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 2013  aprile 28 Domenica calendario

IL TRASLOCO DI DIO

Sembra un anatema; e invece è poco più di un trasloco: si trasferiscono gli arredi sacri, si porta via il tabernacolo, si chiude il portone. Dio non abita più qui. A volte rimangono l’altare, qualche crocefisso, gli affreschi. Non importa. Le mura che li circondano e sostengono, da quel momento, non sono più sacre. Sono solamente il perimetro di un immobile vacante, e qualche volta pericolante, a forma di chiesa.
E come tutti gli immobili, prima o poi anche le (ex) chiese possono finire sul mercato: 2.471 euro a metro quadro, ne costa una del 1200 a Careggi, Firenze. «Unico ambiente aperto, 170 metri quadri, con altezza di 8 metri, 1 bagno, portico antistante, colonnato» elenca le sue virtù l’agenzia immobiliare, ammiccando alla «particolare atmosfera», che certo non sfuggirà al suo raffinato acquirente. Assieme alla tacita suggestione di subentrare a cotanto Inquilino.
Se si possono comprare e ristrutturare un vecchio mulino, una torre saracena, un ex casello ferroviario, perché non una chiesa sconsacrata? Il diritto canonico lo consente, lo spopolamento delle campagne e la crisi delle vocazioni lo consigliano. I prezzi oscillano tra le poche decine di migliaia di euro e il milione e mezzo. Mentre le possibilità di riconversione, spesso, non hanno limiti: sale conferenze, teatri, biblioteche, musei nei casi più austeri. Uffici, laboratori, officine, in quelli più pragmatici. Case private, per chi può permettersi le spese di manutenzione. Ma anche locali pubblici, enoteche, esercizi commerciali, per chi considera che nemmeno Gesù avrebbe da ridire sui mercanti nel tempio. Purché ridotto allo stato laico.
Il pittore Valerio Berruti ci pensava fin da bambino: «A scuola, quando c’era da disegnare la propria casa, io disegnavo una chiesa. E non perché volessi farmi prete. Anzi — sorride —, non sono nemmeno credente». A diciotto anni appena compiuti, ce l’ha fatta: ha trovato la sua, l’ex chiesa di San Rocco, e se l’è comprata. A Verduno, paesino delle Langhe, dove il rapporto chiese-abitanti era diventato, negli anni Cinquanta, di una a 71: sette chiese per cinquecento residenti. «Erano in duemila, prima dell’ultima guerra, e aveva un senso. Ma adesso il villaggio non ha più un solo negozio di alimentari, né un bar».
L’ha arredata con un paio di sedie da barbiere, un divanetto rosso porpora, e ne ha fatto il suo atelier. Sarà un caso, naturalmente, ma il luogo gli ha portato bene. Per quel senso di sacro e soprannaturale, che neanche mezzo secolo di abbandono era riuscito a diluire, è stata quella navata — l’occupante non ne dubita — a ispirare la sua creazione. Fino a condizionarla.
«Nella mia pittura non c’è il giallo — fa notare Berruti —, perché stona con la tinta prevalente dei muri, l’ocra». E forse proprio per la sensazione di non aver scelto cento metri quadrati qualsiasi, il pittore — oggi trentaseienne — si è assicurato anche la canonica, come domicilio, e ha coltivato l’arte di arrangiarsi: «Ho smesso di studiare, ho cominciato a lavorare dipingendo trompe-l’oeil su commissione nei locali piemontesi per pagarmi i lavori di restauro. Per rifare il tetto, ho decorato i caschi delle Harley-Davidson». Le vie del Signore sono infinite.
Ma Valerio Berruti ha chiuso definitivamente con la decorazione d’interni (e di elmetti da motociclista) non appena la sua chiesetta seicentesca è stata pronta per il nuovo utilizzo e le sue quotazioni sul mercato dell’arte hanno reso meno problematico il pagamento delle bollette per il riscaldamento: «Il soffitto è alto dieci metri» allude, e com’è noto il calore tende a salire.

Da quando l’ultimo sacerdote ha lasciato Verduno, il parroco di un paese vicino si sdoppia per celebrare anche nella piccola comunità, che ha imparato a non diffidare del pittore e, perfino, a sorseggiare un bicchiere di rosso in una delle altre chiese sconsacrate, riadattata come sala di degustazione di vin santo e profano.
Eppure non è stata la crisi economica, e forse neanche la penuria di pastori o l’assottigliamento del gregge, a indurre le diocesi ad alienare parte del loro patrimonio edilizio: le sconsacrazioni non sembrano essere in aumento, ma il tutto si affida alle sensazioni di chi se ne occupa, perché non esiste e non è mai esistita una contabilità al riguardo. Ognuna delle 225 diocesi decide per sé, a norma di Codice di diritto canonico.
«Nel Nord Europa il fenomeno è più vistoso. Lo abbiamo letto anche in queste settimane. Ma in Italia no, anche per la resistenza dei fedeli, che sono comprensibilmente attaccati ai luoghi di culto di tutta una vita» considera monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana. «In Germania — informa don Stefano Russo, direttore dell’Ufficio beni culturali della Cei — molte chiese sono diventate biblioteche, ma anche bar o ristoranti, e in qualche caso depositi di urne cinerarie; in Italia le chiese di proprietà ecclesiastica sono più o meno 65 mila, forse 70 mila, a volte non più adibite al culto semplicemente perché irraggiungibili in zone appenniniche disabitate. Ci sono parrocchie alle quali fanno capo una ventina di chiese, in ciascuna delle quali è materialmente impossibile celebrare la messa più di una volta all’anno».
Non è il Vaticano a decidere quando è giunto il momento di disfarsene: «La decisione spetta al vescovo, con un decreto. Ma se si tratta di un edificio di valore storico o artistico, che riveste interesse culturale anche per lo Stato, interviene la Sovrintendenza ai beni architettonici — spiega ancora don Russo —. Con diritto di prelazione nell’eventuale compravendita».
Senza contare che, nel variegato mondo immobiliare sacro o secolarizzato, ci sono già molte proprietà pubbliche e private. La Santa Sede interviene solamente quando il valore dell’edificio supera il milione di euro, cioè nella minoranza dei casi, per l’indispensabile «bolla pontificia». «Non sempre una chiesa è sconsacrata, anche se occasionalmente viene adibita ad altri usi, preferibilmente culturali, come mostre o concerti. Può esserci un uso promiscuo e la concessione per alcuni eventi aiuta la diocesi a sostenere le spese di manutenzione», ricorda l’architetto Laura Gavazzi, che sta curando il primo censimento nazionale di tutte le chiese esistenti sul territorio: «Catania è stata una delle più tempestive nel trasmetterci i suoi dati, forse lì hanno un quadro più esauriente della situazione».
«Su 158 parrocchie, nei confini comunali e nella fascia pedemontana dell’Etna, abbiamo cinque chiese chiuse al culto, ma per noi definirle sconsacrate è improprio — osserva Grazia Spampinato, vice direttore dell’Ufficio diocesano per i beni culturali —. Tre sono abbandonate, ma se si trovassero nuove risorse finanziarie potrebbero essere riaperte e ripristinate. San Giuseppe al Duomo, chiusa 20 anni fa, è diventata per esempio una sala convegni; mentre la chiesa dei Santi Giorgio e Dionigi ospita conferenze. Poi c’è stato il caso dell’ex parrocchia del Divino Amore: volevano farne un pub, ma c’è ancora il fonte battesimale, nonostante non sia più utilizzata da dieci anni, e le trattative sono state interrotte. Qui a Catania non è pensabile, così come non ci sono, da noi, chiese convertite in abitazioni private».
A Milano ce n’è almeno una, in via Piero Martinetti, zona Gambara: nelle absidi romaniche dell’ex chiesetta del Molinazzo, dedicata ai santi Filippo e Donato e risalente al XIII secolo, ora abita la famiglia che ne è divenuta legittima proprietaria alcuni anni fa. Circondata dai condomini di otto o nove piani che la piccola chiesa romanica ha visto crescere a metà del secolo scorso.
E a Venezia una delle circa trenta chiese passate ad altra vita è diventata il salotto del presidente onorario della Camera nazionale della moda, Beppe Modenese, e dell’architetto Piero Pinto.
Centri sociali, emeroteche, aule dell’Accademia di Brera, teatri: soprattutto in centro, le chiese sconsacrate di Milano trovano rapidamente un’altra occupazione. Magari notturna, come «La Chiesetta» di via Lomazzo e «Il Gattopardo» di via Piero della Francesca, discobar sorvegliati da massicci buttafuori i cui criteri di selezione del pubblico non sono esattamente gli stessi di un sagrestano.
Anche i loro interni psichedelici hanno spazio nel repertorio di immagini che il fotografo milanese Andrea Di Martino, 46 anni, sta accumulando da cinque anni in tutta Italia, sotto il fatidico titolo «La messa è finita»: probabilmente il più ricco database di chiese sconsacrate, dal Piemonte alla Sicilia. «Non cerco contrasti scioccanti — premette —, mi interessa la varietà delle destinazioni d’uso di questi edifici non più religiosi». Ne ha girati già una settantina, molto meno di un decimo di quanti, secondo le sue stime, esisterebbero in Italia, e ha trovato agenzie bancarie, magazzini, pizzerie, laboratori di tessitura, aule per consigli comunali, enoteche. Una sala per matrimoni civili, dove santificare (un po’) l’unione sancita dal sindaco. Perfino un’officina meccanica: «Una delle mie preferite — ammette —. Chiusa al culto dal 1989, la Madonna della Neve a Portichetto di Luisago, nel comasco, è un garage dove si riparano automobili. In segno di rispetto, non è mai stato tolto il crocefisso: il meccanico mi ha raccontato che ogni mattina, quando entra, si fa il segno della croce».
Ne hanno raccontate tante al fotografo che chiedeva di ritrarre il cambio d’identità di una navata. Gli hanno raccontato di preti fuggiti con parrocchiane, di dispute fra eredi, di insospettabili, dissacranti retroscena. Leggende (forse), alimentate dall’incapacità di ammettere che il Santissimo possa traslocare. Fosse anche, l’ex chiesa, diventata un cinema a luci rosse. Come il celebre Mignon di Ferrara, protagonista di un recente documentario e racchiuso tra mura di mattoni consacrate nel X secolo e sconsacrate negli anni 40, inizialmente con il più modesto compito di ospitare un magazzino.
«Le variabili sono tante, ma anch’io dubito che ultimamente la sconsacrazione delle chiese sia in aumento — tira le somme il sociologo Marco Marzano, il cui ultimo saggio, Quel che resta dei cattolici, pubblicato da Feltrinelli, lascerebbe sospettare il contrario —. Anche con un crollo verticale dei praticanti, le parrocchie non chiudono, perché le gerarchie ecclesiastiche non vogliono evidenziarlo. In Italia anche i non credenti difendono le chiese, perché fanno parte del patrimonio artistico. Semmai preoccupa il loro degrado. E il loro futuro: mi chiedo se la Chiesa cattolica sarà in grado di finanziarle tutte». Una soluzione alternativa, secondo Marzano, sarebbe quella di affidarla ai laici, ma non per trasformarle in night club: «A Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli ha affidato alcune parrocchie alle famiglie, che svolgono catechesi e corsi di preparazione al matrimonio. Perché no? Suoni alla canonica e viene ad aprirti un bambino». Tra tante sorprese possibili, forse è quella che più piacerebbe anche al Padrone di Casa.
Elisabetta Rosaspina