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 2013  febbraio 28 Giovedì calendario

IL FALCO DI CONFINDUSTRIA: ORA LA CGIL CAMBI, CI VUOLE UN SINDACATO ALLA TEDESCA

A passare da falco non ci sta. Alberto Bombassei, patron dei freni Brembo e neparlamentare di Scelta Civica, è stato additato come l’alfiere dell’ala dura del padronato italiano. Avesse avuto una «e» nel cognome si sarebbe trasformata nella classica «kappa», ma l’ex vicepresidente di Confindustria ci tiene a dire che sogna «un mondo del lavoro alla tedesca» con aziende e sindacati fortemente responsabilizzati. «Un Bonanni (Raffaele, segretario generale della Cisi, ndr) nel mio cda lo vedrei benissimo, rappresenterebbe un esperimento positivo». La storia dei rapporti tra il padrone Bombassei e i suoi operai risale al 1961 quando a Paladina, a due passi da Bergamo, apre il primo capannone assieme al padre Emilio, ex direttore di un’azienda meccanica, e al fratello Sergio. «Avevo cinque dipendenti ed eravamo coetanei, 18 anni o giù di lì. Come li scelsi? Erano i genitori che venivano a presentare i loro figli. E le referenze erano semplici: è di buona famiglia». Dalla prima officina uscivano lavorazioni meccaniche generiche, gli operai erano tornitori e fresatori.
Uno dei primi clienti diventa nientemeno che la Innocenti che produceva la Lambretta. «Fornivamo cerniere e valvole e dopo un anno arrivammo ad avere una dozzina di dipendenti». La prima volta che quello che sarebbe diventato il presidente di Federmeccanica incontrò i sindacati risale alla vigilia del Sessantotto. «Era una controparte ostica fatta di cattolici intransigenti, che per non vedersi scavalcati dai comunisti chiedevano l’impossibile. Ma quello che mi mandava su tutte le furie era che fossero poco preparati. Si faticava ad avere un linguaggio comune, a confrontarsi sulle cose».
Il primo accordo firmato nel gruppo Brembo data 1965, un protocollo sottoscritto nella sede della Confindustria per dare solennità al rito. «Erano anni in cui io firmavo pacchi di cambiali per comprare le macchine da usare in azienda, bisognava investire se si voleva stare al passo con il progresso tecnico e alla fine guadagnavo meno di qualcuno dei miei dipendenti». Gli addetti delle officine Brembo venivano per di più dalla Valle Imagna, la più povera della zona, erano figli di agricoltori o boscaioli. «Grandissimi lavoratori, bergamaschi al cubo. Ma parlavano un dialetto incomprensibile. Un capo intermedio dovette mettersi a fare da traduttore». Padroni e operai di allora alla fine facevano la stessa vita. Molta fabbrica, anche al sabato, tanta sobrietà, si direbbe oggi. «La differenza la facevano le ferie. Io mi potevo permettere di andare sulla riviera romagnola o a lesolo (Ve), i miei operai no».
La prima croce sulla scheda elettorale Bombassei la mise sul simbolo del PLI, ma nelle elezioni seguenti vota DC. Come, del resto, la stragrande maggioranza dei suoi operai: «I voti per il Pci erano rari». Ma anche nel microcosmo della Brembo cominciavano a udirsi gli echi della «grande scossa», il Sessantotto aveva come teatro privilegiato le grandi fabbriche e la Dalmine sorgeva a pochi chilometri dagli stabilimenti di Bombassei. Inizia così una stagione difficile, fatta di scontri e profonde incomprensioni. Anche ai cancelli della Brembo qualche volta si passa il segno, qualcuno vuole entrare e i picchetti si fanno duri. «Fortunatamente nel business le cose continuavano ad andare bene. L’Alfa Romeo fu la prima casa a montare i freni a disco sulle vetture. Inizialmente li comprava in Gran Bretagna ma noi ci candidammo a sostituire gli inglesi e ce la facemmo». Dalla produzione generica degli inizi la Brembo comincia a diventare un’azienda specializzata che scommette sull’innovazione. Una linea di condotta che porterà molto tempo dopo a lanciare il Kilometro Rosso, l’incubatore di innovazione che si vede sulla A4 e che serve a trasferire tecnologie e metodi d’avanguardia alle Pmi.
«Quali sindacalisti ricordo? Sicuramente Savino Pezzetta, anche lui bergamasco doc, seguiva le aziende tessili e aveva la fama di duro. Ma anche in casa Cgil ho il ricordo, successivo, di persone con le quali si poteva discutere. Da dirigente nazionale della Confindustria ho conosciuto Guglielmo Epifani e con lui ho avuto scontri dialettici di ore. Ma il dissidio non si è mai trasformato in rissa o mancanza di rispetto personale. Nelle persone apprezzo le idee ma anche l’educazione e la proprietà di linguaggio».
Con il cambio del posizionamento commerciale dell’azienda di Bombassei muta anche la composizione della forza lavoro. In fabbrica aumentano i tecnici, che venivano formati all’istituto Esperia di Bergamo. «Il primo ingegnere assunto da noi è del 1972, Silvio Manicardi: grazie a lui mettiamo a punto gli impianti per i freni a disco per le moto Guzzi. Oggi abbiamo 6-700 ingegneri in un gruppo che in tutto ha 7.200 addetti».
«Se penso che gli operai mi abbiano votato per Montecitorio? Credo di sì ma non ho voluto mischiare la vita d’azienda con la politica. Mi avevano chiesto di andare in officina a spiegare i motivi del mio impegno con Mario Monti, la cosa però mi avrebbe messo in imbarazzo e ho scelto di declinare l’invito». Bombassei non crede che i suoi lo considerino «un-padrone-che-sfrutta», pensa che la sua gente abbia apprezzato raccordo per creare un asilo aziendale che apre a Natale e nei mesi di ferie quando quelli comunali chiudono. Oppure il rifacimento del Teatro Sociale di Bergamo o i finanziamenti per la biblioteca comunale. Qualcuno in città, per la verità, forse avrebbe preferito che avesse comprato il pacchetto azionario dell’Atalanta, «ma non cerco il consenso facile e la popolarità a ogni costo».
Bombassei ritiene che oggi sia cresciuto il livello medio dei sindacalisti, la loro cultura dell’impresa. «Non siamo più negli anni Sessanta e francamente non penso che considerino più il padrone come un nemico. In qualche stabilimento ho dovuto fare della cassa integrazione anch’io ma in qualche altro ho pagato gli straordinari. Per riorganizzare singoli siti produttivi sono ricorso anche a licenziamenti collettivi, sempre discutendoli con il sindacato e mentre il gruppo cresceva e creava nuove opportunità di lavoro». Ma se le cose stanno così perché il giornale del Pd, L’Unità, la raffigura come un falco? «È una vecchia etichetta che mi appiccicarono ai tempi della presidenza Federmeccanica tra il 2002 e il 2004. Mi hanno anche assegnato la scorta e l’immagine da duro mi è rimasta disegnata addosso». Forse paga il suo appoggio a Sergio Marchionne? «Non so, ma comunque sono stato io a cercare di ricucire i rapporti tra lui ed Emma Marcegaglia al tempo in cui era ancora presidente della Confindustria».
Alberto Bombasse! vende molto in Germania ed è anche un ammiratore convinto del modello tedesco. «Capisco le differenze rispetto a noi. Lì ci sono soprattutto grandi imprese, strutture societarie più adatte a metabolizzare il sindacato: da noi con tante piccole come si fa?». Il sindacato tedesco è «molto diverso dal nostro, se c’è bisogno di ristrutturare non si mette di traverso, collabora a trovare le soluzioni più giuste. E se si deve tagliare un dito per salvare la mano lo fa senza tanti strepiti». Perché i nostri confederali applichino la stessa filosofia ci vorrà ancora del tempo, «forse quando arriveranno al vertice dei giovani dell’età di Matteo Renzi e di Angiolino Alfano vedremo qualcosa di nuovo e anche la Cgil quel fortunato giorno cambierà».