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 2016  settembre 26 Lunedì calendario

QUOTE DI GENERE, INTESA BOSCHI-MADIA PER NOMINARE PIU’ DONNE

Già le prime rilevazioni lo avevano messo in luce. Ma la relazione inviata al Parlamento dalla ministra Maria Elena Boschi sui risultati dei primi tre anni della legge Golfo-Mosca (che ha introdotto le quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali di società quotate e società pubbliche) lo testimonia con certezza: di fronte all’obbligo di riservare una parte precisa dei posti degli organi sociali al genere meno rappresentato, le donne, le società pubbliche hanno preferito mettere un amministratore unico. Uomo nel 97% dei casi.

I numeri
Si capisce, così, perché il decreto legislativo del 19 agosto scorso numero 175, Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica già pubblicato in Gazzetta Ufficiale, della ministra Marianna Madia, di concerto con Boschi, abbia previsto all’articolo 10, comma 4, una misura che va oltre la Golfo-Mosca: fatte 100 le nomine o designazioni effettuate nel corso dell’anno da una pubblica amministrazione, «almeno nella misura di un terzo» devono essere riservate al genere meno rappresentato. Non si parla più, dunque, di singolo organo sociale ma di nomine complessive fatte. Dunque, anche degli amministratori unici: su 100, in un terzo dei casi dovranno essere scelte delle donne.
Un elemento fondamentale è che la previsione della legge Madia è definitiva, a differenza della Golfo-Mosca che scade invece dopo tre mandati dell’organo sociale. Il punto sarà adesso vedere la sua applicazione pratica, dal momento che non è previsto un impianto sanzionatorio come per le quote. E in questo senso molto potrà fare il monitoraggio, come l’esperienza della Golfo-Mosca sta dimostrando. La relazione della ministra Boschi, responsabile delle riforme costituzionali che dal 9 giugno ha anche la delega per le Pari opportunità, fa emergere «chiaramente che la percentuale delle donne che ricoprono ruoli di vertice è sensibilmente aumentata in Italia nel triennio 2013-2016».
Considerando il periodo tra febbraio 2013 (data in cui la norma è divenuta vincolate per le società pubbliche)e febbraio 2016 si vede che le donne rappresentano più di un quarto dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche non quotate, «facendo registrare da aprile 2014 (prima acquisizione di dati Cerved) un incremento di otto punti percentuali — da 17,5 a 25,7 — grazie all’accesso di circa 900 nuovi componenti di genere femminile». Un dato che «assume ulteriore rilevanza considerato che si è verificata, nel medesimo periodo, una diminuzione di circa 500 unità del numero di società rientranti nell’ambito di applicazione» della normativa. E anche il CS Gender 3000: the reward for change diffuso settimana scorsa da Credit Suisse Research Institute ha sottolineato come l’Italia oggi si ponga al quarto posto nel mondo per presenza di donne nei Cda.

Le differenze
Come per l’occupazione femminile, però, emergono anche nella composizione di Cda e collegi sindacali forti differenze geografiche: se al Nord la percentuale di donne si avvicina o raggiunge il 30% in diverse regioni, al Sud non raggiunge il 15% in Basilicata e in Calabria e in generale non tocca il 20%, con l’eccezione dell’Abruzzo (24,8%). Il monitoraggio, curato dall’ufficio per gli interventi in materia di Parità e pari opportunità guidato da Monica Parrella, evidenzia che nei tre anni «sono stati avviati 197 procedimenti nei confronti delle società inadempienti» e che «non vi è stata, da parte di tali società, alcuna contestazione in merito alla procedura adottata al riguardo».
Dati positivi e negativi, sottolinea Alessia Mosca, oggi europarlamentare del Pd che insieme a Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario e all’epoca parlamentare di Forza Italia, dà nome alla legge. Positivo è il metodo: «Monitorare una legge è almeno tanto importante quanto il contenuto della legge stessa». Ed è dal monitoraggio che emerge la «grande soddisfazione» di 900 donne entrate nei Cda di società pubbliche in due anni, e «l’amaro in bocca» di tutte le società passate da un organo collegiale a un amministratore unico, donna solo nel 3% dei casi. «Tuttavia — conclude — i dati positivi ci confermano che abbiamo imboccato la strada giusta: le leggi, le cosiddette affirmative actions , sono, forse, condizione necessaria ma non sufficiente. Serve una moltitudine di forze convergenti, dai media all’imprenditoria, dalla scuola ai grandi role model».