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 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

UN MONDO SENZA RANE


Già nel 1870, quando gli umani sulla Terra erano meno di due miliardi, Antonio Stoppani, padre fondatore della geologia italiana, si accorse che la dominanza della nostra specie stava avendo un effetto talmente potente sul pianeta da modificarlo. Propose quindi il battesimo di una nuova era geologica, definita proprio dall’impatto dell’uomo sul pianeta: l’era antropozoica, dal greco anthropos, uomo, appunto. Ai tempi non venne preso sul serio dai suoi colleghi: il suo approccio non era abbastanza “scientifico”, dicevano. Troppo romanzato. E invece Stoppani c’aveva visto lungo, lunghissimo.
Fast-forward di centoquarant’anni: la salute del sistema-pianeta è legata indissolubilmente a noi esseri umani, e al fatto che oggi siamo quasi sette miliardi. Le conseguenze di questo numero, per tutte le altre forme di vita terrestre, sono devastanti. Basti pensare che il grande divulgatore scientifico David Quammen ha paragonato la crescita della popolazione umana alle cicliche esplosioni nella popolazione di locuste; a una piaga, quindi. Il biologo E.O. Wilson, invece, ne Il futuro della vita (Codice Edizioni, 2008) ha sostenuto che la crescita umana nel ventesimo secolo all’interno dell’ecosistema-Terra è stata «più simile all’evoluzione di un virus che a quella di un primate».
L’epoca geologica nella quale viviamo è l’Olocene, in teoria, epoca che è iniziata alla fine dell’ultima Era Glaciale, circa 11.700 anni fa. Ai tempi, noi umani eravamo forse mezzo milione. Da allora, ci siamo moltiplicati per un milione e quattrocentomila. Parallelamente, anche l’impatto della nostra specie sull’ambiente che la circonda è cresciuto a dismisura. Oggi, in realtà, viviamo nell’Antropocene, l’Epoca dell’Uomo, termine coniato dal chimico Paul Crutzen nel 2002 e ora di dominio pubblico: talmente pubblico che il geologo inglese Jan Zalasiewicz oggi presiede un gruppo di lavoro della Commissione Internazionale sulla Stratigrafia che mira a stabilirne ufficialmente l’inizio.
È talmente evidente che la nostra presenza sul pianeta ne sta modificando drammaticamente le regole di sopravvivenza che l’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, non parla più di cambiamento climatico in termini di prevenzione, ma in termini di adattamento. Ormai il mondo è cosi, questa è la strada che il pianeta ha intrapreso, e le uniche specie che sopravvivranno saranno quelle che riusciranno ad adattarsi a noi e al ridisegnamento del pianeta secondo i nostri bisogni. Le altre moriranno.
Perché è questo il vero punto della questione. L’Epoca dell’Uomo, infatti, sta coincidendo con la Sesta Estinzione di Massa, come racconta il fantastico libro di Elizabeth Kolbert, scrittrice del New Yorker, intitolato appunto The Sixth Extinction: una lettura tanto affascinante quanto decisamente spaventosa. L’estinzione di una specie può procedere in due modi, spiega la Kolbert. La prima è la rata d’estinzione naturale: cioè il numero di specie viventi che soccombono diciamo “naturalmente” alle dure regole dell’evoluzione e della selezione naturale.
Si parla di un numero che oscilla tra le due e le dieci specie l’anno. Separatamente da questo processo, esistono poi le “estinzioni di massa”: eventi specifici che, nell’arco di poche generazioni (sempre in termini geologici, quindi lentissimi) annientano una percentuale pazzesca di tutte le specie viventi sulla Terra, che siano esse adattate al loro ambiente o meno. Ce ne sono state cinque: nel gergo, sono le cosiddette “Big Five”. Secondo la Kolbert, l’arrivo dell’Antropocene dovrebbe iniziare a farci pensare alle “Big Six”.
I numeri sono dalla sua parte: le specie viventi, di questi tempi, si estinguono in un numero che oscilla tra le 1.000 e le 10.000 volte la rata di estinzione naturale. Ogni giorno, più di quindici specie svaniscono per sempre. Entro il 2030, un numero che varia tra il 20 e il 40% di tutte le specie presenti oggi sul pianeta saranno estinte. Le rane, soprattutto, sono sull’orlo del baratro: più di un terzo delle circa 6.000 specie di anfibi sono a grave rischio di estinzione. La causa? Sempre quella: noi. Cambiamento climatico, distruzione dell’habitat, e il proliferare di un fungo, il Batrachochytrium dendrobatidis, anche noto, più semplicemente, come Bd.
II Bd è fatale per un’altissima percentuale di specie di rane, ed è stato sparso in giro per il pianeta dal sistema socio-economico globalizzato contemporaneo che ci spinge a viaggiare ovunque, portando con noi virus, batteri e, in questo caso, microscopiche spore di cui ignoriamo i devastanti effetti sulle altre specie. Finché ci rendiamo conto di non ricordare l’ultima sera d’estate in cui abbiamo sentito una rana gracidare in uno stagno.
L’ultima estinzione di massa, prima della Sesta, quella dell’Antropocene, causata oggi da noi, avvenne circa 66 milioni di anni fa, al confine tra il Cretaceo e il Terziario, e si stima che si siano estinti circa tre quarti di tutte le specie allora viventi, compresi i dinosauri. La causa della quinta delle Big Five? Un meteorite immenso che colpì l’attuale penisola dello Yucatan, in Messico, creando un cratere di 150 chilometri quadrati e causando un impatto paragonabile a 10.000 volte l’esplosione di tutto l’arsenale nucleare presente oggi sul pianeta Terra.
A scoprirne l’esistenza fu il Nobel per la fisica Luis Alvarez, con il figlio Walter, dopo l’osservazione di uno strano strato argilloso noto come scaglia rossa, presente tra due sedimenti rocciosi e osservabile molto chiaramente in una parete rocciosa esposta vicino a Gubbio, in Umbria. La scaglia rossa presentava una concentrazione pazzesca di iridio, elemento rarissimo sul pianeta Terra ma molto presente nei meteoriti, avallando quindi la teoria che un impatto mostruoso con un asteroide fosse stato responsabile della quasi totale distruzione dell’ecosistema planetario, impatto che proiettò centinaia di miliardi di particelle di iridio nell’atmosfera, oscurando i cieli con una nuvola di polvere infuocata che lasciò la Terra nell’oscurità e bruciò quasi ogni cosa avesse avuto la sfortuna di stare semplicemente in piedi sulla superficie del pianeta.
Lo strato di scaglia rossa è visitabile, è sempre lì, immobile, è una roccia d’altronde, dove dovrebbe andare? È a Gubbio, per la precisione poco fuori dal paese di Don Matteo e del lupo di San Francesco, sulla strada che porta al Monastero della Santissima Trinità. Qualche mese fa ci sono passato, con due amici, in macchina, e non si nota quasi. Per due volte ci siamo fermati in baretti lungo la strada, chiedendo, a turno, del “sito geologico”, e poi, notando le espressioni confuse dei nostri interlocutori, delle “rocce famose”, e per due volte ci hanno rimandato indietro nella direzione dalla quale provenivamo.
Al terzo passaggio, lo abbiamo notato. L’unico segnale era un piccolissimo cartello giallo, in metallo, sbiadito. Sopra, la scritta «Sito geologico di importanza mondiale». Era lì, davanti a una parete rocciosa come se ne vedono a migliaia, al lato di una strada statale, di fianco a uno stretto spiazzo ghiaioso. Non si direbbe mai di essere davanti alla prova definitiva di un evento drammatico che quasi causò la distruzione totale della vita sulla Terra. Io e i miei amici abbiamo parcheggiato là davanti, siamo scesi dalla macchina, abbiamo toccato l’argilla, e ne abbiamo prelevato un pezzetto minuscolo a testa. E appoggiato su una mensola della mia libreria, oggi. Ogni tanto mi ci fermo davanti, lo tocco, e penso a cosa voglia dire la frase “settanta milioni di anni fa”.
Chissà se i nostri figli avranno modo di visitare quel sottile strato di argilla rossa, chissà se quel cartello sarà ancora più sbiadito, o se verrà rimesso a posto. Qualcosa mi dice che non gli interesserà molto. Immagino che, a meno che non decideremo di cambiare drammaticamente le nostre abitudini, saranno troppo coinvolti dalla Sesta Estinzione per preoccuparsi della Quinta. Forse ci chiederanno cos’erano, che aspetto avevano e che rumore facevano quegli strani animali che, un tempo, chiamavamo rane.