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 2013  ottobre 10 Giovedì calendario

LA STRATEGIA DEI TERRORISTI DOPO IL MASSACRO DI NAIROBI


Il Kenya ha tirato un sospiro di sollievo collettivo quando è finalmente terminato l’assedio di quattro giorni al centro commerciale Westgate di Nairobi. Eppure le conseguenze della strage si stanno rivelando, per molti versi, drammatiche - e raccapriccianti - quanto l’evento stesso.
La raffinatezza del piano ha sbalordito gli investigatori. Gli aggressori - membri del gruppo estremista islamico somalo al-Shabaab – hanno impiegato settimane nella ricognizione del sito. Conoscevano ogni uscita e ogni rifugio sicuro e pare avessero preso in affitto un negozio, dove avevano predisposto munizioni, esplosivi e armi pesanti. Il loro uso dei social media è un caso esemplare di virtuosismo digitale.
Gli aggressori hanno formulato una richiesta chiara: il Kenya deve ritirare le truppe dispiegate due anni fa come contributo all’intervento internazionale per sradicare al-Shabaab dalla Somalia e restituire il Paese alla legalità e a una parvenza di vita normale. La loro azione, hanno detto, era intesa soprattutto come un avvertimento al governo del Kenya: cambia la tua politica, o saranno guai. Gli aggressori hanno anche tenuto a comunicare a tutto il mondo che avevano prestato speciale attenzione a salvaguardare la vita dei fratelli musulmani durante l’assalto.
Ditelo a una collega qui a Nairobi, che è stata intrappolata nel centro commerciale per cinque ore in mezzo alla sparatoria. Ne è uscita illesa solo per scoprire che due membri della sua famiglia erano morti e un terzo ferito. Il sopravvissuto è un bambino di nove anni, colpito all’anca. Mentre giaceva sanguinante, i terroristi hanno giocato al tiro al bersaglio con sua madre e la sua sorella quindicenne.
Recitate un passo del Corano, hanno ordinato. Erano musulmane, l’hanno fatto. I terroristi le hanno uccise lo stesso. «Perché l’avete fatto? Perché avete sparato?», ha chiesto il bambino in lacrime. «Perché – ha risposto uno degli uomini armati – non indossavano l’hijab». Nel caos generale una donna francese ha afferrato il bimbo e l’ha portato in salvo.
Abbiamo sentito molte storie di questo genere in questi giorni. Per quanto siano brutali, probabilmente non sono ancora il peggio.
È importante capire che cosa è in gioco in questo episodio raccapricciante, non solo per il Kenya ma per la regione e oltre. Il presidente Uhuru Kenyatta ha chiarito quasi subito che gli eventi della scorsa settimana non indeboliranno la determinazione del Kenya nel proseguire la sua politica in Somalia, anche se ha confermato che anche lui ha perso dei congiunti nella strage di Nairobi.
I signori della guerra di al-Shabaab non sono l’unica minaccia per la sicurezza della regione. Oggi, l’area di crisi va dalla Somalia sull’Oceano Indiano attraverso il Sahel africano fino alla costa atlantica.
Il Sudan, un altro Paese confinante con il Kenya, è spaccato dalle rivolte. Nel Sud, i gruppi secessionisti combattono nel Kordofan e sul Nilo Azzurro. A Ovest, nel Darfur, durante l’assedio di Nairobi, i manifestanti hanno bruciato edifici governativi nella capitale della provincia di Nyala.
Giorni dopo sono scoppiate sommosse nelle città di tutto il Sudan, compresa la capitale, Khartoum. Secondo i rapporti le forze di sicurezza hanno ucciso più di 100 persone, da aggiungere a un elenco di vittime che ha fatto di quest’anno uno dei più letali nella storia recente del Sudan.
I diplomatici seguono con allarme questi sviluppi. Nel corso dell’ultimo anno, il Darfur è sfuggito al controllo del governo. Quello che succede al Darfur, secondo molti analisti, toccherà al Sudan.
Lo stato delle cose è altrettanto preoccupante in tutto il Sahel. Il Mali è stabile, per ora, ma i ribelli separatisti Tuareg nel Nord del Paese hanno appena sospeso la loro partecipazione ai colloqui di pace e molti esperti ritengono che sia solo una questione di tempo prima che il conflitto si riaccenda e si estenda. I boss della droga e i signori della guerra locali controllano aree sempre più vaste del territorio, della Guinea alla costa atlantica attraverso il Senegal, il Mali, il Niger e oltre. La Libia è già stata spartita tra i signori della guerra rivali, con un governo «nazionale» che opera solo grazie all’indulgenza dei gruppi armati che lo appoggiano.
In questa situazione la posta in gioco nella lotta contro il terrorismo in Kenya e proveniente dalla Somalia è alta. Non è una lotta che il Kenya dovrebbe affrontare da solo.