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 2011  ottobre 27 Giovedì calendario

DERIVATI, RIVOLTE ARABE, DEBITO TRE QUESITI E QUALCHE RISPOSTA

Mi pongo (e le pongo) una serie di domande. Come mai nessuno (politico, economista, giornalista, intellettuale) ha avvisato la popolazione della pericolosità della «finanza di carta»? Come mai nessuno si è accorto che stava arrivando la «primavera araba»? Come mai nessuno ha avvisato la popolazione della pericolosità del debito pubblico e perché nessun partito ha inserito nel suo programma l’ abbattimento del debito? Chi si deve assumere la responsabilità di queste «distrazioni» nei confronti delle nuove generazioni? E infine, che cosa rende così incapaci di prefigurare gli scenari futuri?
Fabio Deleidi
deleidifabio@libero.it
Caro Deleidi, la «finanza di carta» dipende in buona parte dai derivati, uno strumento finanziario inventato negli Stati Uniti su cui molti economisti (penso, tra gli altri, a Paolo Savona) avevano lanciato ripetuti segnali d’ allarme. Ma parecchie banche americane hanno continuato a farne largo uso e l’ autorevolezza di Wall Street ha messo a tacere le riserve di quanti avanzavano dubbi sulla razionalità di una tale politica finanziaria. Oggi sappiamo (lo ha detto Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, a una riunione del Fondo Monetario Internazionale nel 2010) che i portafogli delle maggiori banche d’ investimento americane sono passati da due trilioni di dollari vent’ anni fa a 22 trilioni di dollari nella fase che ha immediatamente preceduto la crisi: quasi il doppio del Pil americano. Gli «hedge funds» gestivano un po’ meno di cento miliardi di dollari all’ inizio degli anni Novanta; ne gestivano 30 trilioni nel 2007. E infine il valore teorico di tutte le categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’ anni di venti volte ed è oggi calcolato in 600 trilioni di dollari, vale a dire 10 volte il prodotto interno lordo mondiale. Alla sua domanda sulle rivolte arabe ho già risposto in altre occasioni che i fenomeni sociali sono difficilmente prevedibili. I giovani tunisini e egiziani sono scesi nelle strade perché i loro regimi avevano considerevolmente aumentato il numero di coloro che disponevano di un diploma di studi superiori e si sentivano autorizzati a chiedere un futuro diverso da quello dei loro genitori. Le piazze si sono riempite anche perché le nuove tecnologie e le reti sociali hanno funzionato molto meglio delle «cartoline precetto» con cui i partiti politici e i sindacati hanno tradizionalmente convocato i loro membri per una manifestazione di massa. Non è facile fare previsioni attendibili quando i fattori mal conosciuti sono troppo numerosi. La realtà sociale ha più immaginazione e fantasia di quante ne abbiano i sociologi e gli economisti. Sulla questione del debito pubblico, caro Deleidi, credo che lei non abbia ragione. Il debito pubblico è da più di vent’ anni al centro del dibattito pubblico italiano e un ministro del Tesoro (Carlo Azeglio Ciampi) cercò di ridurlo assicurando al bilancio dello Stato un «avanzo primario» (quanto rimane dopo il pagamento degli interessi sulle cartelle del debito) che avrebbe dovuto diminuirlo progressivamente. Ma i governi successivi hanno ricominciato e spendere, sovente per ragioni elettorali, e altri fattori, fra cui la grande crisi del 2007, hanno reso l’ operazione ancora più complicata. Probabilmente i governi pensavano che la crescita del Paese avrebbe gradualmente ridotto l’ incidenza del debito sul prodotto interno lordo. Possiamo rimproverarli per non avere dato prova di maggiore rigore, ma non possiamo sostenere che l’ Italia ignorasse l’ esistenza del problema.
Sergio Romano