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 2015  marzo 08 Domenica calendario

HIROSHI SUGIMOTO

MODENA
«Sono orgoglioso di essere l’ultimo fotografo della storia», dice Hiroshi Sugimoto con l’ironia che il suo volto orientale non lascia del tutto decifrare. «La storia della fotografia è durata quasi centottant’anni, ora può terminare. Io ho lavorato sempre con la chimica, con la pellicola. L’elaborazione digitale, oggi, apre un’altra storia per l’immagine, più vicina alla pittura. Lo sa che i dipartimenti di polizia in tutto il mondo stanno smettendo di usare le fotografie come prove?». Questa in cui stiamo passeggiando, dunque, questa mostra di uno dei più celebrati fotografi viventi, questa mostra rarefatta, meno di quaranta grandi raffinatissime stampe sotto le volte dell’antico, vasto Foro Boario di Modena, questa mostra disposta come un sapiente ikebana, dove è quasi impossibile, da qualsiasi punto, vedere più di un paio di immagini per volta, questa potrebbe essere una mostra da fine dei tempi. Si intitola, in effetti, Stop Time, ma anche questa espressione è tutta da decifrare. A cosa allude? Un paradosso: il tempo è immobile? Un’angoscia: il tempo si è fermato? Oppure un’invocazione: fermate il tempo?
La terza no. Nessuna delle visioni dei quarant’anni di lavoro di Sugimoto risponde all’imperativo di Goethe: «Fermati attimo, sei bellissimo!». Nessun istante decisivo, nelle sue fotografie. Prendi Seascapes , ad esempio, una delle sue serie più celebri e disorientanti, solo mare e cielo che si dividono a metà l’inquadratura, nient’altro: è l’unico paesaggio al mondo assolutamente svuotato di storia, identico a se stesso da milioni di anni. Obietta: «Non è vero che non c’è la storia, in un orizzonte di solo mare e cielo. L’aria, l’acqua sono inquinati e questa è storia umana, per cercare un cielo limpido ormai devo andare in mari molto lontani. Ma soprattutto c’è la consapevolezza dell’uomo di essere nella storia. Immagini il primo uomo sceso sulla Terra: si guarda attorno, vede questo vuoto, è quello il momento in cui è obbligato a dirsi: io sono qui, e ci sono ora. La fotografia ha solo reso tangibile la consapevolezza che, senza l’uomo, la storia non esiste».
Il primo mestiere di Sugimoto aveva a che fare con la storia: l’antiquario, e qualcosa gli è rimasto dentro. Ha speso una follia, dice un milione di dollari, per comprare alcuni negativi di carta di William Henry Fox Talbot, uno degli inventori della fotografia, incunaboli rarissimi e inediti, e poterli stampare per la prima volta. E anche adesso, che vive di fotografia, continua a collezionare oggetti sospesi fra due o tre mondi: il Giappone delle sue origini, gli Usa dove ha raggiunto la celebrità, l’Europa di cui conosce minuziosamente la storia. E di nuovo ti spiazza con l’ironia: «Appartengo ai luoghi dove mi fanno lavorare. In Italia mi fate lavorare molto, ultimamente vivo più qui che a New York, è la mia seconda casa». A 67 anni, è uomo di molte esistenze: scenografo, book designer, architetto, regista di teatro Noh e di marionette. Nel suo loft newyorchese coltiva un prato di muschio. Nella sua casa di Tokyo prepara in casseruole vecchie di secoli cene d’autore per un solo invitato. «Il mio prossimo libro sarà un libro di cucina».
Per la mostra di Modena (promossa dalla Fondazione Fotografia e curata da Filippo Maggia, fino al 7 giugno) ha scritto un testo, lungo, inatteso: sulla storia della fotografia come illusione. «Daguerre era un imprenditore dell’illusionismo, anche un po’ un imbroglione, sapeva che la gente vuole credere alle immagini, e ne approfittò ». Prima di inventare la fotografia infatti aveva fatto fortuna con il Diorama, dipinti animati che davano l’illusione di scene viste dal vero. Sugimoto adora fotografare diorami, li ha cercati nei musei di storia naturale, quelle scene di fondali dipinti e animali impagliati che nelle sue fotografie diventano veri paesaggi. «Per me tutto il mondo è un’illusione, la fotografia produce immagini illusorie del mondo, quindi è una specie di raddoppio», come in un’algebra della visione dove illusione per illusione è uguale a verità. Ecco i suoi ritratti di personaggi storici: Napoleone, la regina Vittoria, anche più indietro nel tempo, «sono stato un fotografo del Seicento...». Erano i manichini di Madame Tussaud, un’altra illusionista di cui Sugimoto sa vita morte e miracoli. «Le statue di cera sono corpi morti che rendono l’illusione della vita». Immagini di immagini, al quadrato, magari al cubo: a Sugimoto non dispiacerebbe finire anche lui nel museo delle cere, magari nella posa di chi sta fotografando la statua di cera del duca di Wellington vivo che guarda la statua di cera di Napoleone morto...
Non è inquietante un mondo dove le uniche immagini che sembrano vere sono finzioni di finzioni? A un certo punto della sua carriera, a cavallo degli anni Ottanta, Sugimoto sembra aver avvertito il pericolo. Ha cominciato a produrre immagini svuotate di immagini. I paesaggi marini, già detto. Soprattutto Theaters: obiettivo puntato verso lo schermo di un cinema durante la proiezione (sta aggiungendo alla serie i teatri antichi italiani convertiti in cinema), tempo di posa pari alla durata del film, e naturalmente quel che viene fuori è uno schermo completamente bianco, il cui debole riverbero rivela la sala. Troppe immagini, uguale nessuna immagine. Ci sta chiedendo di pulire lo sguardo dall’eccesso di visioni? «Sì...», risponde non del tutto convinto, «forse il suggerimento è questo ». Ci ripensa: «Ma la durata di un film può rappresentare la vita di una persona, e allora questo è il lampo luminoso in cui, al momento della morte, si rivede tutta la vita in un solo istante... Succede davvero così, lo ricordo bene dall’ultima volta che sono morto...».
Michele Smargiassi, la Repubblica 8/3/2015