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 1993  febbraio 18 Giovedì calendario

Corriere della Sera 18/02/1993 Alessio Altichieri I re d’Italia tornano a Torino. Sulla carta Torino – All’Archivio di Stato di Torino, nel bel palazzo che Juvarra costruì per il re Vittorio Amedeo II nel 1730, quando l’Italia futura era solo Piemonte, si vivono ore d’insolita eccitazione: le carte dell’archivio Savoia, che Umberto II, quarto e ultimo re d’Italia, destinò a Torino prima di spegnersi in esilio a Cascais, dieci anni fa, sono finalmente arrivate

Corriere della Sera 18/02/1993 Alessio Altichieri I re d’Italia tornano a Torino. Sulla carta Torino – All’Archivio di Stato di Torino, nel bel palazzo che Juvarra costruì per il re Vittorio Amedeo II nel 1730, quando l’Italia futura era solo Piemonte, si vivono ore d’insolita eccitazione: le carte dell’archivio Savoia, che Umberto II, quarto e ultimo re d’Italia, destinò a Torino prima di spegnersi in esilio a Cascais, dieci anni fa, sono finalmente arrivate. La direttrice dell’Archivio, Isabella Massabò Ricci, è giustamente soddisfatta: «Qualunque sia per gli storici il valore di quelle carte, conta il patrimonio che ora si reintegra, per i posteri», dice con giubilo da topo di biblioteca. Dal suo punto di vista ha ragione, e si contenta. È successo infatti che Maria Gabriella, dopo aver a lungo esitato nel compiere la volontà del padre (e della madre, se Maria José s’oppose pubblicamente alla sosta svizzera di quei documenti), ha ora accettato di deporre l’archivio della casa reale tra mura adatte: sono splendidi, benché inaccessibili, i saloni rivestiti di armadi di noce fino al soffitto dove il carteggio cavouriano e quello garibaldino di Vittorio Emanuele II potranno dormire tranquilli. E un solerte silenzio c’è nelle sale di consultazione, clima di solidi studi, ove adesso gli storici, aprendo un faldone alla volta, potranno anche trovare conferme alle vicende patrie. Sicché infastidisce l’approccio scandalistico che la Ricci deve fronteggiare. Perché la voglia di pettegolezzo induce molti a cercare il dettaglio, purché saporito: ecco allora spuntare l’appunto preoccupato Urbano Rattizzi per l’amore sovrano, morganatico, verso la «bela Rosin», oppure il telegramma di La Marmora che riferisce l’«Obbedisco» di Garibaldi, o ancora lettere di Mazzini che dimostrano come il rivoluzionario non temesse, alla bisogna, di comunicare direttamente col sovrano. Storia dal buco della serratura, che rischia di trasformare l’Archivio di Torino, uno dei migliori d’Italia, in una «Novella 2000» della storiografia. Vediamo la questione, quindi, più da lontano. Da Roma, dove presiede l’Istituto storico del Risorgimento e dirige il Museo del Vittoriano, la voce di Emilia Morelli, che si può definire la matriarca degli storici italiani del Risorgimento, suona sollevata: «Sono lietissima che si cominci a esaudire la volontà del sovrano». Ma, appunto, è solo l’inizio: «Dove sono le medaglie della collezione reale e i Collari dell’Annunziata? Anche quei beni, nel testamento, erano destinati all’Italia. Così, ci resta solo la Sindone, a Torino, e la Rosa d’Oro, concessa alla regina Elena per quanto fece dopo il terremoto di Messina, che adesso è a Napoli». Storia grama, quella dell’eredità umbertina. Morto il re, gli esecutori testamentari, l’ultimo re di Bulgaria e il principe d’Assia, nominarono una commissione, di cui faceva parte Emilia Morelli, perché desse un’occhiata, a Cascais, alle carte, «importanti, sì, ma non da cambiare il mondo». Poi l’archivio si sarebbe dovuto avvicinare all’Italia, magari in una sede romana extraterritoriale, un’ambasciata, per un esame più attento, prima della consegna. Ma gli eredi Savoia, cioè Maria Gabriella, si presero tutto in Svizzera: «Gli esecutori testamentari si dimisero, e altrettanto fece la commissione. L’archivio, io non l’ho più visto», dice la Morelli. Ora, a parte le medaglie e i Collari dell’Annunziata (che, per inciso, hanno valore non solo ornamentale), i documenti sono importanti perché, di regola, quando un interlocutore del re moriva, tutte le lettere del sovrano venivano rese a casa reale: l’archivio d’Azeglio, per fare un esempio, è dimezzato. Ma non basta: da giorni si discute sul misterioso diario di Vittorio Emanuele III, che dovrebbe coprire mezzo secolo e che alcuni hanno visto, come Giovanni Artieri, ma che altri dicono bruciato da Jolanda. Bene, il mistero rimane: «Tra le carte pervenute non c’è nemmeno un documento di questo secolo», dice Isabella Ricci. Almeno il Risorgimento sarà coperto? Pare tornato il diario di Castagnetto, segretario di Carlo Alberto, che spiegherebbe molte cose sul ’48, su Mazzini. Di quel testo, in parte copiato all’inizio del secolo da Gallavresi, gli americani avevano trovato una copia dattiloscritta, nella Villa Reale di Monza, dopo l’ultima guerra. Ora forse c’è pure l’originale e, se non potrà più servire a Rosario Romeo, che avrebbe voluto occuparsene con Emilia Morelli, verrà utile ad altri storici. Ma le carte di Vittorio Emanuele III e di Umberto II, invece no, perché, spiega Isabella Ricci, «Maria Gabriella dice che sono di famiglia». Perciò, tolti i monili, espunti i documenti recenti, il valore della donazione sembra sempre più assottigliarsi: «Sono arrivate tredici casse, mi dice? Io ne contai sedici, a Cascais», precisa Emilia Morelli. E quindi pare ingiustificata quest’attesa da «archivio spettacolo», dice Umberto Levra, storico torinese, che assiste all’evento dall’Istituto piemontese del Risorgimento, nel venerabile palazzo Carignano che ospita il primo parlamento italiano dietro mattoni rossi e sotto l’immenso cartiglio di bronzo: «Perché nessun archivio è asettico e vergine, ogni archivio è precostituito». E quello dei Savoia, tra tutti, è fra i più manomessi. L’archivio di corte, nel palazzo di Juvarra, nasce infatti nel 1730. Nel 1848, con Carlo Alberto, subisce una doppia trasformazione: assolutistica, perché mescola le carte della casa reale con quelle dello Stato Sabaudo, ma anche liberale (c’è aria di Statuto) perché diventa discretamente consultabile. Dopo l’unità, divenuto patrimonio ufficialmente italiano, passa elle dipendenze del ministero dell’Interno, e tale resta fino al 1890 quando si compie, auspici Umberto I e Francesco Crispi, l’operazione scandalosa cosiddetta «dei tre baroni», dai nomi dei funzionari – i baroni Bollati di Saint Pierre, Manno e Carutti – che la conducono. In pratica, rinasce l’archivio segreto della casa reale che Carlo Alberto aveva abolito. Levra, che sta per pubblicare il libro «Fare gli italiani», dedicato alla manipolazione della storia risorgimentale, cita come si vollero separare «le carte d’indole affatto particolare e riservata della famiglia reale» da quelle «d’interesse ufficiale e pubblico». Ma non fu così. Manno, perfino, si portò in villa i fondi più importanti: «Alta Polizia», gli affari riservati dell’Interno (fascicoli tipo Sifar), e «Provvidenze economiche concesse ai privati», cioè le clientele dell’epoca (donazioni tipo tangenti). Conclusione: «Così, vanno alla casa reale le carte che dovrebbero essere dello Stato». Bene, è quell’archivio così segreto, lasciato dai Savoia per decenni a Torino anche quando la capitale fu portata a Roma, quindi spostato dal Quirinale a Mascara, in Egitto al seguito di Vittorio Emanuele III, poi a Cascais, infine in Svizzera, che ora dovrebbe essere a Torino. Ma ce n’è soltanto una parte. Mentre ci rimangono molte altre domande. Se Maria Gabriella non vuole ottemperare ai desideri di Umberto, perché non lo dice? Se invece vuole, perché non consegna medaglie e collari? Se teme per il nome del padre e del nonno, perché non s’appella alla legge italiana che tutela i documenti dei defunti per cinquant’anni? E non capisce d’alimentare così i peggiori sospetti, dall’uso distorto delle carte alla loro possibile alienazione? Una domanda anche a noi: se avanziamo pretese su quelle carte, perché nostre in quanto dei nostri re, perché non permettiamo agli eredi maschi, al di là della disistima personale, di consegnarcele personalmente, cancellando l’esilio? In fondo, come l’archivio Savoia, sono nostri anche gli eredi Savoia: nel bene e nel male.