Massimiano Bucchi, la Repubblica 8/3/2015, 8 marzo 2015
COME IMPARAMMO A CHIAMARLA BOMBA
La bomba iniziò a prendere forma con uno scarabocchio sulla lavagna del fisico Robert Oppenheimer nel 1939. E prima ancora in un piovosa mattina londinese del 1933, all’incrocio tra Southampton Row e Russell Square. Qui il fisico di origine ungherese Leó Szilárd ebbe l’intuizione di una reazione nucleare a catena. Fu lo stesso Szilárd a far visita ad Einstein in villeggiatura a Long Island. Da qui partì la celebre lettera con cui Einstein sollecitava il presidente degli Stati Uniti Roosevelt «a stabilire un contatto permanente tra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che lavorano sulle reazioni a catena in America» e lo metteva in guardia sulla possibilità che la Germania stesse facendo passi avanti nella stessa direzione. Sei anni dopo, alle 8:15 del 6 agosto 1945, il pilota Paul Tibbets sganciava la bomba che distrusse la città di Hiroshima, provocando centomila morti. In mezzo c’è una storia che coinvolge i più grandi fisici del secolo (da Enrico Fermi a Oppenheimer, che del progetto americano fu una delle figure chiave); due presidenti (lo stesso Roosevelt e Truman, che dette poi l’ordine di sganciare la bomba); spie del KGB; partigiani norvegesi capaci di sabotare la produzione tedesca di acqua pesante.
Steve Sheinkin la racconta con il passo del thriller, pensando soprattutto al pubblico giovanile e spesso sorvolando sui numerosi dubbi e dibattiti storici ancora aperti. Riesce tuttavia a dar conto della fragilità e della complessità di un percorso che fu tutt’altro che lineare. L’“arnese”, the gadget — così i fisici di Los Alamos, per evitare il termine “bomba”, chiamavano il primo prototipo testato nel New Mexico — restò infatti in bilico fino all’ultimo tra numerosi problemi risolti non di rado in modo quasi artigianale utilizzando perfino materassi e trapani da dentista. Ma quello che fa correre i brividi sulla schiena sono i numerosi momenti in cui la storia avrebbe potuto cambiare corso: se Oppenheimer fosse stato escluso dal progetto sulla base dei sospetti di simpatie comuniste da parte dell’FBI o se il KGB fosse riuscito nei propri tentativi di carpirgli informazioni strategiche; se i sabotatori norvegesi avessero fallito una missione condotta in circostanze proibitive; se le condizioni meteo sul New Mexico o su Hiroshima fossero state diverse nei momenti cruciali.
Oggi si può giudicare a posteriori, sapendo che dopo quel giorno d’agosto il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Ma resta difficile immaginare sensazioni e motivazioni degli scienziati fotografati in posa accanto all’“arnese”: patriottismo, incoscienza, curiosità o la “grandissima esaltazione” che provò il fisico Richard Feynman apprendendo le notizie dal Giappone? Forse il drammatico stupore di fronte al proprio sapere fattosi micidiale potere era già tutto nelle parole con cui Einstein accolse, nel 1939, il resoconto di Szilárd: «Non ci avevo proprio pensato».
Massimiano Bucchi, la Repubblica 8/3/2015