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 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

GLI SQUATTER PERBENE CHE SOGNANO IL NUOVO CINEMA AMERICA

GLI SQUATTER PERBENE CHE SOGNANO IL NUOVO CINEMA AMERICA –
È l’ossimoro dell’eversione benedetta, il cinema America. È un caso di scuola all’italiana di occupazione per bene, la rivolta di Stato sgombrata dalla polizia ma celebrata da Giorgio Napolitano in quirinalese: «Non può che considerarsi altamente positivo sotto il profilo della storia e della cultura cinematografica...». Ma l’occupazione, che cominciò il 13 novembre del 2012 e per il ministro Franceschini è «preservazione del territorio», è stata anche una lunga violazione del diritto di proprietà del signor Simone Paganini e dell’ingegnere Victor Raccah che infatti dice: «Ci danno addosso. Qui sono innocenti tutti, anche quelli che calpestano i diritti fondamentali. Solo noi siamo i banditi perché siamo proprietari». E però lo Stato che protegge e, attraverso il presidente della Regione Zingaretti promette «staremo al vostro fianco, non vi abbandoneremo», è anche lo Stato che reprime. E infatti la Procura ha cacciato con la forza i civilissimi incivili guidati da Valerio Curcio e Valerio Carocci, 22 anni, più Nouvelle Vague che Racailles de banlieue, più Truffaut che Lars Von Trier, al punto che persino i post-it di protesta che ieri hanno invaso Trastevere sono 400, come i colpi: «Sono arrivati alle 6 del mattino, 60 poliziotti in tenuta antisommossa, 7 camionette. C’ero solo io che dormivo». Adesso sono asserragliati in un locale adiacente al cinema, un ex panificio che un ragazzo di Trastevere ha dato loro in comodato d’uso. Sullo sfondo c’è un murales pretenzioso che non abbellisce, con una grande A che non è Anarchia ma America. I due Valerio e i loro cinefili non appendono foto del Chiapas e di Che Guevara ma locandine del Marchese del Grillo e dei Soliti Ignoti. E dove i ragazzi dei centri sociali sporcano, loro puliscono. Attraverso questi locali abusivi non sono passati i brividi e le vertigini dell’Impero di Toni Negri ma le partite della Roma e della nazionale, qualche libro d’esibizione, da Gramsci a Geymonat, niente alla cool, una sala computer, film recuperati, magliette che somigliano a quelle confindustriali: «Hic sunt leones». Solo il linguaggio di Valerio è social-epico e allegramente astruso: «Vogliamo diventare protagonisti e non fruitori; difendiamo la proprietà privata ma anche il progetto di spazio polivalente; offriamo ai giovani un percorso alternativo alla movida violenta. Noi non vogliamo tutto, ma vogliamo essere tutto». E però il Codice non riconosce lo squatter virtuoso, il rammendo fuorilegge nel degrado di Trastevere che forse piacerebbe a Renzo Piano: «Abbiamo fatto una colletta e siamo riusciti a mettere a posto il pavimento e il tetto. E adesso abbiamo pure un cordata di aspiranti compratori guidata dal produttore Carlo Degli Esposti», quello di Montalbano. E, come sempre, quest’America è anche un caso di evidente demagogia: il cinema italiano, che fa davvero pochi bei film, si è mobilitato compatto perché vuole nel cuore di Roma una Ramallah di celluloide, il campo profughi degli sfrattati da Cinecittà, degli esuberi del Centro sperimentale, dei fantasmi delle 50 sale chiuse a Roma per mancanza di spettatori. E non solo quelle trasformate o in trasformazione, dal Metropolitan (Benetton) al Roge et Noir (un bingo) all’Etoile di San Lorenzo in Lucina, piano terra dello storico palazzo Ruspoli di proprietà della contessa Daniela Memmo. Nel 2012 i francesi di Vuitton riuscirono, con un accordo con il Campidoglio di Alemanno e un aiuto economico proprio al Centro sperimentale di cinematografia, a farne il loro più sontuoso negozio d’Europa, scandalizzando persino Dagospia, ma non i registi, gli attori e i cineasti che oggi protestano per l’America.Sono una quarantina i cinema chiusi, in qualche caso da decenni, con il catenaccio: il Rivoli di via Veneto, il Maestoso sull’Appia, il Volturno, l’Espero, sino all’incredibile Airone nel quartiere Caffarella, progettato da Libera e dipinto da Capogrossi, di proprietà del Comune e non di Paganini e Raccah.Ogni tanto, nell’ombra e nel silenzio della notte romana, in questi cinema arrivano gli squatter: i pirati della danza, i cinefili erranti, le maestre senza asilo o i semplici homeless, il cui sgombero, quando «l’aria odora / de matina abbonora» non fa mai notizia, anche se sono i soli che prendono botte. Massimo Arcangeli, segretario dell’Anica, mi dice disperato che le sale «hanno bisogno di aiuto e di almeno un poco di quella solidarietà delle istituzioni che si riversa sugli occupanti dell’America, che sono pure bravi e hanno fatto tante cose lodevoli, mostre, dibattiti, proiezioni, ma senza rispettare le regole». Inaspettatamente anche il proprietario dell’immobile tesse le lodi e non solo «alla qualità del lavoro» ma anche allo «stile moderato» degli squatter: «Ho 58 anni, se ne avessi trenta di meno sarei sicuramente con loro e tra loro. Anche io sognavo da ragazzo. Ma, guardi, pure se quel cinema non fosse nostro, ora mi batterei come un leone per difendere il diritto dei privati. Quello non è uno spazio pubblico. È facile fare i rivoluzionari in casa d’altri e con i soldi degli altri». L’ingegnere Raccah vuole farne appartamenti, «almeno un garage se gli scavi non ci porteranno a scoprire preziose antichità», e prevede che «tutto il piano terra, vale a dire più della metà dell’intera superficie, che è di 1650 metri quadri, venga adibito a spazi culturali come richiede il Piano Regolatore». Ma il ministro Franceschini «ha messo i vincoli sugli arredi». Secondo lui «per compiacere gli occupanti». La battaglia legale dei ricorsi è cominciata, l’America è la palude di ogni genere di diritto italiano, anche quello storto.Il solo a non esporsi è il sindaco Ignazio Marino che dialoga con i proprietari ma non risponde alle ‘lettere aperte’ portate al Campidoglio in bicicletta: «Spero che dia un cenno di vita» ha detto Ettore Scola. Come al solito Marino sbaglia la misura: stracanta e stecca all’Opera e fa cinema muto all’America, dove tutto è fuori misura, spettacolo da grande schermo. Paolo Sorrentino minaccia di restituire la cittadinanza onoraria. E Salvatores, per non essere da meno, di restituire l’Oscar, che ovviamente non c’entra nulla, ma al cinema è un effetto speciale. E si sentono offesi Rosi, Verdone, Montaldo, Virzì. E poi Bertolucci, Servillo, Garrone, Alessandro Gassman, Gregoretti e, scendendo e allargando, si arriva agli eterni precari e alle comparse, agli occupanti di professione, ai sodali dell’orchestra dell’Opera e degli sgombrati del Valle, i facili bersagli del renzismo di risulta, i parenti dell’orso in rottamazione, i tagli della pellicola. E ci sono pure quelli che fanno la smorfia a Gian Maria Volonté e Carla Gravina, come Elio Germano, il Leopardi con il pugno chiuso, o Sabina Guzzanti, che ieri ha twittato così: «Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto. I traditori delle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi». Insomma ci sono i lavoratori dello spettacolo che in sindacalese da bacheca vogliono (copio testualmente) «rilanciare la battaglia per conquistare un’acquisizione pubblica e partecipata e ripristinare e rendere permanente la fruizione, la condivisione e la diffusione della cultura libera e accessibile a tutti». Chiedo ad alcuni antagonisti, di quelli che preferiscono i centro sociali Acrobax e Forte Prenestina e sfilano con lo slogan «Renzi schiavista / sei il primo della lista». Mi dicono che «quelli dell’America hanno ragione anche se sono ragazzi ben nati, figli di gente di cinema». Lo racconto a Valerio che si mette a ridere e giura che «nessuno tra noi ha parenti che lavorano nel cinema, e semo tutti poveracci». Cos’è, indivia? «Si, invidia di estrema sinistra».
Francesco Merlo