Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 27 Mercoledì calendario

SONO DIVERSO, DEVO MORIRE

Tre giorni prima della sua morte annunciata, Chokri Belaid tenne un comizio a El Kef, al confine con l’Algeria. Era una domenica di vento; sui monti Tébour­souk c’era la neve. Il suo arrivo aveva eccitato la gioventù locale; Chokri Belaid era un noto politico di sinistra, all’opposizione, il segretario del partito dei Patrioti Democratici (Watad).
Nella sala affollata di giovani, vecchi e bambini si presentò com’era, sanguigno, generoso, d’assalto: un combattente. La sua guerra, il suo fronte, era la faida culturale in cui era sprofondata la Tunisia dopo la rivoluzione. Sinistra laica contro destra islamica. Modernità contro islam, l’islam primitivo di chi, alla vigilia del suo arrivo, lo aveva pubblicamente minacciato di morte.
Non perse tempo.
Disse, teatralmente: «Lo so che stai ascoltando».
Si riferiva al governatore della regione, uomo di Al-Nahda, il movimento islamista che aveva stravinto, con il 40%, le elezioni per la Costituente.
L’accusa era che in sala fossero state piazzate delle cimici.
Disse: «Lo so che gli estremisti sono sulla tua busta paga».
Citò, impavido, i nomi di due sgherri, Khaled Zdini e Salman Rzig, due radicali che avevano occupato la Grande Moschea imponendo ai fedeli i loro sermoni fanatici.
Giorni dopo, quando tutto era già successo, diversi testimoni ricostruiranno quei momenti concitati.
«Le cimici c’erano sul serio», mi dice Lamine Mesahli, un preside di scuola in pensione.
Il branco arrivò dopo un quarto d’ora. Aveva le sembianze di una truppa uscita dalle pieghe di un altro tempo e di un altro luogo. Vestiva gli abiti dell’Arabia profonda, desueti in Nord Africa, i lunghi camici e i pantaloni alla zuava. Entrò nella Casa della Cultura urlando: «Infedeli!». Tirando pietre, menando le mani.
Il loro obiettivo era Belaid, protetto, in fondo alla sala, dai suoi seguaci; i loro capi erano i due ceffi citati da Belaid: gli autoproclamatisi imam Khaled Zdini e Salman Rzig.
«Fu il caos», racconta Ahmed Hammami, dell’Associazione Arte Cinema e Cultura.
Sulle teste volarono sedie; la lotta tra la minoranza violenta e la maggioranza pacifica divenne fisica.
Pur essendo dirimpetto, la polizia arrivò con calma e fece ciò che fa di solito in questi casi: innaffiò di lacrimogeni vittime e aggressori, aggressori che furono lasciati liberi di ritornare nella moschea occupata.
Di quel che è accaduto tre giorni dopo, sappiamo, mentre scrivo, ancora poco. Mercoledì 6 febbraio, a Tunisi, in un quartiere popolare di case bianche e basse, una vicina dirà di aver visto dal balcone uno sconosciuto avvolto in un burnus, il tradizionale mantello, avvicinarsi a Chokri Belaid.
Aveva il viso scoperto e un amico in attesa su una Vespa.
La donna dirà di aver udito: «Chokri Belaid?», «Sì?» e poi quattro colpi secchi.
La donna dirà di aver visto i due uomini allontanarsi con calma in Vespa.
Il primo martire della transizione tunisina arriverà all’ospedale cadavere, con due pallottole al petto e due alla testa.
«Ma in fondo non importa chi ha premuto il grilletto», mi dice Ghazi Gherairi, editorialista e professore di legge all’Università di Cartagine.
«Ciò che conta è la responsabilità morale, il clima d’impunità, e questa è tutto di Al-Nahda».

Più che il delitto in sé, è stata la reazione il punto di svolta; e non tanto per le dimissioni del premier di Al-Nahda, e dunque la caduta del governo di transizione. Nello spazio di soli sedici mesi, gli islamisti sono passati dal trionfo elettorale del 23 ottobre 2011 al rogo dei loro uffici il 6 febbraio 2013.
«La furia del popolo è stata impressionante», dice Mesahli, il preside di El Kef.
«Il momento in cui la radio ha dato la notizia, l’intero Paese è sceso in piazza».
Qualche giorno dopo, i segni della rivolta sono ancora visibili.
Sui muri bianchi del palazzo del governatore leggo «Erhal!», vattene; chilometri di filo spinato marcano la distanza tra i nuovi governanti e i governati. Sulla via principale di El Kef, la sharaa Monji Slim, finestre cieche e muri neri di fuoco sono tutto ciò che resta della sede del partito di Al-Nahda; la folla gli ha dedicato lo stesso trattamento riservato a Ben Ali.
Era inevitabile.
È difficile mantenere gli impegni, se prometti il cielo.
Sta accadendo in tutte le delicate transizioni della Primavera araba: l’ascesa al Palazzo degli islamisti seguita dal disincanto: la consapevolezza che l’islam non è la soluzione.
Per la prima volta, nella lunga storia dell’islam politico, i musulmani sono chiamati a confrontare i loro demoni. La lotta non è più tra loro e la tirannide, ma tra il Palazzo, da loro abitato, e il popolo che li ha votati. Il popolo, che si aspetta risultati. Il popolo, affamato, strangolato dalla crisi economica. Il popolo che invece è costretto a fare i conti con una minoranza virulenta che sogna il paradiso in groppa a un cammello.
Le diverse identità di Paesi per decenni mummificati sono deflagrate; accade che lunghi sonni siano seguiti da risvegli confusi, pasticciati. Conflitti rimossi fanno capolino; la lunga, dolorosa ricerca di un equilibrio nella diversità richiede tempo e lacrime e soprattutto: pratica.
«Che cosa vi aspettavate, che dopo cinquanta anni di dittatura diventassimo magicamente la Scandinavia?», chiede ironico Gherairi.
I tunisini ce l’hanno con i giornalisti occidentali. Un collega mi ha descritto, sgomento, un documentario della Tv francese: «Non era il mio Paese, era l’Afghanistan».
In Afghanistan, in effetti, non ci sono le drag queen che ho visto ancheggiare, sinuose, in un teatro sulla costa, a Sousa; e a uno stilista gay, come Ahmed Talfit, sarebbe stato impossibile spedire in passerella, nella capitale, una modella coperta di veli, a seno scoperto, peraltro rifatto («Sono stato ispirato dagli integralisti», mi ha detto, candido).
L’inedita libertà di questi due anni ha portato in superficie gli estremi; e ha reso visibili personaggi dal dubbio curriculum a caccia di facili attenzioni. Ho trascorso un paio d’ore con Adel Almi, fondatore dell’associazione per la prevenzione del vizio e per la diffusione della virtù, uno sceicco incendiario, interessato, per sua stessa ammissione, a un futuro in politica. A una domanda sugli omosessuali mi ha risposto, candido: «Vanno uccisi tutti».

Di questa guerra, ho visitato un giorno la prima linea, a El Kef, in compagnia di Mohamed Tlili, un archeologo.
El Kef è la capitale culturale del Nord-Ovest, una cittadina di grande beltà, a 175 chilometri a ovest di Tunisi. A El Kef c’è una vivace associazione, Act (Arte Cinema e Teatro), che organizza concerti e vernissage, tra gli antichi resti di una basilica bizantina.
«La chiesa fu trasformata in moschea dagli arabi, nel Settimo secolo; abbandonata, fu restaurata da Bourguiba, il padre della patria, che la restituì all’umanità», mi spiega Tlili, un omone gaudente e ironico, con un dottorato alla Sorbona e un nonno santo mistico che, dice, «mi mandava dal rabbino per imparare a sgozzare le galline».
El Kef un tempo era l’antica Venere, la capitale del meretricio, famosa per la prostituzione nell’era numide, spiega il professore, che cita anche la sinagoga, e i tre cimiteri, musulmano, ebraico e cristiano a testimonianza di 4000 anni di storia.
Poi accadono due cose. La prima è la thawra, la rivoluzione. Nell’anarchia di quelle settimane, 3 mila delle 5 mila moschee tunisine cadono in mano ai salafiti, gente che sogna il ritorno al Settimo secolo, quello dei salaf, in arabo, gli antenati. Oggi di pulpiti occupati ne restano circa 70, tra cui la Sidi Ali Ben Salah di El Kef, la Moschea Grande, un’imponente costruzione nel cuore della medina, sui cui muri bianchi leggo: «Prega per salvarti la vita».
A presidiarla non sono tanti, saranno in cinquanta, ma non sono simpatici; la mia guida sconsiglia di scendere dall’auto; in passato, hanno linciato un ragazzo del luogo per aver portato in paese due francesi.
La seconda cosa, curiosa, avviene in Kuwait. Alla fine del 2011, uno sceicco scrive di questa cattedrale bizantina di El Kef che un tempo era una moschea: «Haram!», è il suo tuono su Facebook. I salafiti, nel centro della medina, che di storia non sanno niente, si svegliano e cominciano pure loro a urlare «Haram!».
Planano un migliaio di barbuti, anche stranieri, per una grande preghiera, mentre gli attivisti dell’Associazione Act si scatenano in sit-in, porta a porta, volantinaggio, a difesa di un passato più ricco, di un’identità non solo islamica.
Congruamente, i capi dei due opposti fronti sono entrambi professori alla scuola media: il segretario dell’associazione insegna teatro; il capo dei salafiti, autoproclamato imam della Moschea Grande, insegna invece educazione fisica.
Tlili ridacchia ora mentre indica lo spazio in cui hanno pregato le teste rivolte verso la Mecca, le spalle rivolte a un lungo colosso di pietra.
«Non sapevano, i barbari, che avevo messo qui, dietro di loro, questo enorme fallo pagano. In altre parole, l’hanno presa in culo».

Quel che il professore esprime, in modo colorito, è che il luogo è rimasto quel che era; ma la vittoria dei laici è costata cara. Seguendo le regole della guerriglia, o anche della mafia, il branco si è vendicato. Il professore di ginnastica l’ha giurata al professore di teatro; egli si chiama Rajib Magri, ha 48 anni, e occhietti vivaci. Lo incontro sul divano rosso della sua casa, dalla quale non si muove, poiché è mezzo invalido. Racconta a fatica la sua esperienza
spaventosa; di come un giorno, stesse andando a scuola tranquillo; di come il professore di educazione fisica lo avesse adocchiato; di come fu circondato da una decina di vandali; di come fu bastonato; di come qualcuno gli sbatté la testa contro il muro; di come a salvargli la vita, alla fine, furono delle donne che uscirono urlanti dalle loro case. Finì in coma per due giorni e per dieci in terapia intensiva a Tunisi con quattro costole rotte, la spalla fratturata, e sei denti davanti andati. Prima di lui, in modo simile erano stati attaccati altri tre attivisti dell’associazione.
«Andai alla polizia a denunciare i miei aggressori, con nomi e cognomi. Ciò che mi fece più male è che il professore di ginnastica il giorno dopo era in giro a mangiare i popcorn. Sono protetti dalla polizia il cui capo è il governatore di Al-Nahda».
Il professore di ginnastica si chiama Khaled Zdini. Il suo socio è uno studente di legge islamica, tale Salman Rzig.
Khaled Zdini e Salman Rzig furono i nomi fatti dal leader dell’opposizione Chokri Belaid tre giorni prima della sua morte annunciata, nella medina di El Kef, oltre i monti Téboursouk, gelidi di vento, candidi di neve.