Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 8/3/2015, 8 marzo 2015
PARITÀ EURO-DOLLARO SEMPRE PIÙ VICINA
Martedì 3 dicembre 2002: segnatevi questa data, perché è l’ultima volta che l’euro ha chiuso sotto la parità con il dollaro. Ma soprattutto perché presto potrebbe essere aggiornata, forse anche prima di quanto si possa pensare. Basta infatti vedere quanto terreno la moneta unica ha perso nelle ultime sedute di questa settimana, da quando cioè Mario Draghi ha fornito gli ultimi dettagli sul piano di riacquisti di titoli di Stato (quantitative easing) che prenderà il via ufficialmente domani, per capire che i giorni potrebbero essere davvero contati.
In un sol colpo si è passati da 1,13 a 1,08 dollari o poco più, costringendo gli analisti a riscrivere in fretta le previsioni tanto che le fila di chi prevede la parità si allargano ogni giorno: secondo Ing e Barclays la fatidica «quota 1» sarà raggiunta entro l’anno; per Morgan Stanley, Goldman Sachs e Citigroup nel 2016, ma ancora una volta le loro indicazioni temporali rischiano di rivelarsi sbagliate per eccesso. Il «qe» potrebbe in effetti accelerare i movimenti, anche perché se finora ci si è mossi sulle aspettative, di qui a poco l’ondata di denaro «stampato» dalla Bce affluirà materialmente sui mercati con conseguenze non facilmente prevedibili.
LA MANO DI DRAGHI
Gli stessi elementi di novità emersi giovedì scorso dalla riunione dell’Eurotower non sono del resto favorevoli a una ripresa dell’euro: il fatto di aver limitato gli acquisti ai titoli con rendimento superiore al tasso sui depositi (-0,20%) porterà per esempio la stessa Bce a concentrare verosimilmente l’azione sulle scadenze più avanzate, con l’effetto di appiattire ancora di più la curva dei rendimenti. «Un fenomeno simile – spiega Credit Suisse – si è storicamente dimostrato negativo per l’euro/dollaro, soprattutto perché tende ad allargare il differenziale dei tassi di interesse dell’Eurozona con le altre valute».
Il fatto che negli ultimi giorni lo «spread» fra Bund tedeschi e Treasury Usa decennali si sia del resto spinto fino al massimo storico dell’1,85% può essere a sua volta letto sia come causa, sia come effetto della divaricazione fra euro e dollaro. Ma c’è di più: ancora Credit Suisse sottolinea come Draghi abbia ricordato che oltre il 50% dei titoli dell’Eurozona siano in mano a investitori esteri, suggerendo implicitamente di contare sulle vendite di tali soggetti per completare il piano di riacquisti. «Questo è doppiamente negativo per l’euro, perché significa che l’incremento del bilancio Bce sarà finanziato con un incremento della base monetaria e comprando asset da investitori che risiedono all’esterno dell’area», spiegano gli analisti della banca elvetica.
GLI USA MOSTRANO I MUSCOLI
Ovviamente la marcia verso la parità è la risultante di due forze concorrenti che spingono verso un unico obiettivo: in altre parole non è soltanto l’euro a indebolirsi, ma anche il dollaro a rafforzarsi per la prospettiva di un irrigidimento della politica monetaria della Federal Reserve e anche per il differente passo della crescita Usa rispetto alla stagnante economia del Vecchio Continente. Non per niente, l’ultimo movimento di rilievo è coinciso con i brillanti dati sul mercato del lavoro a stelle e strisce (295mila posti in più creati a febbraio, ben oltre le attese) diffusi venerdì.
In fondo il dollaro viaggia sui massimi dal settembre 2003 non soltanto sull’euro, ma anche nei confronti delle valute dei principali partner commerciali degli Stati Uniti come testimonia il valore del dollar index. Ma ciò che più conta è che il suo ciclo rialzista potrebbe essere ancora lontano dal capolinea: «Se si considera che la produttività Usa è in aumento, nonostante il rally degli ultimi mesi il biglietto verde è appena tornato al proprio fair value», osserva Bill Street, responsabile investimenti di State Street Global Advisors. «Se pensiamo – aggiunge poi l’analista – che nelle fasi rialziste o ribassiste degli ultimi decenni i movimenti sono sempre iniziati o terminati quando la moneta è arrivata a essere sopra o sottovalutata del 25% e si sono poi protratti per almeno 7/10 anni, si può dire che il dollaro ha ancora spazio e tempo per correre». Almeno fino a quando la sua marcia non preoccuperà davvero la Federal Reserve.
Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 8/3/2015