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 2010  marzo 17 Mercoledì calendario

QUESTA FACCIA NON LA MIA

Vive con un volto nuovo da quattro anni. Da quando - il 27 novembre 2005 - ha accettato di rinascere sotto i lineamenti di un’altra.
Il viso di Isabelle Dinoire è il prodigioso risultato dell’incontro tra la vita e la morte. Del primo trapianto di faccia nella storia. Dopo che la sua, di faccia, era stata sbranata sei mesi prima dall’amatissima femmina di labrador, Tania, impazzita di fronte al corpo esanime della padrona, svenuta per un’overdose di sonniferi. Una vicenda che qui, per la prima volta, la protagonista racconta: il momento della scelta, la determinazione, il tormento, la quotidianità. E tutto quello che le permette di pensare alla vita, al futuro.
Perché ha accettato di sottoporsi a un trapianto tanto rischioso?
«Ricordo la prima cosa che ho detto ai chirurghi, dopo l’incidente: "Non penserete mica di lasciarmi in queste condizioni?". Con quel buco, quella voragine che mi ha costretta a passare sei mesi con una maschera, per non fare spavento a chi mi guardava. Certo, avrei potuto dire no, optare per il trapianto dei lembi - dove la parte mancante viene sostituita da "pezzi" della tua stessa pelle, prelevati in zone sane - ma avrei avuto solo il simulacro di un volto. Eppure ci ho messo tre giorni prima di decidermi a firmare. Volevo conoscere i minimi dettagli di quello che mi aspettava. Era un intervento senza precedenti, non c’era nessuno che avesse fatto da cavia, nessuno a cui potessi raffrontarmi. E non c’era nessuna garanzia di successo. La scelta l’ho fatta da sola, pienamente consapevole dei rischi. E oggi posso dire di avere fatto bene, perché questo trapianto mi ha salvato. Finalmente posso di nuovo guardar mi, immaginarmi, proiettarmi. Certo, c’era il terrore del fallimento, ma ha pesato di più la speranza di tornare a essere qualcuno. Senza volto, non c’è vita».
Il trapianto era avvenuto in segreto, ma poi c’è stata una fuga di notizie.
«E ancora non si sa chi era il colpevole. Da quel giorno, i media mi hanno dato la caccia, come fossi una bestia rara. Hanno aggredito mia madre, le mie figlie. Si sono procurati il numero di telefono diretto della mia camera all’ospedale di Amiens. Vivevo nel terrore che qualcuno riuscisse a fotografarmi. Per qualche tempo, infatti, ho continuato a nascondermi con la maschera. I più accaniti sono stati i giornalisti inglesi. Sono riusciti a rintracciare i genitori della donatrice, hanno pubblicato la foto di quando era viva. L’ho scoperta solo in seguito, su Internet. Era una foto vecchia, fortunatamente, ma io l’ho vista. Proprio per mettere fine al delirio, nel febbraio 2006, l’équipe medica che mi aveva seguita ha deciso di tenere una conferenza stampa. Quando sono state mostrate le foto del prima e del dopo, c’è stato un certo turbamento, seguito da un lungo silenzio: la gente, finalmente, aveva capito che il trapianto era stata la scelta giusta, l’unica scelta possibile».
Che effetto le fa il fatto di essere stata la prima?
«Lei non ci crederà, ma mi sono sentita a lungo in colpa. In ospedale, ho conosciuto un uomo orribilmente sfigurato che si era dovuto accontentare del trapianto di lembi cutanei. Non potevo dirgli la verità, mi ero impegnata a tenere il segreto fino a quando fosse arrivato il momento di divulgare la notizia. Mi chiedevo: perché io e non lui? Siamo diventati amici, ogni tanto lo vedo ancora, e mi ha confessato che, al posto mio, non avrebbe avuto il coraggio di fare da cavia. Forse doveva essere una donna la prima. Forse la nostra immagine è così strettamente legata alla nostra idea di femminilità, che siamo disposte a tutto per non perderla».
Come ha reagito la sua famiglia quando ha saputo della decisione di tentare il trapianto?
«Dovrebbero essere loro - mia madre, le mie figlie - a dirlo. Certo, è un’avventura che le ha toccate da vicino. Soprattutto mia madre, che ha partorito quella che ero, e che ora deve accettare il fatto di vedermi cambiata per sempre. Non posso parlare a suo nome. Anche perché, di questo, io e lei non abbiamo mai parlato. Non ancora, perlomeno. Forse un giorno troverà la forza di toccare il mio volto e mi dirà che capisce, e che è felice per me». Come è cambiata la sua percezione degli altri? «Lo sguardo degli altri mi pesa. La gente sa essere cattiva. Come quel negoziante che ha spruzzato il disinfettante quando sono entrata a fare la spesa con la mia maschera. Nella mia cittadina, c’è sempre qualcuno che si gira a guardarmi. Invece, nelle grandi città come Parigi la folla mi ignora. Oggi, mentre venivo qui in treno, nessuno mi ha degnato di uno sguardo. Neanche al ristorante. Il tempo gioca a mio favore, attenua le mie cicatrici. Tutto sarà diverso quando passerò davvero inosservata. Sarà il segno di una vera normalità. Incognito: mi piace questa parola». E gli uomini? «Vivo sola. Gli uomini non sono una priorità. Del resto, con questa faccia, chi mi vorrebbe? quello che mi sono detta all’indomani del trapianto, e lo penso ancora».
Che cosa ha provato quando si è guardata allo specchio per la prima volta?
« stato qualche giorno dopo l’intervento. Non riuscivo a capacitarmi di come fossero riusciti a "riempire il buco". Mi sembrava un miracolo. La pelle era liscia, bella. Certo, c’era la linea di demarcazione, dove finiva la mia pelle e iniziava la sua, ma fortunatamente aveva anche lei l’incarnato pallido. Quello che era stranissimo, invece, erano le sensazioni all’interno. Mi disgustava sentire le labbra e le guance dell’"altra". Mi sembrava un corpo molle, estraneo. Solo quando ho iniziato a muovere la bocca, a rieducare i tessuti grazie alla terapia, solo in quel momento l’ho fatta mia. E allora ho fatto spazio alla donatrice. Da due che eravamo, siamo diventate una. Non rinuncio a me stessa, non cancello lei, che morendo mi ha dato la vita. La considero una sorella. All’inizio avevo paura di farle male, di ammaccarla. Per me è come se convivessimo, e credo sia stata la mia salvezza la capacità di vedere così la nuova Isabelle. Guardarmi allo specchio è ormai quasi normale. Poco a poco, tutto riprende il suo corso. Mi trucco, metto il fondotinta per nascondere la cicatrice, il rimmel sulle ciglia. Solo al rossetto devo rinunciare, perché le labbra vanno costantemente idratate».
Ha dimenticato la «vecchia» Isabelle?
«Assolutamente no. La carta d’identità con cui giro ha la foto del volto che avevo: non mi decido a cambiarla. E quando, poco tempo fa, ho dovuto fare il passaporto e scattare una nuova foto, è stata una sofferenza atroce. Come rinnegare l’altra Isabelle, quella che non voglio e non posso sotterrare. Nessuno può dirmi che non esisto più. Ecco perché tengo alle vecchie foto: sono l’unico ricordo di quella che ero. Le ho messe tutte insieme, le porto sempre in borsa con me. Ogni tanto riguardo il video di una vecchia festa di compleanno. Ma posso farlo soltanto quando sono sola in casa: l’emozione è troppo forte».
Mi racconta la sua vita quotidiana?
«Abito in una casa molto semplice con la mia figlia minore e il mio cocker, Ange. Si chiama Ange, come l’angelo custode: non ho mai smesso di amare i cani. Spero di trovare un lavoro part-time come segretaria. Continuo a fare riabilitazione, non riesco ancora a dare baci ma è solo questione di tempo. Dovrò prendere, fino alla fine dei miei giorni, un farmaco immunosoppressore, e il rischio del rigetto è una spada di Damocle con cui ho imparato a convivere. Controllo quotidianamente il mio volto per accertarmi che non cambi aspetto. Come invecchierà la pelle della donatrice rispetto alla mia? uno dei dubbi dei ricercatori. Vado regolarmente in ospedale, a Lione e Amiens, per fare visite di controllo e per dare il mio contributo alla ricerca sulle nuove tecniche di trapianto. Tengo molto a questo aspetto, è il minimo che io possa fare per dire grazie alla mia donatrice e ai dottori che mi hanno ridato un volto. Ultimamente sono stata in contatto con Connie Culp, la prima trapiantata di faccia negli Stati Uniti, per farle coraggio e darle la mia solidarietà».
Ha incontrato la famiglia della donatrice?
«No. Vorrei tanto, ma le leggi sulla privacy non lo consentono. Rispetto la loro scelta di non farsi avanti. Un giorno, spero, potrò dire loro grazie perché sono riusciti, nel momento del massimo dolore, a trovare la forza di farmi questo dono. una scena che ho immaginato centinaia di volte. Non so come abbiano fatto a dire "sì"».
Come l’ha cambiata, questa esperienza?
«Alcuni dicono che sono diventata più forte. Un’eroina, quasi. La verità è che, prima di passare per certe prove, neppure tu sai chi sei davvero. Mi sono - come dire? - riscoperta. Non pensavo di poter suscitare tanto interesse, tanto amore. Prima dell’incidente ero in una fase difficile e disordinata della mia vita. Non servivo a niente, non avevo obiettivi. Il trapianto mi ha costretta a combattere. Era da tanto che non mi sentivo come mi sento oggi. Era da tanto che non mi sentivo all’altezza».