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 2016  settembre 26 Lunedì calendario

#TOTTI40 – Totti 40 di Mario Sconcerti Totti è un’evoluzione di Gianni Rivera. Nel mezzo metto come caratteristiche Mancini

#TOTTI40 – Totti 40 di Mario Sconcerti Totti è un’evoluzione di Gianni Rivera. Nel mezzo metto come caratteristiche Mancini. Ognuno ha avuto sempre qualche chilo e qualche centimetro in più, cioè forza. Come Totti anche Rivera giocò praticamente sempre nel Milan, fino a sentirlo suo. Alla fine tentò di diventarne il padrone, ma cadde su Berlusconi. Così Totti vuole la Roma senza quasi sapere di volerla. Sono le due facce della stessa moneta. I quarant’anni sono molto oltre l’esperienza di un calciatore, non ti fanno pensare che c’è un limite, c’è solo casa tua. Questo porta e porterà problemi, ma Totti si è meritato i problemi che crea. Gioca a pallone come nessun’altro, col tempo sembra anzi migliorare perché intanto sono peggiorati gli altri, corrono tutti meno e lui risalta. Per molto tempo Totti è rimasto ai margini della grande stampa perché era un giocatore di Roma e della Roma. Aveva sul suo cammino Baggio, Del Piero, Mancini, Zola e tanti grandi centravanti. Tutti lo consideravano forte, ma non il più forte. Poi, con grazia, ha convinto tutti. Improvvisamente la gente ha capito che la sua finta pigrizia, la sua faccia sempre sorpresa, il gioco un po’ spaccone e irraggiungibile, erano parte di tutti. Totti ha ottenuto un risultato straordinario, è diventato col tempo un altro Alberto Sordi, è stato e resta l’italiano medio. Un’arte di esistere che lui comunque guida. Chi lo ha capito per primo è stata la pubblicità. Le multinazionali non prendono testimonial da costruire, personaggi parziali. Prendono quelli che la gente pensa. Totti da anni presta il suo volto alle aziende più grandi perché rappresenta il lato nazional popolare di un mercato che siamo tutti noi. Per restare nella parte si è preso anche in giro, ha scritto un libro di barzellette in cui lui gioca a non capire niente, ha fatto il James Bond di Porta Metronia in tv, ha spinto la farsa fin quasi al punto di farsi credere un fantaccino qualunque. Poi fuggiva con il suo sorriso corto, gli occhi allegri, un po’ strizzati e tutti capivamo che a prenderci in giro era lui. Ci sono stati altri grandi giocatori nel suo ruolo, ma nessuno ha rappresentato il tutto come lui. Del Piero era la Juve. Mancini un genio solitario partito da Jesi a tredici anni, silenzioso e irascibile, grande ma di confine, dentro il calcio, fuori dal resto. Baggio è stato migliore e sfuggente, non è riuscito a far finta di vivere per gli altri. C’è sempre stato lui. È stato il simbolo di tutti, il nostro capolavoro, ma non il nostro rappresentante. Troppo artista perché potessimo identificarci. Totti ci ha preso in giro tutti, ci ha venduto i suoi limiti fino a far diventare noi la sua barzelletta. Come calciatore sta nelle epoche alla pari con Rivera di cui ha però vinto molto meno e segnato molto di più. Forse qualcosa come Totti fu Meazza nell’Italia e nella Milano degli anni trenta. Con la sua brillantina, i suoi dribbling, i suoi tanti gol, le sue donnine e il suo sogno fascista realizzato, da balilla a campione del mondo. Anche lui un italiano del popolo. Ma per giudicare Totti nel calcio, per capire davvero ciascuno di noi cosa sia stato e cosa ancora resti, va pensato da avversario. È come le salite nel ciclismo, per capire quanto sono dure devi prima farle in discesa. È la forza del volo che fa capire la fatica che farai a risalire. Così Totti da avversario. Cosa si provava quando gli arrivava la palla negli anni verdi, cosa si prova ancora quando avanza e vede la porta? Dove deciderà di andare, quando tirerà? Totti è stato il peggior avversario augurabile perché viveva nell’imprevisto e nell’imprevedibile. E lo sapeva rendere normale. Pensate ancora al brivido che coglie quando oggi si alza dalla panchina e comincia a scaldarsi. Cosa farà? Sarà vecchio davvero? Il pericolo di domani , nel calcio, al lavoro, fra gli amanti, in politica, è tutto quello che ci mette disagio. Tu conosci una persona o una cosa e senti che un giorno ti saranno avversari. Il futuro comincia da quel disagio. Totti sono vent’anni che ci mette paura. Dunque è il nostro futuro. *** Simbolo intramontabile della romanità (antica e modernissima) – di Giovanni Bianconi Parlare del «genio» di Totti, della sua forza e di ciò che rappresenta (ha rappresentato e rappresenterà: se ne potrà parlare sempre al presente) è diventato fin troppo facile. Ormai lo fanno tutti, anche quelli che fino a qualche tempo fa lo consideravano un bullo che poteva suscitare entusiasmi solo dentro al Raccordo anulare. Ed è diventato quasi scontato celebrare la sua unicità nella storia della Roma e di Roma: non c’è altro calciatore che ha fatto quanto lui, nessuno s’è altrettanto identificato con la squadra e la città, né ha raggiunto tanta fama in ogni angolo di mondo. Per i suoi gol, i suoi assist, ma anche per i suoi sorrisetti scanzonati, nella buona e nella cattiva sorte, emblema di una romanità antica e modernissima. Anche se rimanendo sempre qui ha vinto poco. Certamente meno di quanto avrebbe potuto se avesse deciso di andare al Real Madrid, al Milan o in qualche altro club blasonato. Ma lì sarebbe stato uno dei tanti, qui è diventato Totti. Ben oltre il campo di calcio, dove continua a far stropicciare gli occhi pure ai più diffidenti. Qui ha fatto la storia, non da solo ma insieme ad altri che sono passati mentre lui rimaneva. E anche adesso che sembrava dovesse passare pure lui, è rimasto e rimarrà: un simbolo intramontabile. Ma siccome parliamo di storia, mentre il Capitano compie quarant’anni è giusto ricordarne un altro che ha cominciato a giocare in pianta stabile nella Roma proprio nell’anno in cui nasceva Francesco Totti, il 1976. Aveva 21anni, si trovò come compagni vecchie glorie (De Sisti, Prati), un futuro campione del mondo (Bruno Conti) e promesse mancate (Musiello); nella stagione 1976-77 fu il capocannoniere della squadra, con otto gol (erano tempi magri). Si chiamava Agostino Di Bartolomei, fu il condottiero del secondo scudetto, sfiorò la Coppa dei campioni, ma poi lo costrinsero ad andare altrove, spezzando l’amore e l’identificazione con la squadra e la città. A quarant’anni non ci arrivò, perché la vita lo chiuse in angolo e lui non seppe uscirne. Ma negli anni in cui ha indossato la fascia, pure «Ago» ha rappresentato la Roma e Roma come nessuno aveva fatto prima, e dopo solo Totti è riuscito a fare. Con maggiore fortuna e riconoscimenti, perché nel frattempo è cambiato il mondo e il modo di stare al mondo. Nel giorno degli auguri, rivolgere un pensiero all’altro Capitano che ha fatto la nostra storia farà piacere anche a quello di oggi. *** Il più grande (perché il contesto conta) di Fabrizio Roncone Guardavo Francesco Totti, l’altro giorno: ha ancora tutti i capelli. È pieno di uomini che a quarant’anni cominciano a perderli, lui no. Credo che proceda anche con qualche colpo di sole. E non rinunci alla sfumatura modaiola (qualcuno insinuerà tendente al coatto: sì, può darsi). Comunque ancora giovanile persino in questo, direi. Sto prendendo tempo. Non è semplice scrivere qualcosa su un genio del calcio. Non ho mai letto niente di strepitoso nemmeno su Maradona o su Pelè. Su Crujuff, da ragazzo, vidi un bel film (regia di Sandro Ciotti). La cosa più forte su Rivera resta l’intervista in bianco e nero che Beppe Viola (altro fuoriclasse, ma del giornalismo), gli fece a Milano sul tran numero 15. Ho citato qualche campione a caso. L’idea stessa di campione è discutibile e vaga. Le classifiche sui migliori calciatori sono sempre personali. Giampiero Mughini, un intellettuale che capisce di calcio, e che con il calcio si diverte, voleva convincermi che Tardelli ha lasciato nel calcio italiano un segno maggiore di quello che lascerà Totti. Suppongo che, nella sua graduatoria, prima di Tardelli ci siano Del Piero e Buffon. Io credo che invece Totti sia con Buffon il più grande calciatore italiano del dopoguerra. Quindi, considerato che Buffon è un portiere, Totti in mezzo al campo è stato, e probabilmente è, il numero uno in assoluto. Lo scrivo senza incertezze perché ho visto fare a Totti cose pazzesche. E perché gliele ho viste fare con la maglia della Roma. Il punto politico è questo. Rivera, Baggio e Del Piero (ai milanisti suggerisco di non farmi il nome di Franco Baresi, se no poi sono costretto a fargli quelli di Gigi Riva, Bruno Conti e Giancarlo Antognoni e finiamo tutti al bar sport) hanno sempre palleggiato e chiuso i loro triangoli con compagni di squadra dotati di straordinaria bravura: e infatti hanno anche vinto tanto. I tifosi romanisti, per anni e anni, hanno invece visto giocare Totti accanto a calciatori imbarazzanti. Di una modestia tecnica totale. Rottami del calcio, bluff del calcio, miracolati del calcio. Non faccio nomi perché non voglio beccarmi querele. Ma è con loro che Totti ha giocato ed è con loro che ha disputato partite memorabili. Non casualmente Totti ha vinto pochissimo, quasi niente, e solo quando intorno ha avuto compagni di rango: lo scudetto del 2001, con Batistuta, Montella, Cafù e Aldair, e — in azzurro — i mondiali del 2006. Ha sempre detto che, immaginandosi lontano da Trigoria, gli sarebbe piaciuto giocare nel Real Madrid. Berlusconi e Moratti lo hanno cercato invano più volte. In realtà non ha mai pensato per un secondo di lasciare Roma. C’è rimasto ben pagato e venerato. Una fortuna per tre milioni di romanisti. Il mantra è noto. Tanto poi ci pensa il Capitano. Tanto poi segna il Capitano. Tanto poi entra il Capitano. Per onestà intellettuale, devo ammettere che non ho mai considerato Totti come il capitano di tutti i tempi: per me, e per molti di quelli della mia generazione, è e resterà Agostino Di Bartolomei, il capitano. Totti è un’altra cosa. Un umanoide caduto dal cielo con gli scarpini ai piedi e atterrato a Porta Metronia. Nei bar e nelle pizzerie della zona quadri appesi con la sua foto e il suo autografo. Un meccanico racconta con gli occhi lucidi di averlo visto bambino. Ci sono filmati d’epoca. A tredici anni colpiva il pallone come adesso. Gli allenatori hanno avuto poco da insegnare. Solo Zeman, facendolo giocare largo a sinistra, gli insinuò il dubbio che potesse ricoprire qualsiasi ruolo dell’attacco. Ma ha fatto quasi sempre il centravanti e il trequartista. Anzi, no: ha fatto Totti. Quello che decide da solo, per istinto divino, il posto giusto dove andarsi a mettere. Anche fuori dal campo. Non c’è niente di casuale nella sua biografia. La biografia di una leggenda vivente: la moglie celebre showgirl, i figli biondi e felici, le pubblicità in televisione, i libri di barzellette, le montagne d’invidia (ossessiva e struggente quella dei laziali), uno stupido e sprezzante soprannome («er pupone»), la beneficienza continua e nascosta, il ruolo di ambasciatore Unicef, undici bambini di Nairobi adottati a distanza, la nuova casa che pochi conoscono e tutti descrivono sfarzosa e grande come quella di un imperatore giapponese, 306 gol segnati sempre e solo con la maglia della Roma indossata 763 volte (record italiano), una disciplina militare per restare in forma, Messi che a fine partita gli chiede la maglia, la gente in piedi negli stadi di tutto il mondo che lo applaude, Il Gladiatore tatuato sulla spalla destra. Non risulta abbia deciso di smettere. Proprio no. E ha ragione. L’anno scorso ero tra quelli che avrebbero volentieri assistito alla sua partita d’addio: per purissimo rispetto del mio amore nei suoi confronti, temevo di dovermene restare mortificato con l’immagine di lui vecchietto, incapace di fare Totti. Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. Sbagliavano soprattutto Luciano Spalletti (che Ilary Blasi, in un’intervista alla Gazzetta, ha definito «un piccolo uomo») e James Pallotta. Che ha gestito come peggio non avrebbe potuto questo magnifico, interminabile e innaturale tramonto. Invece di pensare a costruire una squadra finalmente vincente, è sembrato non aspettare altro che l’uscita di scena del suo unico calciatore vincente. I tifosi se ne sono accorti e adesso quelli che vanno allo stadio e quelli che restano sul divano davanti alla tivù sono scossi da eccitazione solo se dalla panchina s’alza lui. Francesco Totti. Maglia numero 10. Mi volto e la vedo piegata nella mia libreria. Originale, la sua. Un regalo di qualche anno fa. Reliquia. *** Una storia d’amore unica di Paola Di Caro Forse perché sono diventata vecchia io, o forse perché lo sei ormai anche tu, oppure perché — e mi sa che è questa la verità – abbiamo fatto tanta di quella strada assieme che pensavamo che alla fine del cammino non saremmo arrivati mai, ma io oggi quando ti vedo France’ ho il cuore che si strizza. E non lo so se è il senso del calcio questo, o se è le vita, non so se altri in altri stadi e città e paesi e epoche e squadre hanno mai vissuto una cosa così, ma questi occhi che diventano lucidi, le risate che vorresti trattenere dentro perché non sai quante ne restano ancora, le esultanze che ti escono scomposte, quel rimescolamento di tutto e tra tutti quando ci sei tu che fai La Cosa — un gol, un assist, un passaggio dove nessuno avrebbe immaginato che una palla potesse arrivare – sono assieme un miracolo e una sciagura che non siamo ancora pronti ad affrontare. Miracolosa la fortuna di aver goduto di te, con te e per te per 25 anni, sciagurato pensare che senza di te dovremo pur continuare a camminare, che saremo ancora anche felici nonostante quello che c’è stato non ci sarà più, con nessuno mai. Totti esulta dopo aver segnato il gol della vittoria contro il Real Madrid al Santiago Bernabeu, nella partita di Champions League del 30 ottobre 2002 terminata 0-1 Si sorprendono — quelli che magari ci stanno bene qui ma non ce l’hanno tatuata la Roma nel cuore – che uno stadio possa accendersi per un uomo solo in certi momenti di sbandamento e in epoche di crisi calcistico-affettiva che non solo quella giallorossa, ma tutte le tifoserie italiane stanno vivendo. E invece non è speciale quello che sta accadendo a Roma. Speciale è Francesco Totti. Che per noi che l’abbiamo visto crescere non è stato solo il più forte giocatore che la Roma abbia mai avuto, ma per lunghi anni anche l’unico così grande da appagare la voglia di bello di gente innamorata di calcio che ha vinto quasi niente ma che non si è sentita vinta mai. «Godetevelo – dicevano allo stadio i più vecchi ai bambini nell’ultima partita delle meraviglie, Roma-Sampdoria —, noi abbiamo avuto la fortuna di ricordarceli tutti, voi non sprecate un attimo». Ed è questa sensazione di amore crescente per un calciatore e un uomo fuori dall’ordinario che rende la storia d’amore tra i tifosi romanisti e Francesco Totti forse unica nel calcio moderno. Perché simboli amatissimi di una squadra, alla quale magari hanno dedicato tutta la carriera, ce ne sono stati tanti e tifoserie che li hanno esaltati e omaggiati altrettanto. Ma campioni che a 40 anni sono ancora i migliori in campo non se ne ricorda nessuno nel calcio moderno. Lo abbiamo conosciuto ragazzino, stiamo per salutarlo da uomo fatto, volendogli bene ogni giorno di più nell’evoluzione della sua carriera e della nostra vita. E la straordinarietà del rapporto che lo lega a questa città è che ciascuno di noi lo ha sempre visto più come un fratello, un figlio, un fidanzato, un amico, un padre, un cugino, un marito che come un idolo inarrivabile, lui è quello che ti fa dire «Oddio France’, che hai fatto…» come se il suo gesto in campo esprimesse anche un pezzo di te. Una fusione, una simbiosi, una identificazione, un bene che scavalca spalti e barriere e commuove chi ha la fortuna di averlo vissuto, questo è stato per un romanista il Capitano. Ci sarà ancora calcio a Roma dopo Francesco Totti, come c’è stato calcio prima di Francesco Totti. Sarà così perché è giusto sia così. Solo che mentre si alza il soffio di un popolo innamorato per spegnere assieme quelle 40 candeline, è tanto dura crederlo. Auguri, France’. *** Totti spiegato fuori dal raccordo anulare di Stefania Ulivi Di cosa parliamo quando parliamo di Totti? Gli applausi dei tifosi del Crotone all’Olimpico al capitano spiegano bene quello che in tanti si ostinano a non capire. Forgiata da una ventennale solitudine del tifoso tottiano a Milano, la città più restia a coglierne l’essenza — che ho combattuto alimentando con costanza in redazione una parete-istallazione di formidabili fotografie di Francesco — mi dedico periodicamente all’impresa «Totti spiegato al resto al mondo». Impresa ardua e in verità impossibile. Ancor di più oggi, di fronte ai suoi 40 anni, capitano della squadra che non ha mai lasciato da quando era ragazzino. È difficile spiegare se non hai capito già. Occorrerebbe capire non solo la Roma (in quanto squadra) ma Roma (in quanto città). Una meraviglia assoluta che in molti amano odiare, godendo nel vederla ferita. E Francesco Totti, è il «core de ‘sta città», certo. Ma anche la testa, le spalle, le gambe. Il fegato. L’incarnazione dell’eterno capitolino: candido e disincantato, coatto e generoso, strafottente e anarchico, cinico e sognatore. Totti e il contrario di Totti. La linea eccentrica che unisce gli estremi esistenziali che assicurano la sopravvivenza del romano. Il motto «Mai ‘na gioia», che ti fa tenere la testa un po’ incassata tra le spalle perché, si sa, prima o poi la botta arriva e magari fa meno male. E la sua declinazione: «Non capita, ma se capita..». Se capita si festeggia come non ci fosse un domani. Il mondo si divide in due: chi Totti lo capisce (e lo ama) e chi Totti lo patisce. Sbaglia chi paragona la natura del culto a quello di un supereroe o un semidio. Altro che divino: anche se capita che fermi un temporale e ribalti una partita già persa, Totti è leggenda perché è umano, troppo umano. Lo porta dipinto su quella faccia un po’ così, campione del mondo di linguaggio non verbale. È il centurione della Roma antica ma anche quello che faceva la comparsa a Cinecittà ai tempi di Ben Hur, o quello con la barba lunga disegnata da Uderzo che oppone l’orgogliosa lentezza alla frenetica efficienza di Asterix e Obelix, è il capopopolo pronto al sacrificio nella Roma papalina, è l’amico di Nando Moriconi, è il ragazzetto di Verdone dei du’ cervi, è insieme Salvatore e Romolo di «Poveri ma belli». È la Roma che non ci sarebbe più senza di lui. Nato ai bordi di periferia, a differenza di Eros, Totti non se n’è andato in Brianza. Sfidando ragionamenti e previsioni, archivia allenatori e dirigenti. Sentimento batte ragione. E tra tutti il più forte tra i tifosi è la gratitudine. Quello che ha dato negli anni è incalcolabile, è una promessa mantenuta continuamente rilanciata. In campo, certo, e pure in panchina. Gli scherzetti (a Pjanic, al team manager), le passioni ma anche le tristezze. Condividere con le persone a cui vuoi bene certi momenti all’Olimpico quando Totti fa Totti è impagabile. Ci sarà una vita senza Totti, intanto cogliamo gli attimi. Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Tanti auguri Francesco, grazie infinite. *** Totti 4.0 e il ritorno all’infanzia (calcistica) di Luca Valdiserri Più che un Benjamin Button prestato al calcio, Francesco Totti sembra impersonare il detto popolare «invecchiando si ritorna bambini». Nella lunghissima carriera c’è un Totti ragazzo trequartista, un Totti adulto attaccante e un Totti «vecchietto» di nuovo trequartista. Una questione fisica e psicologica. Come hanno dimostrato Dino Meneghin e Gigi Buffon l’età che avanza ti costringe ad allenarti di più, per restare a certi livelli, ma è altrettanto importante che il lavoro quotidiano non sia, appunto, un lavoro ma un divertimento. Solo così può battere il tempo. Dai 16 ai 25 anni Francesco Totti fa più assist che gol. Arriva in doppia cifra tre volte: 13 gol nel 1998 (a 21 anni), 12 nel 1999 e 13 nel 2001 (anno dello scudetto). Con Zeman parte da sinistra nel 4-3-3, con Capello ha una posizione più centrale, dietro Batistuta e con Delvecchio largo. Con la maturità calcistica — dai 26 ai 34 anni — Totti non scende mai sotto i 10 gol a stagione: 14, 20, 12, 15, 26 (Scarpa d’oro), 14, 13, 14 e 15. È come se il Totti adulto abbia scoperto il piacere della concretezza. Resta un giocatore capace di straordinarie giocate per i compagni, ma si tuffa gioioso nel ruolo di attaccante, anche se naturalmente parliamo di un falso nueve e non di un centravanti boa. Il Totti attuale è di nuovo il calciatore che manda in porta i compagni. Un ritorno al passato che vede Edin Dzeko nel ruolo di terminale preferito. Non è un caso: il bosniaco è un calciatore tecnico, che sa leggere il gioco. E con Totti bisogna essere veloci di pensiero, perché i suoi assist nascono sempre dalla rapidità del gesto. «È come se sapesse tutto in anticipo», ha sintetizzato Nicola, l’allenatore del Crotone, ultima vittima degli assist del numero 10. È logico che Totti, tornato bambino, non voglia smettere. Si diverte troppo. A 50 anni, poi, se vorrà, c’è un ruolo alla Pirlo davanti alla difesa che lo aspetta.