Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 19/9/2015, 19 settembre 2015
NELO RISI, IL POETA CON LA CINEPRESA
Nel 1957, quando cominciarono ad apparire le prove poetiche di Nelo Risi, Montale scrisse che leggendolo si avvertiva una specie di paradosso: e accennava alla lievità di Raoul Dufy, il pittore e illustratore francese, mescolata con una tetraggine da Ecclesiaste. In realtà, Risi aveva iniziato ben prima, a scrivere versi: quindici poesie le pubblicò già nel 1948, all’età di 28 anni, in un volumetto ben presto introvabile, intitolato Le vacche magre. Erano componimenti giovanili molto precoci, datati dal 1943.
Ma non solo la poesia, anche la vita l’ha vissuta precocemente. Nelo Risi è nato nel 1920 a Milano, dove, solo dopo la guerra, si è laureato in medicina (il padre era medico), senza mai esercitare, esattamente come il fratello maggiore Dino. Il padre era morto nel ’28, dunque i tre fratelli sono cresciuti con la madre, una donna colta che ai figli leggeva le poesie di Goethe in tedesco. Negli anni della guerra Nelo è stato soldato, tra l’altro sul fronte russo: «Eravamo sul Don, nelle divisioni che i russi chiamavano cikai, cioè “scappa”, un nome che già rende l’idea... ». Raccontava in una bella intervista, rilascia a Massimo Raffaeli e Francesco Scarabicchi nel 2006, di essere stato sergente di sanità, cioè in pratica infermiere, a 15 gradi sotto zero, prima di rientrare a casa, raggiungendo a piedi la ferrovia distante seicento chilometri.
Dopo l’internamento in Svizzera e dopo aver lavorato con Vittorini al «Politecnico», ha vissuto molto all’estero, in particolare a Parigi (dove è stato amico di Queneau) e in «una fetta d’Africa». Nella sua città natale è rimasto fino al ’55, quando si è trasferito a Roma, dove è morto nella sera di giovedì a 95 anni, ormai patriarca della poesia italiana. Come il fratello, si sarebbe dedicato al cinema e alla televisione, con documentari e lungometraggi: da Andremo in città, tratto da un racconto di sua moglie, la scrittrice ungherese Edith Bruck, al Diario di una schizofrenica (1968), a La colonna infame, a Le città del mondo (1975). Nell’immediato dopoguerra aveva girato l’Europa in macerie al seguito di due fotografi, un inglese e un americano, che volevano documentare le conseguenze del conflitto.
Era a Berlino quando si ritrovò tra le mani, per la prima volta, una macchina da presa, una Arriflex. Da lì in Grecia, sempre per girare documentari. Nonostante l’interesse per la psicanalisi, durato per tutta la vita (nel 1996 diresse un film su Sabina Spielrein, la paziente e amante di Jung, che divenne allieva di Freud), diceva di non credere nell’immagine romantica dell’artista folle: «Non sono mai stato in analisi, non mi sento un nevrotico, ho un buon rapporto di disagio con me stesso, sono molto legato alla realtà, non sfuggo all’autocritica. La mia poesia è un buon barometro di quello che so essere...».
Realtà è una parola molto importante per capire il poeta Risi, che evidentemente non si è mai dimenticato di essere anche documentarista. La critica ne ha sempre sottolineato il legame con l’illuminismo e il moralismo lombardo, specialmente con Parini: ma tra i contemporanei si avverte un’affinità con Giorgio Orelli e Luciano Erba, e anche con il siciliano-milanese Bartolo Cattafi, grazie alla tensione etico-realistica impostata sulla brevità quando non sull’epigramma. L’epigramma, come ha avvertito Maurizio Cucchi (prefatore della raccolta delle sue opere poetiche, Di certe cose, 19532005), diventa «il carattere più vistoso» del lavoro di Risi, esprimendosi in «un tocco brillante ed estroso», o in una vena civile che «assume il tono di un’ironia irridente, acuminata».
Classificato subito da Luciano Anceschi dentro la cosiddetta «linea lombarda» (nella famosa antologia del 1952), in verità Risi sente molto l’influsso del surrealismo francese (Prevert e Vian): la raccolta Polso teso (1956) è nata infatti negli anni parigini. «La poesia — ha scritto — è verità intuita con ritmo»: non è un pessimista, Risi, ma un deluso (sulla capacità di incidenza dell’intellettuale progressista), dunque, dopo le prime prove, fa poesia nutrendo una sorta di sfiducia nella poesia stessa e rifugiandosi perciò «in toni minori e svagati, nel “fatto personale” sia pure corretto sempre da un trattamento auto-ironico dell’io parlante» (Mengaldo). Mai nostalgici, però. Minime massime è una sua breve raccolta del 1962: «Il poeta è cosciente che l’inerte / appena nominato è già vivente». Altri suoi titoli, già in sé significativi della sua poetica da «stilista dell’usuale», sono: Pensieri elementari (1964) e Dentro la sostanza (1965).
Una poesia essenzialmente «non metaforica», l’ha definita Giovanni Raboni, nella quale contano la parola letterale, la nettezza, la trasparenza del dettato, il discorso diretto e frontale. Un anarchico, poeta di tensione morale, critica, civile, anzi «civilissima» per sua stessa ammissione, che si fa sempre più politica, quasi rivoluzionaria, con denunce e appelli con il potere e la violenza del proprio tempo. Ma Risi, pur restando fedele a se stesso, riesce a rinnovarsi anche utilizzando slogan e frammenti di linguaggi settoriali, composti in forma di collage alla maniera del neosperimentalismo, così apparentemente lontano dalla sua più profonda vocazione. Senza dimenticare l’esercizio continuo delle traduzioni: da Kavafis e da Sofocle, da Jouve e da Laforgue.
In una serie del 1983, I fabbricanti del «bello», Risi tocca forse il suo vertice con la poesia dedicata a Tasso («Ha perso la quiete / forse la vita stessa...»), dove il poeta della Gerusalemme liberata viene raffigurato in catene, nell’«infinita malinconia che lo tormenta», vittima di topi indemoniati e di un tribunale che ha i tratti della brutalità eterna del potere. In una poesia raccolta in Risonanze, del 1987, Risi tornava meravigliosamente sulla sua città: «Milano, quando i navigli facevano corona/ portava in sé afrori di darsena, parvenze/ di mare, le donne a braccia nude/ battevano i panni su lucide ardesie...». E nello stesso libro enunciava la tensione e l’impegno che hanno sempre animato il suo scrivere: «Troppi avvenimenti, arduo/ essere del proprio tempo,... sto in mezzo/ ai fatti che urgono si accalcano/ e non ne afferro bene il disegno». Arduo, sì, ma sto.