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 2013  ottobre 10 Giovedì calendario

YELLEN, UNA DONNA PER LA FED VERSO L’EXIT STRATEGY

Un conto era Ben Bernanke. Un conto è Janet Yellen. Il futuro della Federal Reserve sarà nelle mani di una donna. Sarà lei, con ogni probabilità, a dare il via al tapering del Quantitative easing 3 (QE3), la riduzione degli acquisti mensili di titoli da parte della Fed, ora fissata a 85 miliardi di dollari al mese. Tre le priorità: stabilizzare l’economia statunitense, ridurre la vulnerabilità del sistema finanziario americano, evitare che il tapering impatti sull’economia globale. Tre sfide non facili.

Quello che è sicuro è che il ritiro della liquidità, sotto la Yellen, sarà più graduale che mai. Bernanke ha lanciato la forward guidance, ma sarà la Yellen a dover iniziare, quasi sicuramente, il tapering del QE. L’orizzonte temporale per l’avvio dell’exit strategy si sposta quindi sempre più oltre. Niente settembre, come si ipotizzava da maggio, quando Bernanke parlò di possibile uscita dagli stimoli monetari. Niente ottobre, complice lo shutdown e la conseguente mancanza dei dati sulla disoccupazione a cura del Bureau of Labor Statistics. Ma probabilmente niente assottigliamento dei volumi mensili del QE3 fino al 2014, nonostante sia molta la tentazione dei membri del Federal open market committee (Fomc), il braccio armato della Fed. Troppi rischi. Troppi squilibri. Troppe partite ancora aperte.

Ma quanta liquidità c’è nell’universo finanziario mondiale? Troppa. Nell’agosto 2007 il bilancio della Fed aveva asset per circa 869 miliardi di dollari. Dopo il collasso di Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008, si passò rapidamente da 1.000 miliardi di dollari ai 2.074,205 miliardi registrati il 5 novembre 2008. L’ultima rilevazione della Fed, datata 2 ottobre scorso, vede asset per 3.747,387 miliardi di dollari. E a questi vanno aggiunti i programmi straordinari messi in campo da Banca centrale europea, Bank of England, Bank of Canada. Il tutto senza scordarsi della Bank of Japan, che tramite l’Abenomics raddoppierà la propria base monetaria, portandola da 135.000 miliardi di yen a 270.000 miliardi nel 2014, cioè da 1.430 miliardi di dollari a 2.860 miliardi. Tutti soldi che sono stati riversati sui mercati nel tentativo di contenere gli effetti del post-Lehman Brothers.

La Yellen si trova in questa trappola, quella della liquidità. Tuttavia, non bisogna strettamente considerarla come faceva John Maynard Keynes, ovvero che nel lungo periodo le continue iniezioni di liquidità avrebbero avuto un impatto decrescente sull’economia reale. In questo caso è diverso. Gli stimoli monetari sono serviti. Da un lato hanno rivitalizzato parte dell’economia statunitense, anche se ancora rimangono svariate zona d’ombra. Dall’altro, però, hanno reso gli investitori fortemente dipendenti dalle banche centrali. Un cordone ombelicale di ritorno che non sarà facile da recidere. Una volta drogati i mercati la prima volta, e una volta che gli investitori hanno compreso che potevano avere denaro a basso costo per ripagare le perdite patite dopo Lehman e stabilizzare l’attività di deleveraging, lo straordinario ha preso il posto dell’ordinario. Vale a dire che la dipendenza degli agenti finanziari dalle decisioni delle banche centrali è ormai arrivata a livelli distorsivi. Come ha ricordato la Federal Reserve di Chicago in un paper di inizio anno, «l’interconnessione fra le scelte finanziari degli operatori e le decisioni della Fed è diventata così intensa da essere ormai rilevante a livello sistemico». Ciò significa che, volente o nolente, la Yellen deve evitare di urtare l’economia globale. Le conseguenze sulla domanda aggregata, complice il fisiologico rallentamento degli Emergenti, sarebbero negative pure per l’America. Ma, allo stesso tempo, potrebbe essere il contrario. Il legame fra Usa e resto del mondo è sempre più fitto, specie da un punto di vista delle interdipendenze finanziarie.

Ancora una volta, gli Stati Uniti potrebbero essere l’epicentro della crisi. Questo perché, affinché ci sia un ritiro sostenibile della liquidità della Fed, c’è bisogno che gli attori finanziari abbiano a disposizione una serie di valvole di sfogo. Dei succedanei del QE3, insomma. Uno di questi potrebbe essere il mercato dei repurchase agreement (repo, o pronti contro termine). Tuttavia, sia nell’eurozona sia negli Stati Uniti le banche stanno avendo sempre maggiori difficoltà ad accedere a questo genere di funding, che è di primaria importanza per qualunque presa di posizione sui mercati. Nonostante le condizioni generali stiamo migliorando - minori costi di accesso, miglior qualità degli asset - la situazione, specie nell’area euro, è lungi dall’essere stabile. La vulnerabilità agli shock è elevata, come ricorda anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel Global financial stability report (Gfsr) di oggi. Un circolo vizioso che può costare caro.

In un mondo che è diventato schiavo delle misure non convenzionali di politica monetaria, la fine del QE può costare più del previsto. Secondo il Fmi, un ritiro degli stimoli monetari esistenti può costare fino a 2.300 miliardi di dollari. Colpa dell’innalzamento medio di un punto percentuale del rendimento dei bond governativi. L’impatto potrebbe essere una perdita del 5.6% su ogni portafoglio obbligazionario, dai Paesi emergenti a quelli sviluppati. Tradotto: 2.300 miliardi di dollari di perdite. Una cifra impressionante, specie se paragonata ai costi del deleveraging bancario, che fra il 2011 e il 2015 costerà alle sole banche europee circa 2.500 miliardi di euro. È per questo che l’istituzione guidata da Christine Lagarde, nella presentazione dell’ultimo aggiornamento del Gfsr, ha messo in guardia gli Stati Uniti. Un messaggio diretto alla Yellen. Sono due i rischi maggiori, il primo interno, il secondo esterno.

La situazione congiunturale dell’America è ancora precaria e ci sono diverse zone d’ombra. La più pericolosa è rappresentata dagli mREITs, o mortgage real estate investment trust. Si tratta, come aveva ampiamente spiegato Linkiesta nello scorso luglio, di particolari fondi che comprano, impacchettano e vendono mutui. Niente di male, fino a quando i mutuatari smettono di pagare le rate. Il valore di questo settore è passato dai 160 miliardi di dollari del 2009 ai 460 miliardi relativi al solo primo trimestre dell’anno, secondo i calcoli di Fitch. Il problema è legato al QE3, l’attuale versione della politica monetaria espansiva della Fed. Dato che il target degli acquisti mensili è su Treasury e su Mortgage-backed security (Mbs), e considerato che questi ultimi sono alla base dei mREITs, un assottigliamento del QE3 potrebbe ridurre gli spazi di manovra di questi strumenti finanziari, usati dalle banche come significativa fonte di funding. E visto che anche i Money market fund (Mmf), cioè i fondi del mercato monetario, utilizzano gli mREITs come pozzo per il finanziamento a breve, il tapering del QE potrebbe diminuire la solidità sistemica dell’universo finanziario statunitense.

Poi c’è il secondo problema, il reflusso sui mercati emergenti. In questo caso bisogna partire da un punto ben chiaro: il 63% delle riserve valutarie globali è rappresentato dai dollari statunitensi. Che siano i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) o i Mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia), la sostanza non cambia. Le banche centrali di questi Paesi hanno un’esposizione significativa sul dollaro. Per esempio, una fetta considerevole dei mutui turchi è denominato in dollari. Ed è chiaro che il tapering del QE3 potrebbe impattare anche su questo settore, a cascata. Per questo, con una mossa tanto lucida quanto lungimirante, il governatore della Reserve Bank of India, Raghuram Rajan, ha deciso di innalzare il tasso d’interesse principale di un quarto di punto, fino al 7,50%, e poi abbassare quello per le operazioni di rifinanziamento delle banche, portato dal 10,25% al 9% in poche settimane. Rajan spiegò che non c’era altra scelta: «I costi di funding per gli istituti di credito indiani sono troppo alti e il tapering della Fed potrebbe essere dannoso per tutto il sistema bancario». Un ragionamento logico, che si avvicina a quello fatto dal Fmi, che sta chiedendo a gran voce che la Fed calcoli al meglio le proprie mosse. Con la sua perizia nel leggere i segnali dei mercati finanziari e la sua capacità nel prevedere l’andamento congiunturale, la Yellen potrebbe essere la persona giusta. Potrebbe.