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 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

RIDATECI IL VECCHIO LUCKY LUCIANO

Il nobile rivoluzionario che si ribellava alla composizione dei calendari: “Eravamo teste di serie, siamo stati trattati come teste di cazzo”. Il faro di una società che costringeva il suo contabile a imitare De Sade sui libri mastri: “Ieri si è presentata una certa Riva, faccia, fisico e abbigliamento da puttana di alta classe, voleva 6 milioni e 300 mila lire per le prestazioni sue e di colleghe per gli arbitri Aek Atene”.
Il dirigente che spingeva Jesus Gil, padre-padrone dell’Atletico Madrid e massima autorità in bancarotte e schiavettoni, a delicati ritratti d’occasione: “Moggi è un despota con gli atteggiamenti di Humprey Bogart nei panni di un gangster, è venuto qui con l’idea che fossimo tutti coglioni”. Il maestro del sottinteso dipinto da Aldo Grasso: “Moggi è inquietante: per questo tutti lo temono, per questo gode di grande rispetto. Lui non parla, allude. Non discute, attacca. Non interviene, intimorisce. Sembra il fratello di Tano Cariddi, il faccendiere mafioso della Piovra”.
E ancora, l’entità dall’influenza sovrumana che molti anni prima di Totti, un altro dieci di talento, Pietruzzo Maiellaro, aveva descritto con parole semplici: “Qui le gare si perdono prima di entrare in campo” o il cantore di uno stile che non lasciava nulla al caso e dettava legge persino sulle scarpe della divisa sociale: “Perché so’ democratico, ma me piace che se fa come dico io”. Se solo fosse ancora vivo, dell’usurpatore che con sandali e saio parla a nome suo, il vero Moggi saprebbe come liberarsi. Lo schiaccerebbe come i “bacherozzi” di qualche indimenticabile telefonata del tempo che fu, lo esorterebbe a una sincerità terrigna: “Facciamo a pigliarci per il culo?”, ristabilirebbe l’antico ordine del focolare toscano di Monticiano : “Lo sculaccio” intimando al suo gemello, al ladro di identità, di “non rompere i coglioni”. Speranza vana. Nella parodia dello statista di oggi, del Moggi di ieri non c’è più traccia. E i suoi discepoli, proprio come i tre galeotti disegnati dai fratelli Coen, gridano la loro solitudine: “O fratello, dove sei?”. Luciano non veste più divise a strisce. Nell’ora d’aria, moltiplicata come gli incassi di certe trattative d’annata, Moggi ara più campi. Si applica. Studia. Motteggia. Parla, scrive, discetta dell’universo mondo. Passa da Ebola all’Is, dal reale valore di Tevez all’accento livornese di Mazzarri. Costeggia i sentimenti, arringa la platea flautando di giustizia e ingiustizia, filosofia e arte varia. Perso per un deprecabile malinteso l’ultimo treno per Montecitorio (Stefania Craxi, con intenzioni alate: “È il simbolo di una persecuzione”, nel 2013 l’aveva anche candidato: “È stato il più grande manager sportivo italiano e la sua vita è stata distrutta da un’operazione giustizialista”) per recitare da vergine laica, Moggi ha trovato comunque altri scranni. Lo chiamano a votare da radio, tv e quotidiani su qualsiasi argomento a giorni alterni e il senatore Luciano Moggi, 77 anni, non si tira indietro. Da ex caudillo, è diventato gregario di un’altra parata. Un po’di oblio, un po’ di abiura mascherata, ed ecco pronto il Luciano opinionista. A orchestrare, come all’epoca bella, non è più lui e si vede. Noia generalizzata, richiami a un’indefinita età dell’oro, buon senso alternato al consiglio su come cucinare a dovere lo spaghetto. Luciano preme il bottone. Innesta la marcia. Urla indignato “Sciacquatevi la bocca” come già Renzi con Grillo a proposito di Berlinguer, ma gli scenari sono mutati e il nostro sembra farlo a comando. Gli hanno trovato un ruolo. Gli hanno disegnato uno spazio. E lui ha patteggiato.
In cantina tutte le brutte storie che ne hanno lordato la fedina e in cambio dell’assoluzione, Don Luciano Moggi, parroco della anime prave a sua volta redento, ha rinnegato il suo passato western e si è calato sul volto la ripugnante maschera del buono a tutti i costi. Anche se i muri sono caduti e i miti imbiancano, il profilo senile di Paletta, vicecapostazione alla stazione di Civitavecchia nei Sessanta, avrebbe meritato più di questa pantomima al sapor di caminetto. Moggi i treni li prendeva e li faceva prendere. Comprava. Vendeva. Teneva inganno e mezze verità in equa considerazione e non faceva sbadigliare mai. Conosceva il ritmo dello show e ci sguazzava felice. Truccava il mazzo delle carte e minacciava alla bisogna, Lucky Luciano, certo. Almeno quanto oggi strania l’uditorio. Perché al giocatore d’azzardo che ammonisce le generazioni future sul demone del vizio, si fatica a dare retta. Moggi è diventato prevedibile. Scontato. Il disco della vergogna di Calciopoli, la dietrologia del complotto per “il processo farsa”, la negazione di un quarantennio di potere che nel ricordo stinge a bagattella. All’epoca d’oro, quando saltava da un club all’altro scendendo sempre dal taxi a tempo debito, nessuno sapeva davvero cosa facesse il Moggi originale. Non i calciatori, non Agnelli (che della cessione di Vieri fu ad esempio l’ultimo a sapere) e nemmeno gli allenatori, perché Moggi era uno e trino e qualche volta, faceva la formazione della Juventus e dei suoi mille satelliti in assoluta libertà. Aveva indirizzato i destini di Paolo Rossi, Gentile, Scirea e Roberto Pruzzo.
Era il più bravo, il più spregiudicato e se gli dicevi mascalzone ti pagava anche da bere. Adesso legge i Vangeli, ma non agita il randello e non li interpreta più a modo suo: “Chi fa del male si ritroverà in mezzo al male”. Sbadigli. Lacrime. Amen.