui volti dei cento uditori si accendeva la fiamma dell’avventura intellettuale. Ascoltare Tullio De Mauro equivaleva ad entrare nel modo dei concetti per la strada maestra. Il massimo linguista, filosofo del linguaggio, storico della lingua e dialettologo italiano percorreva le file dei banchi argomentando per due ore, senza servirsi di appunti. Non il linguaggio: le parole erano la sua ossessione. Dopo averlo ascoltato, parlare diventava un’esperienza simile all’allungare una mano per accarezzare un gattino scoprendo che si tratta di una tigre. Nella prima lezione ci spiegò che un insulto siciliano, tinto, risale all’epoca in cui un’eresia si era diffusa sull’isola e molti si facevano battezzare per immersione. Non credo sia mai esistita parola dell’italiano, toscano o vernacolare, di cui non sapesse l’essenziale. Inoltre, in un mondo come quello accademico, spesso penosamente tattico e che brilla per trasparenza quanto una palude alluvionale, era capace di sollevare la cornetta del telefono e annichilire il collega che aveva bocciato all’esame di dottorato un candidato di valore. Ma questi erano lampi. Ciò che aveva scritto di Benedetto Croce nella Introduzione alla Semantica (che, cioè, il volto bonario di Croce nascondeva una sfinge) era anche un autoritratto. Se si varcava un invisibile confine, si aveva l’impressione di essere di fronte a un enigma. Probabilmente la sua discrezione era una metamorfosi dell’onestà intellettuale. Una volta una studentessa, durante una lezione, citò l’ancora oscuro Oliver Sacks. De Mauro rispose di non conoscerlo, ma l’indomani, appena entrato nell’aula, raccontò che la sera precedente aveva fatto un salto in libreria e aveva acquistato (e subito letto) i sei libri di Sacks disponibili. «Adesso sì, posso rispondere alla sua domanda, signorina» le disse con un lampo negli occhi. *** Mario Ajello per il Messaggero «Civile» è l’aggettivo che più amava e quello che meglio lo descriveva. Tullio De Mauro, un raro esempio di progressista conservatore, dotato del gusto empirico di Vico e dell’etica non bacchettona di Croce, è stato tenace nel costruire ed esaltare la civiltà italiana. Il cui cuore e la cui pelle, esposta al mondo, sono la lingua. «C’è una buona politica estera - così spesso ripeteva - se c’è una buona politica interna. Ciò significa che, per fare crescere l’italiano all’estero, dobbiamo mantenere un buon livello di italiano nel Paese». Questo l’assillo di Tullio, il colosso brevilineo. Il super-intellettuale mai intellettualone, chiaro e ironico, privo di pose accademiche e non ideologico: dunque quasi un unicum, simpaticissimo, nell’attuale panorama culturale del nostro Paese. GRAMMATICA POPULISTA Mettere il maggior numero possibile di persone in grado di usare l’italiano «a pieno regime», nel parlato e nello scritto, è stato il suo vero programma patriottico-educativo. Era convinto che una società liberale - e Gaetano Salvemini in questo è stato il suo faro - potesse dirsi tale soltanto nella parità di accesso agli strumenti di comprensione e di espressione. Ultimamente, De Mauro spiegava il populismo collegandolo a quell’«analfabetismo di ritorno» che lo preoccupava assai: «Solo il 30 per cento degli italiani è in grado di capire un discorso politico e più del 50 per cento stenta a capire un testo scritto. Queste difficoltà di comprensione non consentono di sviluppare in modo adeguato gli strumenti di controllo dell’operato delle classi dirigenti e producono il cosiddetto voto di pancia. Che pure è importante, ma non è un voto di testa». Ecco: la distruzione del linguaggio come premessa di ogni futura distruzione. Ma Tullio non è mai stato un tipo apocalittico o pessimista. Non gli piaceva, per esempio, l’abuso di parole inglesi nella nostra parlata: «Servono, così come le parolacce usate dai politici, a coprire una scarsa capacità di usare le risorse più appropriate della nostra lingua». Era sicuro però che «la nostra è la lingua di Dante e ha una resistenza e una vitalità che sono superiori e vinceranno sempre sulle cattive abitudini». Amava ricordare che, delle circa 4.500 parole che più frequentemente usiamo, quasi il 90 per cento sono ereditate dall’Alighieri e dagli scrittori del 300. Ed era un lucido progressista conservatore, oltre che un umanista moderno, nella sua insistenza sul ruolo delle lingue classiche. «Nella possibile e ventilata scelta di mettere da parte il rapporto con la classicità - così polemizzava - siamo isolati. Gigantesche potenze economiche e culturali, come la Cina, il Giappone, l’India, Israele, prestano grande attenzione al loro retaggio antico e invece in larga parte del mondo occidentale si ritiene di poter eliminare i pilastri basilari della nostra identità». Negli ultimi tempi, vedeva Roma malridotta. «La cultura della cura - commentava riguardo alla sua amatissima città d’adozione - finisce in casa. Fuori, comincia l’accettazione dell’incultura del degrado». Era un intellettuale di sinistra De Mauro. Ma un uomo libero. Capace di dire che nella quasi totale «furia distruttiva» o «indifferenza» che i politici nostrani hanno applicato alla scuola (un’eccezione secondo lui fu Sergio Mattarella, titolare della Pubblica istruzione nel 1989-90) il fascista Bruno Bottai non può essere compreso in questa pessima tradizione. «È stato un grande ministro. Per i primi sei mesi», raccontava De Mauro, «preferì ispezionare le scuole, senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente i luoghi educativi, ed è una cosa ben diversa dalle passerelle». BUONA SCUOLA? De Mauro non ha apprezzato Renzi come autore della riforma sulla Buona scuola: «La considero una de-forma». Come ministro lui stesso della Pubblica istruzione, tra il 2000 e il 2001, Tullio sembrava l’uomo giusto al posto giusto. Ma il governo Amato durò troppo poco. Il tempo, comunque, per far ribadire a De Mauro le sue convinzioni. Del tipo: «Spendere in scuola e educazione è un investimento per la democrazia». La cultura, a suo avviso, non deve essere elitaria, ma alta, diffusa, condivisa. Considerava invece la cultura italiana «restrittiva» e ancora ideologizzata, troppo dominata da quello che fu definito da Giuseppe Prezzolini come «partito degli intellettuali». Da questo punto di vista, era un tipo pop e insieme il prototipo dell’eccellenza, De Mauro. Aveva il coraggio di dire: «La sinistra è stata riottosa di fronte allo sviluppo della scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali». E ancora: «Per capire i ritardi della cultura di sinistra sull’istruzione, basti pensare che un grande maestro come Concetto Marchesi, amico di Togliatti e vicinissimo al Pci, non voleva l’innalzamento dell’obbligo scolastico». Con De Mauro, si è perduta una persona così. E c’è da piangere per l’Italia.