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 2013  marzo 12 Martedì calendario

ASCESA E CADUTA DI SCHWARTZ SCRITTORE GENIALE MA INFELICE

Tra le riscoperte edi­toriali del 2013, biso­gna senz’altro inclu­dere l’antologia di racconti di Delmore Schwartz edita da Neri Pozza ( Nei sogni cominciano le responsabilità ,
introduzione di Lou Reed, pagg. 268, euro 17; una prece­dente edizione fu pubblicata da Serra & Riva nel 1990). Schwartz è considerato un classico della letteratura ame­ricana ma in Italia è (relativa­mente) poco noto. Scrittore per scrittori, non ha avuto un successo di massa, per altro mai cercato, ma la sua influen­za è stata decisiva per almeno tre generazioni di artisti.
Nato nel 1913 da una fami­glia di ebrei romeni immigrati a New York, il precoce Delmo­re a 25 anni è considerato un maestro di stile grazie al suo primo libro, che include un racconto ( proprio Nei sogni co­minciano le responsabilità ),
un poemetto e alcune poesie. Collaboratore fisso della Parti­san Review , che ospiterà molti dei suoi scritti, negli anni Tren­ta e Quaranta è un punto di ri­ferimento della vita intellet­tuale della città e non solo. Vo­race lettore di Marx, Freud, Nietzsche, Yeats e soprattutto Joyce, intrattiene rapporti con Eliot, tra i primi ad accor­gersi del suo talento. A Saul Bellow ispirerà un intero ro­manzo, Il dono di Humboldt
(Schwartz è il modello di Hum­boldt). Uno dei suoi allievi al­la Syracuse University, Lou Re­ed, scriverà due canzoni in sua memoria. La prima, Euro­pean Son , è nell’esordio capo­lavoro dei Velvet Under­ground (1967), noto come il Banana Album per via della «scandalosa» copertina dise­gnata da Andy Warhol. L’al­tra, My House , apre il disco so­lista The Blue Mask ( 1982). Ro­bert Lowell gli dedicherà una famosa poesia, To Delmore Schwartz , in cui ricorderà i giorni passati insieme a Har­vard. Schwartz, nei versi di Lowell, descrive il suo desti­no: «Noi poeti siamo tristi fin da giovani / per questo ci at­tendono la depressione e la pazzia». Schwartz continuerà a pubblicare e insegnare. Ma sprofonderà proprio nella de­pressione e nella pazzia, ag­gravata dall’alcol. Morirà a 53 anni in un hotel di New York. Per tre giorni nessuno si accor­gerà della sua scomparsa.
In questi racconti, Schwartz fornisce un ritratto impietoso del mondo intellettuale newyorchese; descrive con sarcasmo lo scontro fra gene­razioni; reinventa a modo suo il genere fantastico. Il capola­voro è la storia di poche pagi­ne che chiude la raccolta a cui regala anche il titolo. Un ragaz­zo assiste a un film da incubo. I protagonisti sono i suoi geni­tori al primo appuntamento. Il corteggiamento commoven­te nella sua ingenuità sconvol­ge il giovane, che conosce il fi­nale: un matrimonio infelice, reso ancora più brutto dalla sua nascita. Ah, poter entrare nello schermo, impedire le nozze, evitare il dolore...
Che descriva la rovinosa ca­duta di una ricca famiglia di as­sicuratori ebrei o la miracolo­sa nevicata destinata a trasfor­mare New York in un inquie­tante museo a cielo aperto, Schwartz è interessato innan­zi tutto a sezionare la psiche dei suoi personaggi. Inibiti, in­sensibili, egocentrici. Essi per­cepiscono la distanza tra le aspirazioni e la realtà. Anche la crisi economica serve a Schwartz per far esplodere le contraddizioni: è l’alibi con cui giustificare i propri falli­menti. Eppure è un alibi insuf­ficiente. Ai protagonisti resta sempre il dubbio (la certezza appena mascherata) di valere poco, di essere inadeguati. Schwartz più della storica «Grande depressione» indaga la privatissima depressione fi­gl­ia di una feroce crisi d’identi­tà: «Nessuno esiste davvero nel mondo reale perché nessu­no sa cosa rappresenta agli oc­chi degli altri esseri umani». Forte sembra il ricordo dei rac­conti di Fitzgerald, scrittore molto ammirato da Schwartz. Le analogie tra i due non si fer­mano all’ambito letterario. Hanno infatti biografie tragi­camente simili. I «disadattati» di Schwartz sono spesso colti in situazioni in cui è difficile gestire con na­turalezza i rapporti umani. In ogni racconto c’è un circolo, una festa, un appartamento traboccante parenti, un’aula universitaria, una piazza. I gruppi d’amici, le famiglie, le masse sono l’insieme di nume­rose solitudini. Ognuno è per­so nei suoi pensieri. La comu­nicazione, minata da insicu­rezze ed equivoci continui, prima si riduce a puro non sen­se e poi frana miseramente. La cifra di questi racconti è una rassegnata disperazione appena temperata dall’iro­nia. Colonna sonora di queste pagine potrebbe essere una fa­mosa canzone di Lou Reed, quella Perfect Day in cui la de­solazione è la regola della vita, senza speranza di redenzione e senza tensione al tragico. Al limite ci è concesso il patetico sollievo di una «giornata per­fetta » allo zoo. A pensarci be­ne è terribile. Delmore Schwartz purtroppo deve averci pensato molto bene.