Beatrice Borromeo, il Fatto Quotidiano 26/2/2011, 26 febbraio 2011
PROCESSO SAVOIA, COME “FREGARE” LA GIUSTIZIA FRANCESE IN TRE GIORNI
Tredici anni liquidati in tre giorni: dopo la morte di Dirk Hamer, che si è spento il 7 dicembre 1978, nel novembre del 1991 si celebra il processo davanti alla Corte d’assise di Parigi, il più alto collegio francese. Unico imputato, Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaio di Savoia, erede a un trono che non c’è più accusato dell’assassinio del 19enne tedesco.
DELLA CORTE fanno parte tre giudici togati e una giuria popolare composta da nove persone: ma nessuno conosce gli atti del processo – migliaia di pagine – che vengono raccontati loro solo durante le tre udienze del 13, 14 e 15 novembre del ‘91. Sulla facciata del Palazzo di Giustizia in Île de la Cité, al centro di Parigi, campeggia la scritta “Liberté, Egalité, Fraternité”. A rappresentare la famiglia di Dirk ci sono la sorella Birgit, il padre Ryke Geerd, due fratelli e l’avvocato Sabine Paugam , che lavora pro bono. La madre, Sigrid Hamer, è morta pochi anni prima, durante una fase istruttoria che sembrava non finire mai. Solo Birgit, della famiglia, riesce a seguire il processo perché è l’unica che parla francese (i traduttori parlano male il tedesco). In un tribunale colmo di giornalisti – molti in piedi perché non c’era più posto – fa il suo ingresso il principe Savoia, ammanettato e scortato dalla gendarmerie. È la prima volta che Birgit Hamer lo vede, da quella notte del 18 agosto 1978 in cui venne svegliata dalle sue urla (“italiani di merda, vi ammazzo tutti”) e dalle sue fucilate. L’imputato, vestito con un elegante completo, siede assieme ai suoi sei avvocati, ribattezzati “la mia batteria”, e non incrocia mai lo sguardo della famiglia della vittima . “Io ho cambiato sei persone dei giurati”, racconta Savoia nel 2006 ai compagni di cella – come si può vedere nel video pubblicato sul sito del Fatto Quotidiano – mentre si vanta di aver “fregato” i giudici nel processo di Parigi. Si riferisce alla possibilità prevista dal diritto francese di ricusare i giurati non graditi: così viene allontanata prima una madre, poi un ragazzo con i capelli lunghi e vestiti casual che poteva avere un orientamento politico avverso e così via.
COMINCIANO le anomalie: il presidente della Corte, Maurice Colomb, si rifiuta di ascoltare la maggioranza dei testimoni oculari che la sera in cui Savoia sparò erano sulle barche. Non chiama a deporre nemmeno i medici che prestarono le prime cure a Dirk, tra cui il dottor Erik Pitoun, il primo a visitare il ragazzo sulla barca. Pitoun all’epoca dichiarò che Dirk era quasi morto e che, se non fosse stato così robusto di costituzione, non sarebbe arrivato vivo in ospedale. Ma la difesa ha un’altra tesi: il 19enne è stato ucciso dalle cure mediche sbagliate, e comunque a sparare è stato Vittorio Guglielmi (mai indagato), uno degli altri passeggeri della Mapagià, la barca in cui dormiva Dirk. Peccato che nessuno abbia sentito altri spari, a parte quelli di Savoia (il quale nel video confessa: “Ho sparato un colpo così e un colpo giù, ma il colpo è andato in quella direzione e ha preso la gamba sua che era steso passando attraverso la carlinga”). Uno dei legali del principe, Jacques Léauté, ha la scusa pronta: “Il sentimento di colpevolezza del mio assistito ha distolto dalla sua mente l’eco degli altri spari”.
Per avvalorare la tesi del secondo tiratore, il principe chiama a deporre l’avvocato milanese Ludovico Isolabella della Croce: nel 1985, in un bar a Portofino, avrebbe sentito due uomini bisbigliare nel tavolo accanto al suo che a sparare, quella notte d’estate, non fu Savoia ma Guglielmi. Isolabella, che in aula si presenta come “fan del principe”, prima di andarsene dal tribunale bacia la mano di Vittorio Emanuele. Un servigio così apprezzato da essere rimasto impresso nella mente di Savoia, che trent’anni dopo in carcere a Potenza ancora lo ricorda: “Isolabella è venuto al mio processo a Parigi, anche se io avevo torto”. Arrivano anche i “testimoni morali”, personaggi dell’alta società legati alla famiglia Savoia, tra cui la scrittrice Edmonde Charles-Roux, Jacques Picard (oceanografo), Luigi Cottafavi, ambasciatore in pensione amico di Savoia dai tempi in cui il principe faceva il mediatore in Iran per le aziende statali italiane. Persone che sull’isola di Cavallo, nell’agosto di 13 anni prima, non c’erano, ma che comunque dichiarano: “Ce lo avrebbe confidato, se fosse stato davvero colpevole”. Tutti parlano a voce bassa, dal presidente della Corte ai testimoni. Tutti a parte Birgit Hamer e il medico romano Nichi Pende, che al processo – come riportato nel documento contenuto nel libro della Hamer Delitto senza Castigo (Aliberti) – spiega: “Ho visto il fucile di Savoia che si alzava nella mia direzione. Mi sono buttato a terra. Quando ho toccato il ponte, ho sentito passare sulla testa il calore e lo spostamento d’aria dei due colpi di fucile in rapida successione”.
IL PUBBLICO ministero Thin chiede soltanto 5 anni e sei mesi, la pena minima prevista per “spari e ferimenti volontari con conseguente morte della vittima” (non ha neppure provato a contestare l’omicidio volontario). Lunedì 18 novembre 1991 c’è l’arringa finale della difesa, dura tutto il pomeriggio. La Corte si riunisce e pronuncia il verdetto: Vittorio Emanuele è colpevole solo di possesso abusivo d’armi da fuoco e viene condannato a una pena detentiva di 6 mesi (nel video il principe ride ricordando che “c’era un’amnistia, non l’hanno neanche scritto! Sono uscito! Ero sicuro di vincere, ero più che sicuro”). Ma il processo celebrato a Parigi ha un epilogo ancora più grottesco: dopo la confessione in cella a Potenza di Savoia, la Hamer incarica il suo avvocato di ritirare la sentenza del 1991 presso l’archivio della Corte d’assise. Scopre che questa non c’è in forma scritta e non è registrata in alcun modo. Come se non fosse mai esistita.