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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

L’ELEFANTE MARINO I RIVALI PIÙ FORTI LI RICONOSCE SUBITO: BASTA IL «NOME»


Il generale cinese Sun Tzu scrisse nell’Arte della guerra: «Conosci il nemico come te stesso, così non ti troverai mai in pericolo». Un consiglio in qualche modo seguito dai pinnipedi del genere Mirounga, meglio noti come elefanti marini, un nome che devono sia alla stazza – fino a cinque metri di lunghezza e a tre tonnellate di peso – sia alla corta proboscide sul muso dei maschi. Quando si scontrano tra loro, questi mammiferi non combattono infatti alla cieca, ma si presentano l’uno all’altro. Conoscere il rivale non serve però tanto a identificarne i punti deboli quanto a sottrarsi ai duelli troppo rischiosi...
Gli elefanti marini passano in realtà pacificamente gran parte della vita, inseguendo fino a 1.500 metri di profondità pesci e calamari. Tornano a terra alcuni mesi l’anno: per la muta del pelo, la nascita dei cuccioli e la riproduzione. Ed è proprio questa a scatenare la lotta fra i maschi: solo i più forti controlleranno infatti harem esclusivi, contenenti anche centinaia di femmine. «Gli scontri fisici però sono rari: solo il 2-5 per cento dei confronti finisce a colpi e morsi. E questo grazie a segnali che permettono ai rivali di decidere se valga davvero la pena di battersi. Anzitutto i maschi emettono un vocalizzo di sfida, una sorta di gorgoglio (si può sentire su http://bit.ly/1Ld9hz4). Se questo non basta a dissuadere l’antagonista, gonfiano la proboscide e si ergono sulle zampe per far vedere quanto sono grandi. Solo allora, se nessuno si ritira, si arriva allo scontro» dice la biologa Anna Fabiani, dell’Università di Roma Tor Vergata, che con l’Elephant Seal Research Group ha studiato gli elefanti marini meridionali alle Falkland.
Caroline Casey e Colleen Reichmuth, biologi dell’Università della California a Santa Cruz, hanno analizzato elettronicamente i vocalizzi dei maschi di una colonia, scoprendo che sono diversi per ogni individuo, una sorta di «nome» che gli altri imparano ad associare alla potenza mostrata nelle sfide. Per provarlo, i ricercatori hanno trasmesso registrazioni dei «nomi» ad altri maschi della colonia: questa bastava per far fuggire gli inferiori e scatenare una risposta di sfida nei superiori. I «nomi» di membri di altre colonie invece non provocavano alcuna reazione perché i maschi non sapevano chi avevano di fronte. Grazie ai segnali acustici e visivi, un maschio alfa può mantenere così il suo harem senza dissanguarsi in continui combattimenti. La sua vita da sultano però non dura a lungo: dopo due-tre stagioni al top, in genere si arrende a un rivale.
«Quanto alle femmine, ogni tanto qualcuna sfugge al controllo» conclude Fabiani. «Nelle colonie delle Falkland analisi genetiche mostrano che circa il 15 per cento dei cuccioli ha un padre diverso dal maschio alfa, e nelle colonie della California la percentuale è persino più alta. Anche i maschi sconfitti, quindi, qualche chance di riprodursi ce l’hanno». E la strategia dei combattimenti «ben ponderati» sembra funzionare: le popolazioni di elefanti marini oggi sono abbondanti, nonostante la caccia spietata del XIX secolo avesse ridotto quelli settentrionali ad appena trenta individui.