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 2013  febbraio 28 Giovedì calendario

LA DISCONTINUITÀ NECESSARIA


Il rischio che l’Italia non si può permettere è che l’incertezza politica generi tensione sui mercati finanziari e questa porti a ridurre la raccolta delle banche e faccia venire meno la capacità di credito incidendo sugli investimenti della seconda metà dell’anno e mettendo definitivamente fuori gioco le residue possibilità di riaccendere il motore dell’economia reale del Paese. Bisogna mettere le condizioni, fare le cose e comunicarle, attuare un disegno organico di interventi economici e civili che parli soprattutto ai giovani, affinché non si riproponga il rischio enorme e reale che abbiamo corso a novembre del 2011 e che la gente ha rimosso perché non si è materializzato. Parola di Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.
Per fare tutto ciò occorre un governo nel pieno dei suoi poteri che porti urgentemente fuori l’Italia dalla tempesta perfetta del 25 febbraio e segni la piena discontinuità con quel filo indistinto di politica economica che tiene insieme i lunghi anni di Tremonti al Tesoro con l’ultimo anno di governo Monti dove la disciplina fiscale (virtù necessaria, da preservare) si è coniugata in forme e modalità differenti ma senza mai incidere nel corpo vivo della (inefficiente) macchina dello Stato e senza mai riuscire a scalfire in misura adeguata il tabù della spesa corrente. L’unico tabù, se abbattuto o ridimensionato fortemente, in grado di liberare correttamente le risorse necessarie per ridurre gli abnormi prelievi fiscali e contributivi su lavoratori e datori di lavoro e alimentare un flusso apprezzabile di investimenti, a a partire dalla scuola e dalle infrastrutture, per provare a modernizzare il Paese. Non è vero che non si è fatto niente, soprattutto in materia previdenziale, ma ciò che è sempre colpevolmente mancata è un’attenzione effettiva, di lungo periodo, fatta di scelte strategiche e di cose che si possono vedere e toccare sull’unico, assoluto, punto di forza dell’economia italiana, che è la sua peculiarissima manifattura. Una rete di imprese di ogni tipo di dimensione che è sempre riuscita, nonostante un carico di fardelli pesantissimi e più di una debolezza costitutiva, a intrecciare tradizione, innovazione di processo e di prodotto e a conquistare pezzi sempre nuovi di mercati.
Il Paese ha bisogno di preservare il valore della disciplina fiscale ma deve uscire in fretta dalla percezione di una linea di politica economica filo-tedesca (hai peccato, devi soffrire) per riuscire a coniugare finalmente rigore e crescita in nome dell’interesse italiano, investendo organicamente sul talento dei suoi giovani e sulle forze sane della sua economia. Non c’è altra via per uscire dal circolo vizioso in cui ci siamo infilati e recuperare un tasso di crescita che ci consenta, tra l’altro, di pagare almeno una parte dei nostri debiti. Ai giovani si deve spiegare che molti dei lavori impiegatizi di una volta sono spariti per sempre ma si deve essere anche in grado di assicurare le risorse finanziarie e le capacità tecniche per guidarli in un mondo diverso dove sopravvivono lavori manuali e esplodono quelli della progettazione e della nuova economia. Alle imprese bisogna chiedere di fare fino in fondo la propria parte, ma bisogna anche assicurare loro alcune certezze all’interno di un ginepraio di distorsioni che arriva a consentire impunemente allo Stato di non cominciare nemmeno ad onorare il pagamento di una parte dei suoi debiti. Porre condizioni di non ritorno per ridefinire il perimetro dello Stato, snellire e modernizzare la sua macchina amministrativa a favore dei cittadini e di tutti gli operatori economici, eliminare le vergognose noccioline della cattiva politica, ridurne sensibilmente i costi e assicurare una legge che possa estirpare per davvero la mala pianta della corruzione, completano un disegno organico di interventi che ponga finalmente al centro della sua azione lo sviluppo del Paese e il suo capitale dimenticato.
Per fare tutto questo, e nessuno può a cuor leggero sottrarsi a tale sfida obbligata, occorre uscire in fretta, molto in fretta, dalla tempesta perfetta del 25 febbraio assumendosi ognuno per la sua parte la quota di responsabilità che i cittadini elettori hanno loro attribuito con il proprio voto. Il Paese ha bisogno di un governo stabile che faccia le cose, lo esige quello che resta della sua economia reale, lo pretenda la politica da se stessa se non vuole tornare a lamentarsi di quella "dittatura" dei mercati e dello spread che si appalesa solo occupando il vuoto della (buona) politica.