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 2013  settembre 30 Lunedì calendario

BERNHARD, LA DIFFICILE ARTE DI ESSERE CONTRO QUALSIASI COSA

Ogni volta che leggo o rileggo un libro di Thomas Bernhard (1931-89) mi domando come sarebbe stato se fosse nato qui anziché lì, nell’odiata Austria, nella quale «tutto è sempre contro qualsiasi obiettivo», sembra proprio l’Italia. Un paese simile a «un insieme di mura e di persone in cui si è agito senza pensare, si è agito così per secoli». A leggere dell’Austria culturalmente annichilita, contro cui si rivolta Bernhard in ogni suo romanzo, viene in mente la fila dei nostri autori subito addomesticati dai premi, le giulive conventicole, questi romanzini a buon mercato sempre consolatori, o peggio impegnati, cioè impegnati a non produrre opere assolute, a non proporsi come obiettivo «l’immane». Gli austriaci Thomas Bernhard non riuscirono a tenerlo buono neppure agli esordi, conferendogli i prestigiosi Premio Büchner e Premio Grillparzer, altro che Strega e Campiello. Ma Bernhard è una macchina da guerra incapace di compromessi. E Correzione, il suo terzo romanzo uscito nel 1975 e finalmente ripubblicato da Einaudi, è uno dei suoi massimi capolavori, dentro c’è già tutto: la ribellione artistica, l’oppressione della famiglia, il disprezzo per la cieca brutalità della procreazione, l’attacco frontale ai rapporti umani e alla natura, «quell’elemento incomprensibile che mette insieme le persone, le porta a scontrarsi con violenza, con ogni mezzo, affinché queste persone si distruggano, si annientino, si uccidano, si mandino in rovina».
Un buco nero aperto in una trama semplice in grado di scavare nel cervello del lettore con l’inconfondibile stile martellante e ripetitivo di Bernhard, un ragno che tesse la sua tela ripassando sugli stessi fili per portarti al centro completamente immobilizzato. È la storia di uno scienziato, Roithamer, che decide di costruire un edificio utopico, un cono, o meglio una casa­cono per la sorella. Il cono, appunto, come metafora dell’immane, del perseguimento ineluttabile di un’idea folle. «Già la formulazione dell’idea annienta la maggior parte delle persone, così Roithamer. E l’immane è l’opera d’arte della vita, comunque sia l’immane, e ognuno ha la possibilità di arrivarci, perché la natura stessa è sempre questa possibilità, bisogna affrontarlo e portarlo a termine solo con tutto il proprio sé». Affinché si possa «vivere nel nostro mondo, non in quello che c’è dato». In una società dove la maggior parte delle persone sopravvivono per abitudine, e «invece di suicidarsi le persone vanno a lavorare ». Infatti, aggiungerei, quando perdono il lavoro si suicidano.
È il simbolo dell’ossessione artistica consapevole, la costruzione razionale di un ideale contrapposto all’entropia del mondo, alla mediocrità umana e genetica dei comportamenti (Roithamer, non a caso, è un genetista), all’inerte ripetizione dell’uguale. È la necessità esistenziale di vivere perseguendo un progetto estremo, «perché all’improvviso siamo tutto ciò che è estremo, così Roithamer». L’opera realizzata al limite delle proprie forze e di ogni limite, contro la mediocrità del quieto vivere, del tirare avanti. Infatti «i più preferiscono lasciarsi annientare dall’immane anziché affrontarlo, perché la loro natura non è tale da poter affrontare e portare a termine l’immane, è una natura che viene annientata dall’immane prima di affrontarlo», e di conseguenza «il novanta per cento degli esseri umani prima di morire hanno vissuto solo in un mondo a loro dato, adattato e dato dai loro genitori e dai loro collaboratori». I collaboratori dei genitori, geniale.
Elogio dell’inquietudine e dello scontro vitale, perché «la pace non è vita, così Roithamer, la pace e la pace assoluta è la morte, così Pascal, così Roithamer». E anche la rappresentazione più tragica del fallimento, della disillusione, l’impossibilità della felicità opposta alle forze inesorabili della materia e degli altri, «perché ciò che viene dagli altri è l’opposto». Perfino l’amata sorella di Roithamer, per la cui felicità ha costruito il cono, muore appena vede l’opera, altra metafora dell’incomprensione, la solitudine di ogni volontà di grandezza. Per cui Roithamer lascerà il cono a disfarsi nella natura, impiccandosi. Tuttavia perfino il suicidio non è una soluzione. È solo l’atto cosciente dell’anticipare il«punto determinato» di ogni uomo, la morte, senza alcuna mistica della catarsi, e non prima di aver tentato l’impossibile: questo immane individuale opposto all’immane naturale, per mezzo di estenuanti correzioni, alla ricerca della correzione definitiva, la perfezione impossibile. Ci si uccide, allora, quando in realtà si è già morti, privati di uno scopo, quando non si può fare più niente se non sopravvivere, e senza che a nessuno, agli uomini, all’universo, importi poi niente, perché «possiamo esistere al massimo livello di intensità finché siamo. La fine non è un evento». Così Bernhard.