Andrea Rossi, La Stampa 671/2017, 6 gennaio 2017
DETENUTI SENZA NOME. EVASIONI E RIVOLTE COSTANO 147 MILIONI
È sempre stata (anche) una questione di sfumature lessicali. Li chiamavano Cpt: centri di permanenza temporanea. Permanenza, non detenzione, eppure hanno sbarre e filo spinato; sono strutture di passaggio, ma fino a poco tempo c’è chi vi restava anche un anno e mezzo. Nel 2008 hanno cambiato nome e ragione sociale: Cie, centri di identificazione ed espulsione. Ora il governo vorrebbe aprirne uno in ogni regione: strutture da 80-100 posti, vicine agli aeroporti. Eppure i Cie non hanno mai funzionato: una persona su tre non viene identificata e torna in libertà; e solo la metà degli “ospiti” finisce su un aereo che la riporta in patria. La macchina dei Cie, al massimo della sua efficacia, è riuscita a rimpatriare 4.459 persone. Era il 2007, si chiamavano ancora Cpt, e per produrre un risultato così modesto, quell’anno, le tredici strutture costruite dopo la legge Turco-Napolitano del 1998 sono costate circa 100 milioni.
Tredici centri per 1.900 posti, lievitati con il piano di ampliamenti nel 2011: 3 mila nuovi letti al costo di 250 milioni; ne erano già stati spesi 100 tra il 2008 e il 2011. Oggi ne restano sei, con una capienza massima di 720 posti. L’ultima relazione della commissione diritti umani del Senato risale allo scorso anno e certifica che dal primo gennaio al 20 dicembre 2015 sono transitate nei Cie 5.242 persone, di cui 2.746 poi rimpatriate. Poco più del 50%. Come negli anni precedenti. Come prima del 2011 quando per ovviare al principale dei problemi - la difficoltà nell’identificare gli “ospiti” - fu deciso di estendere da 6 a 18 mesi il periodo massimo di detenzione.
Senza identità
La misura si è rivelata un boomerang. La popolazione che transita nei Cie è composta per la maggior parte da persone che provengono dal carcere: significa che durante la detenzione non è stato possibile dare loro un nome. Al Cie, poi, il meccanismo spesso si inceppa perché il consolato del paese di (presunta) origine non collabora; per l’espulsione è necessario che il console riconosca lo straniero e successivamente rilasci il documento di viaggio per il rimpatrio.
Un terzo dei reclusi dunque resta senza nome e solo la metà viene espulso. In compenso - complici le condizioni di vita nelle strutture - la stretta del 2011 ha moltiplicato evasioni e rivolte: solo due detenuti su cento riuscivano a scappare; dai primi mesi del 2011 le evasioni hanno superato il 7 per cento. Dei tredici Cie costruiti, sette sono stati chiusi proprio perché devastati dalle rivolte; gli altri funzionano a ranghi ridotti perché parzialmente inagibili, per lo stesso motivo.
Anziché fare progressi, l’efficacia delle strutture nel tempo è precipitata: dai Cie passano circa 6 mila persone l’anno (l’apice è stato nel 2009: 10.913), un’inezia, visto che secondo le stime per l’Italia si aggirano almeno 400 mila immigrati senza permesso. Detto del 30 per cento rilasciato con un foglio di via perché non identificato, e del 7 per cento di evasi, restano i molti che abbandonano i Cie per motivi di salute e i pochi che vi muoiono. E resta un’altra falla nel sistema: un immigrato su dieci fa ricorso davanti al giudice di pace, lo vince, e viene rilasciato.
I costi di gestione
Preso atto del fallimento, lo Stato è tornato indietro: nel 2014 il periodo massimo di detenzione è stato ridotto da 18 a 3 mesi. In termini di efficacia non è cambiato molto, ma - per lo meno - si sono ridotti i costi di una macchina che macina denaro. Il professor Alberto Di Martino, docente di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, nel 2013 con alcuni colleghi ha pubblicato una ricerca sui Cie. Ne ha esaminato gli aspetti giuridici concludendo che la “lotta” all’immigrazione irregolare in Italia viene «condotta con uno strumento penale che si è rivelato insostenibile sia alla luce dei parametri costituzionali italiani, sia della normativa europea». Ma soprattutto che lo strumento è tanto inefficace quanto costoso. Per ogni “ospite” lo Stato spendeva circa 55 euro per ciascun giorno di detenzione, cifra che di recente si è ridotta per via degli appalti al massimo ribasso.
La gestione dei tredici Cie è arrivata a costare anche 147 milioni l’anno e mai meno di 60. In più oltre cinque milioni l’anno se ne vanno in burocrazia e spese legali: ogni immigrato ha diritto al gratuito patrocinio (costo medio 350 euro) cui vanno sommati 20 euro per ogni udienza in tribunale e 10 per ciascun ordine di convalida. Di Martino ha calcolato che dal momento dell’ingresso in un Cie per ciascun immigrato si spendono più di 10 mila euro. Spesso senza ottenere alcun risultato. Ma tutto il sistema è farraginoso: nel 2015 su 34.107 stranieri sottoposti a un provvedimento di espulsione 18.128 non hanno mai lasciato il paese.
Andrea Rossi, La Stampa 671/2017