Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

LA REGINA CANTA ANCORA


Fu un ritorno totalmente inaspettato. Fin dal primo momento in cui salirono sul palco dello stadio di Wembley, per il live aid del 13 luglio 1985, Freddie Mercury e gli altri membri dei Queen – Brian May alla chitarra, Roger Taylor alla batteria e John Deacon al basso – rubarono la scena a tutti.
Freddie, seduto al pianoforte, suonò il pezzo più famoso della band, la stravagante Bohemian Rhapsody, e 72mila persone cantarono con lui in coro, parola per parola. Ma il meglio doveva ancora venire. Freddie afferrò il suo microfono a mezz’asta e la band si lanciò nell’entusiasmante Radio Ga Ga: il pubblico rispose battendo le mani in perfetta sincronia, alzando i pugni chiusi sopra la testa mentre il cantante incitava i fan con la sua voce possente. La vista di quella moltitudine di gente che si muoveva in modo spontaneo all’unisono, come una marea umana, faceva quasi spavento: tutto quel potere nelle mani di una sola band e di un solo uomo. Ma il fatto che fossero proprio i Queen a creare questa magia era una sorpresa. La band, infatti, sembrava aver fatto il suo tempo. Dopo A Night at the Opera, il loro epico album del 1975, i Queen avevano messo in fila una hit dietro l’altra, cambiando genere di volta in volta, passando dal pop barocco all’hard rock, dalla disco al funk, fino al rockabilly. Ma intorno alla metà degli anni ’80 il loro destino sembrava essere cambiato, in parte anche perché il pubblico faceva fatica ad accettare l’omosessualità di Freddie Mercury. Inoltre, era stato un errore clamoroso suonare in Sudafrica in pieno regime di apartheid: anche nella loro Inghilterra, la band era diventata quasi innominabile. Poi arrivò l’esibizione al Live Aid, che riportò di colpo in vita quel che di straordinario rappresentavano i Queen: la loro abilità tecnica, il loro essere visionari, il loro modo di dominare il palco. Tutti ne volevano sempre di più.

I Queen cominciano e finiscono con Freddie Mercury. Lui rappresentava l’identità della band, i suoi trionfi e i suoi fallimenti. All’inizio, però, Freddie Mercury non esisteva. C’era solo Farrokh Bulsara, nato il 9 settembre 1946 nel protettorato Britannico di Zanzibar, sulla costa orientale dell’Africa, figlio di una famiglia di etnia parsi che professava la religione zoroastriana, uno dei culti monoteisti più antichi del mondo. Suo padre Bomi era un contabile dell’alta corte del governo britannico, un incarico che garantiva alla famiglia condizioni di vita privilegiate.
Nel 1954, a 8 anni, Farrokh fu mandato a studiare alla St.Peter’s Church of England di Panchgani, a 25 km da Bornbay (oggi Mumbai), in India. Il miglior collegio maschile del continente indiano. Quando arrivò da Zanzibar, Freddie era un ragazzo incredibilmente timido, complessato per via di quei denti sporgenti che gli fecero guadagnare immediatamente il soprannome di “Bucky”, castorino. La dentatura prominente rimase un problema per tutta la vita di Freddie, costretto a coprirsi con la mano tutte le volte che rideva. Presto, però, Freddie si rese conto che quei quattro denti in più in bocca erano un dono di natura, una caratteristica che dava alla sua voce una risonanza unica. Un insegnante lo chiamava affettuosamente Freddie, nome che decise di portare per sempre con sé. Cominciava anche a coltivare i suoi interessi. I genitori gli avevano fatto conoscere l’opera, ma Freddie si appassionò al rock&roll travolgente di Little Richard e al virtuosistico R&B di Fats Domino. I genitori gli pagarono corsi di musica e nel 1958 Farrokh formò la sua prima band, gli Hectics, insieme ad altri studenti della St.Peter’s. Sul palco Farrokh non era più il ragazzo timido che tutti conoscevano. Per alcuni era già evidente che fosse omosessuale, ma nessuno ricorda di averlo visto coinvolto in relazioni con altri ragazzi. Nel 1963 Freddie tornò a Zanzibar, proprio mentre terminava il protettorato britannico. Nel 1964 scoppiò la rivolta contro il regime coloniale e i Bulsara fuggirono in Inghilterra, nel Middlesex, vicino a Londra. Fu un cambiamento radicale; il clima era duro, le condizioni di vita meno agiate e Freddie cominciò a prendere le distanze dalla famiglia. Nel 1981, raccontò a Rolling Stone: «Ero un ribelle e ai miei genitori dava fastidio. Me ne sono andato di casa presto. Volevo essere padrone della mia vita». Freddie arrivò in Inghilterra giusto in tempo per la Swinging London, per i Beatles e i Rolling Stones. Aveva deciso di godersi ogni momento della vita che gli si stava aprendo davanti. Come Freddie, anche gli altri due membri fondatori dei Queen, Roger Taylor e Brian May, erano studenti universitari nella Londra della fine degli anni ’60. May, influenzato dal compositore italiano Mantovani e da Buddy Holly, si era costruito la chitarra da solo, usando il legno recuperato da un camino (ed è la stessa Red Special che suona ancora oggi); studiava matematica, fisica e astronomia, e suonava in una cover band chiamata 1984, insieme al bassista Tim Staffel. Nel 1968, lui e Staffel decisero di formare una nuova band, gli Smile. Appesero allora un annuncio per trovare un batterista e il primo a rispondere fu Roger Taylor, che si stava preparando per una carriera da dentista, ma non aveva nessuna voglia di studiare. «Sono rimasto folgorato quando l’ho visto montare la sua batteria all’Imperial College», ha raccontato May nel 1999: «Solo accordandola suonava meglio di tutti gli altri batteristi che avessi mai sentito». Erano nati gli Smile.
Tim Staffel studiava all’Ealing College of Art e condivideva la passione per la musica con un compagno di corso di nome Freddie Bulsara. Freddie aveva i capelli lunghi, era una bellezza esotica e affascinante, con le unghie dipinte di nero aveva un aspetto effeminato, quasi pericoloso. Staffel lo presentò a May e Taylor all’inizio del 1969. A loro sembrava un tipo originale, a tratti autoritario: «Era soprattutto un entusiasta, ci diceva cose del tipo: “Mi piacciono molto le atmosfere che riuscite a creare, ma non vi vestite nel modo giusto, non vi rivolgete al pubblico come dovreste”». In quel periodo Freddie era entrato a far parte di un paio di gruppi che ogni volta cercava di plasmare secondo la sua visione. Le sue influenze erano variegate: compositori classici come Chopin e Mozart, cantanti come Dick Powell, Ruby Keeler, Robert Plant e Aretha Franklin, e soprattutto lo stile istrionico delle sue due star preferite: Jimi Hendrix e Liza Minnelli. Quando vide suonare gli Smile, decise di diventare il loro cantante. Ai loro concerti, si piazzava sotto al palco e gridava: «Se fossi il vostro cantante, vi farei vedere io come si fa». All’inizio del 1970, svanite tutte le speranze di arrivare al successo, Tim Staffell lasciò gli Smile. In quel momento May, Taylor e Bulsara vivevano insieme in un appartamento a Londra. May e Taylor sapevano che Freddie era un pianista tecnicamente molto preparato e che sarebbe presto diventato un cantante eccezionale, così nell’aprile del 1970 gli chiesero di formare una nuova band. Provarono diversi bassisti (molti dei quali avevano difficoltà ad accettare lo stile sopra le righe di Freddie) prima di incontrare John Deacon, nel 1971. Deacon era un altro studente modello (aveva una laurea in elettronica e un master in acustica) e colpì tutti per la sua riservatezza: «Non ci ha praticamente mai rivolto la parola», raccontò May, ricordando la prima audizione. Ma era uno che imparava in fretta e fu quindi scritturato immediatamente. Bulsara, intanto, aveva convinto gli altri a vestirsi in modo più appariscente, più dandy. Voleva anche scegliere un nuovo nome per la band. May e Taylor pensavano a Rich Kids o Grand Dance, ma lui spinse per Queen: «E così regale. Un nome universale, potente e immediato». E alla fine, anche Freddie Bulsara non esisteva più: era nato Freddie Mercury, che aveva preso il nome dal messaggero degli dei dell’antica Roma.

Nel 1973 i Queen esordirono con il primo album omonimo, composto da canzoni che alla band sembravano già superate. Nel frattempo, Mercury aveva definitivamente convinto la band sull’importanza dello spettacolo dal vivo: come vestirsi, come muoversi sul palco e gestire lo spettacolo. Mercury si divertiva nel suo splendore androgino, con il costume da arlecchino o il vestito con le ali da angelo, ma intorno a lui aleggiava sempre un’atmosfera sinistra. Era lo stile glam forgiato in quegli stessi anni da David Bowie, T.Rex, Roxy Music e Mott the Hoople. «Siamo stati glam rock prima di Bowie e degli Sweet», diceva May: «E adesso abbiamo paura di essere arrivati troppo tardi». Con i due album successivi, Queen II e Sheer Heart Attack (entrambi pubblicati nel 1974), la band trovò se stessa. Sul palco, il centro dell’attenzione era sempre e solo Freddie Mercury. La stampa inglese non sopportava i suoi atteggiamenti effeminati e il suo manierismo teatrale, ma lui continuava a costruire un legame potentissimo e assolutamente non comune con il proprio pubblico, incitandolo costantemente a cantare con lui: «La mia voce risponde all’energia che mi trasmette il pubblico. Se sono coinvolti i fan, io canto meglio».

Quando entrarono in studio per registrare il quarto album, A Night at the Opera, i Queen capirono che il loro momento era finalmente arrivato. Freddie Mercury aveva in mente una canzone talmente epica da risultare quasi assurda. Il produttore Roy Thomas Baker, che lavorò con la band fin dal primo disco, ha raccontato così la prima volta che sentì parlare di Bohemian Rhapsody: «Eravamo a casa di Freddie e a un certo punto lui dice: “Mi è venuta un’idea per una canzone”. Si è seduto al piano e ha cominciato a suonare, poi si è fermato e ha detto: “Qui è dove comincia l’opera, caro mio!”». Bohemian Rhapsody comincia come una ballata, poi diventa una specie di operetta, si trasforma in un impetuoso rock&roll e alla fine torna a essere una ballad: «È in tutto e per tutto una creatura di Freddie», ha ammesso May. La band registrò circa 180 tracce vocali per dare forma al famoso coro, che ha la struttura di una vera e propria cattedrale di suoni. Il nastro finale aveva talmente tante sovraincisioni che diventò trasparente, una in più e sarebbe evaporato. I Queen volevano far uscire Bohemian Rhapsody come primo singolo tratto da A Night at the Opera, ma il loro manager, John Reid (che era anche il manager di Elton John) credeva fosse impossibile: una canzone lunga quasi sei minuti andava tagliata. Deacon la pensava allo stesso identico modo, ma May e Taylor erano d’accordo con Mercury: niente tagli.
I dubbi svanirono quando Mercury e Taylor consegnarono una copia del nastro a Kenny Everett, dj della BBC. «Potrebbe durare anche mezz’ora», disse Kenny, «questa canzone sarà al numero uno in classifica per secoli». Bohemian Rhapsody fu la prima numero uno dei Queen in Inghilterra, entrò nella Top 10 in America e da allora ha guidato più volte le classifiche come migliore e peggiore canzone nella storia del rock. Freddie Mercury non si preoccupò mai di spiegare il significato delle parole: «Che si fottano. Non dirò mai niente di più di quello che direbbe un qualsiasi poeta a cui viene chiesto di spiegare la sua opera: “Se riesci a capirne il significato, è quello”». Forse in quella canzone c’era qualcosa che Freddie non voleva svelare. Forse Bohemian Rhapsody contiene la chiave della sua vita, che rimane ancora oggi un segreto. Per molti i suoi atteggiamenti effeminati erano solo una messinscena. Il fotografo Mick Rock ricorda di averlo visto con diverse donne: «Potrei fare anche un paio di nomi!». Freddie aveva anche una storia d’amore con Mary Austin, una ragazza conosciuta nell’atelier di moda londinese Biba, che fu per anni la sua compagna. Ma, intorno al 1976, Freddie aveva cominciato a comportarsi in modo sempre più strano con lei: «Vedevo che era a disagio per qualcosa», ha raccontato lei stessa nel documentario Freddie Mercury: The Untold Story. Alla fine, infatti, Freddie le confessò di aver preso coscienza della sua omosessualità: «È stato un sollievo sentirlo direttamente da lui». Mary Austin gli rimase accanto per tutta la vita, come assistente personale e poi come confidente. Nonostante le sue numerose relazioni, Freddie Mercury l’ha sempre presentata a tutti come “mia moglie”. Dopo aver parlato con lei, aveva comunque deciso che non doveva spiegare più niente a nessuno. Non avrebbe tollerato nemmeno gli insulti. Durante un concerto a Manchester, secondo quanto ha raccontato un membro dello staff della band nel libro Queen: The Early Years, «qualcuno dalle prime file gli ha gridato: “Fottuto frocio!”. Allora Freddie ci ha chiesto di accendere le luci e di puntarle sul pubblico, ha trovato il tipo e gli ha detto: “Prova a ripetere, mio caro”. Quello è rimasto senza parole, era un tizio grande e grosso e Freddie l’ha letteralmente schiacciato».

Il suono dei Queen cambiò notevolmente con l’album successivo, News of the World del 1977. Due delle canzoni contenute nel disco, We Wili Rock You e We Are the Champions, diventarono le più famose della band, e anche le più controverse. We WilI Rock You parte con un ritmo di batteria incalzante e un testo che sembra voler invitare tutti quelli che dubitano della band a farsi da parte: «Qualcuno dovrebbe rimettervi al vostro posto». Per alcuni era una risposta al punk. We Are the Champions suscitò polemiche anche all’interno della band. Un giornalista di Rolling Stone definì i Queen: «La prima rock band fascista della storia». Secondo May, invece, quelle canzoni erano state scritte apposta per diventare inni da stadio: «Pensavamo solo alla partecipazione del pubblico». Alcuni hanno anche visto in We Are the Champions una rivendicazione di orgoglio gay, ma tutte le congetture in merito sono state spazzate via dal fatto che il pezzo è diventato un canto di vittoria universale usato negli eventi sportivi di tutto il mondo.
A partire dagli anni ’80 Freddie Mercury abbandonò il look elaborato degli anni ’70: si era tagliato i capelli e li pettinava all’indietro, si era fatto crescere un folto paio di baffi e indossava pantaloni di pelle nera o abiti sportivi attillati. Era diventato un esempio di quello che è riconosciuto fin dalla fine degli anni ’70 come il “macho gay”, un look al quale il mondo del rock non era ancora abituato. Freddie portò questo nuovo personaggio sul palco, in particolare a Montreal, durante Another One Bites the Dust, quando sculettando sul palco in pantaloncini corti sparava frasi ambigue come: “Mordi, mordi forte baby!”. Fu questo il momento in cui, probabilmente, arrivò più vicino ad ammettere in pubblico la propria omosessualità. Durante il tour americano del 1980, i fan gli tirarono lamette da barba sul palco. Questa sua nuova identità, quella dell’eroe gay del rock&roll non piaceva al pubblico. Come risultato, dal 1982 in poi i Queen non fecero più tour negli Stati Uniti. Negli anni ’80 i Queen erano una macchina da concerti, riempivano gli stadi in tutto il mondo.

Per molti, i Queen non erano più artisti, ma un’industria. E, considerate un paio di occasioni imbarazzanti, anche un’industria senza cuore. Nel 1981 la band partì per un breve, ma intenso tour in Sudamerica. Il primo concerto fu a Buenos Aires, e resta il più grande evento dal vivo mai realizzato nella storia dell’Argentina. Il Paese, però, era in mano a una dittatura militare. I Queen cercarono di dare un senso alla loro visita argentina. «Abbiamo deciso di andare a suonare per la gente», disse Taylor, «ovviamente non siamo andati lì con la benda sugli occhi, sapevamo cosa stava succedendo». La loro reputazione era comunque compromessa. Le cose peggiorarono quando, nel 1984, la band accettò di fare 12 concerti in Sudafrica, a Bophuthatswana, nel Super Bowl di Sun City, la città simbolo dell’apartheid. Le Nazioni Unite avevano chiesto espressamente all’industria dell’intrattenimento di boicottare il Sudafrica e l’Unione dei Musicisti Britannici aveva vietato a tutti i suoi membri di esibirsi a Sun City. I Queen partirono lo stesso in mezzo a un mare di critiche. «Non mi piace lanciare messaggi», disse Freddie Mercury. Per lui la band era apolitica, un gruppo di intrattenitori che non appoggiava nessun governo e suonava solo per il pubblico. Ma le ripercussioni furono molto forti: alla fine del 1984 nessun membro della band fu invitato a partecipare alla registrazione del singolo Do They Know It’s Christmas del Band Aids, il progetto benefico creato da Midge Ure e Bob Geldof per raccogliere fondi a favore della popolazione dell’Etiopia colpita dalla carestia. Qualche mese più tardi, tuttavia, Bob Geldof estese alla band l’invito a partecipare al concerto Live Aid in programma a Londra nel 1985. I Queen erano titubanti. Dovevano suonare di giorno, cosa che non amavano fare, e non avevano garanzie sufficienti sulla qualità del suono. E poi erano in cartellone con Paul McCartney, U2, Elton John, David Bowie, Who, Sting e Phil Collins. Sapevano che, probabilmente, il pubblico li avrebbe considerati come un nome che non c’entrava niente con gli altri. Bob Geldof però riuscì a convincerli e, 22 minuti dopo essere saliti sul palco dello stadio di Wembley, la sera del 13 giugno, in diretta televisiva mondiale, i Queen scesero dal palco da eroi assoluti, e inaspettati. Elton John andò a trovarli in camerino. «Bastardi!», disse loro: «Avete rubato la scena a tutti». Quel concerto rivitalizzò improvvisamente la carriera dei Queen. A settembre, la band entrò in studio a Monaco per registrare A Kind of Magic preparandosi a un tour europeo per l’estate del 1986.

Siamo probabilmente la migliore live band al mondo in questo momento», disse Roger Taylor in quel giugno 1986, «e abbiamo intenzione di dimostrarlo. Faremo in modo che Ben Hur sembri una puntata del Muppet Show». Lo spettacolo era all’altezza delle aspettative: la band era infatti al massimo della sua potenza, sotto ogni aspetto. Anche se Freddie Mercury cominciava ad avere imprevedibili sbalzi di umore. Dopo una data in Spagna, disse a John Deacon: «Non posso continuare per sempre. Questa è l’ultima volta». La band, racconta May, rimase profondamente scossa da queste parole. La richiesta di biglietti era talmente alta che alla fine del tour il gruppo aggiunse una data extra a Knebworth Park. Il 9 agosto del 1986 i Queen suonarono davanti a oltre 200mila persone. E poi, all’improvviso, tutto finì. Chiuso il concerto, Freddie se ne andò in tutta fretta. C’era qualcosa che lo turbava. Non voleva più farsi vedere dal pubblico che lo amava così tanto. I Queen avevano appena fatto il loro ultimo concerto.

All’inizio degli anni ’80, l’Aids cominciava a fare vittime negli Stati Uniti, inizialmente a New York, dove si registrarono i primi casi di infezione. Qualcuno parlò di “peste dei gay”, ma ben presto fu chiaro che la malattia non faceva alcun tipo di discriminazione. Si diffondeva tra i consumatori di droga che si scambiavano siringhe e tra le persone che praticavano sesso non protetto, soprattutto quelli che avevano relazioni multiple. Freddie Mercury faceva proprio parte di questa seconda categoria: «Sono una vecchia baldracca che si sveglia la mattina e decide con chi vuole andare a letto oggi», diceva di sé. Dopo un primo test negativo, nel 1987 Freddie Mercury rifece gli esami, ma non volle sapere il risultato. L’ufficio del suo medico personale cercò invano di mettersi in contatto con lui e alla fine chiamò Mary Austin per darle la notizia: Freddie era risultato positivo all’Hiv. Il cantante decise di non dire nulla alla band. «Avevamo intuito che c’era qualcosa che non andava», ricorda May, «ma non ne abbiamo mai parlato». Un ex assistente personale di Freddie, Paul Prenter, rivelò a un giornale inglese la notizia del test positivo e la stampa cominciò a fare pressione sulla band perché affrontasse l’argomento pubblicamente. Freddie negò tutto, dicendo che le voci erano false. Dopo aver registrato The Miracle, ricorda Taylor, «ci invitò tutti a casa sua e disse: “Probabilmente avete già capito qual è il mio problema. Non cambia nulla. Non voglio che si sappia, e non ne voglio parlare mai più». La consapevolezza della tragedia imminente influì sull’atmosfera dell’album successivo, Innuendo. Le canzoni affrontavano il tema della morte incombente in modo indimenticabile e con una grazia estrema, senza un solo momento di autocommiserazione. «Verso la fine abbiamo acquisito piena consapevolezza», ha detto May al riguardo: «A volte Freddie non era in grado di esprimere quello che provava e quello che stava per succedere, allora io e Roger lo abbiamo fatto per lui. Freddie era ormai oltre, non era più in grado di trovare le parole. Canzoni come The Show Must Go On erano un modo per affrontare la situazione insieme a Freddie».

Nel settembre del 1991 Freddie Mercury si ritirò nella sua villa di Kensington. Rifiutava di ricevere visite, non voleva farsi vedere mentre il suo corpo si spegneva lentamente. Smise anche di prendere le medicine, ma negò fino all’ultimo di avere l’Aids. La sera del 23 novembre 1991, rilasciò questa dichiarazione: «A seguito delle numerose illazioni della stampa, voglio confermare di essere risultato positivo al test dell’Hiv e di aver contratto l’Aids. Mi è sembrato corretto mantenere finora riservata la notizia per proteggere la privacy delle persone che mi stanno accanto, ma è arrivato il momento per i miei amici e i miei fan in tutto il mondo di sapere la verità. Spero che tutti si uniscano a me, ai miei medici e a tutti i dottori dei mondo nella lotta contro questa terribile malattia». Chi era presente in quel momento dice che, subito dopo, Freddie si sentì sollevato. La sera seguente, il suo compagno Jim Hutton e l’assistente personale Peter Freestone entrarono nella sua camera per cambiare le lenzuola. Jim si accorse che Freddie non respirava più. Aveva 45 anni.