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 2005  marzo 04 Venerdì calendario

INCONTRO CON MARIO MONICELLI

(Corriere della Sera del 2005, con scheda) -

Luci accese in un piccolo appartamento-studio affacciato sui vicoli del rione Monti, sulla scrivania piena di carte c’ è un libro aperto, dalle finestre s’ intravede il Colosseo illuminato. L’ uomo in jeans e pullover che abita da solo in questo spazio dipinto di azzurro si muove come un ragazzo, eppure sta per compiere novant’ anni. Fra poco racconterà, con la durezza e la sincerità che sono sue come uno stemma di famiglia, cosa pensa dell’ inestricabile rapporto che lega fra loro il cinema e la politica. Dai tempi del fascismo, «il sistema che ha fatto di più per il cinema italiano, dai littoriali alla mostra di Venezia», ai democristiani, «i più tolleranti», fino al governo Berlusconi, «che lo odia, lo sta facendo spegnere lentamente, negandogli i mezzi e i finanziamenti necessari». Si comincia dall’ ultima polemica... «Un film su Bettino Craxi e su Tangentopoli? Forse, ci vorrebbero dei comici, per raccontare gli intrallazzi di quegli anni... Dovrebbero usare, comunque, delle maschere, dei personaggi di fantasia, come abbiamo sempre fatto. Il nostro cinema, finora, ha raccontato direttamente soltanto un uomo politico: Aldo Moro. Prima, quando era al vertice del potere, lo hanno fatto, con Todo Modo, Leonardo Sciascia ed Elio Petri... Da morto assassinato, alcuni documentari per addetti ai lavori hanno indagato sui 55 giorni del sequestro. Io, poi, il film su Craxi non potrei farlo: sono uscito dal Psi dopo più di trent’ anni, insieme a Comencini, Age, Scarpelli, giusto un anno dopo la sua elezione, alla fine degli anni Settanta: avevamo capito subito che piega avrebbe preso il partito...». Mario Monicelli oggi si definisce senza esitare: «Un comunista». E subito si spiega: «Spero che qualcuno ricominci daccapo, evitando gli errori commessi nel Novecento e realizzi una società più giusta, una società senza schiavi. Prima di Craxi, ero un socialista marxista, dopo ho sempre votato il Pci e un paio di volte per la sinistra ancora più a sinistra... Nel dopoguerra, tutti noi cinematografari eravamo di sinistra, non ho mai conosciuto un regista di destra, né ho memoria di film ispirati a temi o personaggi di destra. C’era l’ egemonia, eccome. A parte qualche cattolico dossettiano, come Ermanno Olmi, a parte le paure di Fellini, che era un teosofo seguace del veggente Rohl ma si andava a raccomandare da monsignor Arpa, una specie di santone cristiano, a parte l’attuale Pupi Avati, che ha diretto la tv dei vescovi e fa il cattolico, a parte il Rossellini segreto che pregava in privato e Franco Zeffirelli che ha un gusto innato per le cerimonie e i fasti religiosi... tutti gli altri, a sinistra. Dovrei parlare di Pasquale Squitieri, che ora fa il destro, ma è meglio non dire...». Tutti a sinistra. Compresi gli squali, i megaproduttori miliardari con ville, piscine, automobili e dive al fianco? «Brava. Era proprio così. Intanto, erano tutti ex poveracci arricchiti in fretta negli anni del boom, senza stile, molto artigiani. Avevo scritto un film che si chiamava proprio Gli squali, ma Franco Cristaldi, che era un siciliano benestante, parente dei Marzotto, lo rifiutò perché lo trovava "anticapitalista", erano storie di imprenditori cialtroni... Eppure, Cristaldi aveva prodotto I compagni, ricordo che a una proiezione al palazzo dei congressi a Roma i socialisti presenti in sala, divisi fra massimalisti e autonomisti finirono per picchiarsi, i primi accusavano i nenniani di calarsi troppo le braghe... La verità è che i produttori si buttavano a sinistra perché volevano essere liberi. Al cinema e nella vita privata. Dino De Laurentiis, quando s’ innamorò della Mangano, doveva trovare il modo di separarsi dalla sua bella moglie Bianchina e tentò una serie di pasticci legali fra il Messico e San Marino, Carlo Ponti si vantava di essere un avvocato socialista, anche lui aveva un secondo matrimonio in programma, con la Loren... il divorzio non c’era ancora. La Democrazia cristiana, sorniona, lasciava correre. Tanto, c’era la censura». Perfino Guardie e Ladri, con Totò e Aldo Fabrizi, fu tagliato: «L’ idea che un poliziotto e un truffatore potessero fare amicizia, nell’ Italia degli anni Cinquanta, si disse, minava le basi della società italiana». Problemi politici anche per Totò e Carolina, storia di una ragazza madre in viaggio con un agente di polizia. L’ accusa? «Sovvertiva la morale. Il fatto è che a presiedere la commissione c’ era un fascista sopravvissuto al crollo del regime, tale Annibale Scicluna Sorge, un maltese nazionalista, uno che partì in barca e arrivò qui per consegnare Malta a Mussolini...». Mario Monicelli è appena rientrato dal Marocco - è stato nel deserto a studiare le scene del suo prossimo progetto, ispirato al romanzo di Mario Tobino, Il deserto della Libia, il libro aperto sul tavolo da lavoro - e un filo di abbronzatura gli dona. Sorride: «La cosa più difficile è trovare gli attori, oggi, per una storia degli anni Quaranta. Noi militari eravamo piccoli e plebei, con le gambe corte, il culo basso. Oggi i ventenni sono tutti alti e palestrati, sembrano ballerini...». La guerra italiana, con il suo fango, il troppo caldo e il troppo freddo, la piccola viltà e i grandi eroismi sospesi fra il ridicolo e la solennità: nel cuore del regista c’ è ancora spazio per raccontarla. Dopo aver girato La Grande guerra, il suo capolavoro, vuole raccontare la sua Libia. Allora, racconta, fu dura, «con quella storia avevo rotto un tabù: i due lavativi, Sordi e Gassman, erano reali, esattamente come i 600 mila morti del ’ 15-18 celebrati in tutte le piazze. Giulio Andreotti, a quel tempo ministro della Difesa, in principio mi assicurò il suo sostegno, che consisteva nel fornire un po’ di armi, divise e ferrivecchi. Tutta la stampa ci saltò addosso, con editoriali in prima pagina, e lui ritirò il suo assenso. Finimmo, con De Laurentiis, a girare in Jugoslavia. Dove io avevo combattuto una parte della mia guerra vera, quella che i bollettini ufficiali raccontavano come fosse già vinta, dopo l’ entrata di Hitler a Parigi. Ricordo i miei coetanei che partivano allegri, incoscienti: sicuri che avremmo vissuto sei mesi da dominatori del mondo, ci saremmo fatti le nere, le russe, una gran pacchia. Cantavano, Colonnello non voglio armi... la fine dell’ Inghilterra incomincia da Giarabub, la famosa oasi che aveva resistito... E io invece, da antifascista, tifavo per il nemico. Partivo con un esercito di disperati, guidati da ufficiali ridicoli, senza illusioni, finisce sempre così per noi...». Storie vere, vissute. «Non come quelle inventate, non come quella mascalzonata di Benigni ne La vita è bella, quando alla fine fa entrare ad Auschwitz un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo di Europa lo liberarono i russi, ma... l’ Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà». Il ragazzo di novant’ anni ha ancora un’ autentica passione per la politica. Se l’ ha nascosta dietro un apparente cinismo, nutrito con ideali e battaglie soltanto cinematografiche è per una ferita privata, antica. Suo padre Tommaso, critico e giornalista, giovane nazionalista e camicia azzurra, aderì in un primo momento al fascismo. Da direttore del Resto del Carlino, nella Bologna del federale Leandro Arpinati, si ribellò: scrisse un editoriale durissimo contro il regime, in occasione del delitto Matteotti. «Fummo assaliti, la nostra villotta fu presa a sassate dai fascisti, ci difendevano i militari, avevamo due o tre soldati in cantina con i fucili. Ero ragazzino, mi sentivo in battaglia. Mio padre fu licenziato e non rientrò mai più nel giornalismo attivo. Intanto, i nostri parenti più stretti, i Mondadori, si erano allineati: vendevano libri a tutte le scuole del Regno. Lui non si piegò. Durante la Resistenza, aiutò i giornali clandestini. Al momento della Liberazione, tutti si dimenticarono di lui. Una mattina del 1946, all’ alba, nella casa di via Adige, andò in bagno e si sparò. Aveva 63 anni. E io c’ ero, quando mia madre lo trovò in terra». I giornali pubblicarono la notizia «in quattro righe». Storie italiane. Tanto coraggio, tanta viltà e tanto conformismo. Gli ingredienti delle nostre vite e delle nostre commedie.


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Dal principe Totò ad «Amici miei» Mario Monicelli nasce a Viareggio nel 1915. È considerato uno dei più importanti registi della commedia all’ italiana Nel ’ 49 esordisce con «Totò cerca casa», poi arrivano «Guardie e ladri» (’ 51) e soprattutto «I soliti ignoti» (’ 58) È sempre stato un osservatore attento dell’ evoluzione del costume e dei problemi del Paese, da «La Grande guerra» del ’ 59 a «L’ armata Brancaleone» (’ 65), da «Amici miei» (’ 75) a «Un borghese piccolo piccolo» (’ 77), «Il marchese Del Grillo» (’ 81), «Speriamo che sia femmina» (’ 85), «Cari fottutissimi amici» (’ 93) Il nuovo lavoro Tobino e la Libia Da «La Grande guerra» alla guerra di Libia. Il nuovo progetto a cui il regista sta lavorando in questi mesi è un film ispirato a «Il deserto della Libia» dello scrittore, e suo concittadino, Mario Tobino (1910-1991) Il romanzo (scritto nel 1951 e ristampato da Mondadori nel 2001) è un diario in cui Tobino racconta la sua esperienza di ufficiale medico durante la Seconda guerra mondiale Il film di Monicelli, titolo provvisorio «Le rose del deserto», racconta la storia di una sezione di sanità dell’ esercito che vive tre anni e mezzo nel deserto di Libia durante la guerra