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 2009  settembre 11 Venerdì calendario

MURO DI BERLINO (1989 - 2009) [CORRIERE DELLA SERA]


Muro di Berlino, Milano ricorda la caduta -

Appuntamenti culturali in diversi luoghi di Milano, fra cui mostre, performance e uno spettacolo teatrale, accompagneranno il prossimo 9 novembre le celebrazioni per il 20esimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Ad aprire la giornata sarà l’intitolazione dei giardini di via Montenero proprio al 9 novembre. Seguirà alle 12, nel cortile interno del Palazzo Reale, una performance di arte contemporanea a cui prenderà parte anche il ministro della gioventù Giorgia Meloni: l’artista Dario Milana realizzerà un muro alto più di cinque metri che verrà fatto cadere alla presenza di tanti ospiti. La Loggia dei Mercanti ospiterà fino al 22 novembre una mostra fotografica, «I graffiti del muro di Berlino», con 60 scatti risalenti a due anni prima della caduta del muro. Il centro di Milano sarà poi costellato di opere di arte contemporanea che parlano di muri e frontiere superate, sotto il titolo di «Plaza: Oltre il limite 1989-2009». «Non vogliamo celebrare con retorica e demagogia, ma realizzare una giornata che faccia riflettere sui tanti muri ideologici che sono ancora dentro di noi» ha detto l’assessore alla cultura del Comune, Massimiliano Finazzer Flory. Completano gli eventi una mostra alla biblioteca Sormani sulle pubblicazioni relative alla caduta del muro e uno spettacolo teatrale che andrà in scena il 16 novembre al Politecnico di Milano, intitolato «1989... Crolli».

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Dal salto di Konrad al volo in mongolfiera: le fughe per la libertà -

Studiavano il meteo: maree, venti e piogge. Erano minuziosi come solo i tedeschi sanno essere. Studiavano i punti deboli del Muro, per giorni e settimane. Cercavano le falle nei controlli di frontiera della città divisa in due dall’ ideologia e dalle mitragliatrici. Migliaia di persone, almeno diecimila ma più probabilmente trentamila, cercarono la fuga dalla prigione a cielo aperto che si chiamava Ddr, Germania orientale comunista, tra il 13 agosto 1961, quando il Muro sorse, e il 9 novembre 1989, quando crollò su se stesso.

Il primo a saltare quello che in quei giorni era solo un filo spinato fu Konrad Schumann, un soldato dell’ esercito dell’ Est di 19 anni. Quel giorno, 15 agosto, 48 ore dopo l’ annuncio della costruzione del Muro da parte del capo della Ddr Walter Ulbricht, Schumann era di guardia a un cantiere, di quelli che per oltre 150 chilometri stavano sostituendo il filo spinato con una più concreta e politicamente significativa barriera di cemento. Alcune foto fissano la scena: la giovane guardia passeggia, si guarda attorno, sembra dubbioso, volge lo sguardo a Ovest e salta il basso reticolato. Il suo volo sarà per sempre il simbolo della voglia di libertà dei berlinesi dell’ Est. Che da quel momento ci proveranno in gran numero a fare il salto ma con sempre maggiori ostacoli. Nel tentativo, i morti furono 231 nella città di Berlino, 275 sul confine non cittadino tra Germania Est e Germania Ovest, 134 nel Mar Baltico: per lo più, fermati dai cecchini. Il primo, Günter Liftin, 24 anni, ucciso il 24 agosto mentre nuotava verso Occidente nella Sprea.

Il più famoso, Peter Fletcher, 18 anni, che un anno dopo cercò di saltare il Muro, fu colpito dalle guardie e lasciato agonizzare per 50 minuti prima che i Vopos, la polizia del popolo, lo raggiungessero, troppo tardi. Molti altri, però, ce la fecero. La voglia di lasciare quel cimitero degli spiriti che era la Ddr, spinse Doris e Peter Strelzyk, con i due figli e una famiglia di amici, a costruire una mongolfiera. Il 16 settembre 1979 decollarono e dopo un atterraggio difficile scoprirono d’ essere in Alta Franconia. Felicità: ce l’ avevano fatta. Il giovane Thomas Krüger era invece parte di un’ associazione sportiva militare della Ddr e ne approfittò per salire su uno Zlin 42M, un aereo leggero, che portò fino alla base della Raf britannica a Gatow, non lontano da Berlino. I pezzi dell’ aereo furono restituiti al regime comunista con scritte tipo «Vi avremmo voluti qui» e «Tornate presto».

Molti ci provarono via mare o via Sprea, tanto che le autorità dell’ Est a un certo punto vietarono la vendita di materiale subacqueo. Altri, per esempio Ralph Kabisch, al tempo di 22 anni, e tre amici scavarono un tunnel sotto la fortificazione: da lì uscirono più di venti persone. E molti altri tunnel furono scavati. Moltissimi cercarono di attraversare con l’ ingegno dai posti di blocco. Un austriaco, per esempio, trovò un’ auto decapottabile che passava sotto la sbarra di Checkpoint Charlie: nascose moglie e suocera nella sportiva e, al momento buono, abbassò la testa e fu in Occidente. Alla sbarra orizzontale furono aggiunte sbarre verticali.

Le guardie di frontiera erano molto attente, perlustravano quasi tutte le auto. Non però le Isetta, la piccolissima della Bmw ritenuta troppo minuscola per nascondere una persona: per almeno sei volte, invece, qualcuno fu alloggiato di fianco al motore e passò il confine. Una signora, evidentemente minuta, riuscì a farcela nascosta in due valigie appoggiate una vicina all’ altra sul ripiano dei bagagli del treno: i Vopos non le controllarono. Altri provarono a sfondare il Muro con camion e autobus. Una voglia di scappare che dava alimento al coraggio e all’ ingegno. E che non si esaurì mai, per 28 anni. Fino a quel 9 novembre di 20 anni fa, quando il regime del Muro alzò le braccia e si arrese.

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«In tram per vedere l’ Est quando cadde il Muro» -

«Good Bye Lenin!» uscì nel 2003 e fu uno dei maggiori successi del cinema tedesco, tutto straniamento e tenerezza rétro. Storia di Alex, che cerca di fermare il tempo per tenere in vita la Ddr nella camera della madre malata all’ oscuro della Svolta e salvare una verità più intima attraverso una finzione amplificata dal meccanismo metacinematografico delle citazioni. Il regista Wolfgang Becker assomiglia poco al suo film, diffida dei voli e sta ben piantato in terra. Risponde davanti a una tazza di caffè bollente nel suo studio in un palazzo di fine Ottocento nel centro di Berlino, spettrale all’ esterno, dentro caldo e luminoso.

Che ricordo ha della notte del Muro? «Ero in auto quando sentii alla radio i rintocchi della Freiheitsglocke (la Campana della Libertà di Berlino, ndr), corsi al Checkpoint Charlie, il cambiamento avanzava di minuto in minuto. Oltre il Muro montava l’ onda degli applausi, poi la sbarra si alzò e un fiume di gente si riversò al di qua del confine sventolando i documenti, io andai nella direzione opposta, verso la Museumsinsel a Est, dove trovai altri occidentali persi come me. Si fermò un tram vuoto e il conducente ci invitò a fare un giro, solo due ore prima quell’ uomo non poteva immaginare che avrebbe fatto da guida notturna a berlinesi dell’ Ovest. Fu molto strana, quella notte».

Oggi una donna cresciuta nella Ddr guida la nuova Germania. «Più ancora che l’aver vissuto nella Germania comunista credo che sul suo modo di governare pesi il background da scienziata, Angela Merkel concepisce la politica come una continua soluzione di problemi. Il fatto che sia una donna le rende più facile sopportare l’ idea che un giorno sarà fuori dai giochi, un pensiero insostenibile per la maggior parte dei colleghi uomini. Per il resto è una leader durissima agevolata da un aspetto rassicurante, non fa giri e va dritta al punto, conosce l’ essenza del potere». In una scena del suo film divenuta celebre un Lenin di granito che ricorda il Gesù di Fellini sorvola Berlino e sparisce in un addio commosso. Nessuna nostalgia? «Nessuna. Il Gesù di Fellini era una pura immagine, io volevo dare un valore simbolico a Lenin che se ne va verso il tramonto, all’ Ovest. Mi trasferii dalla Westfalia nel 1974 e a vent’ anni ero già deluso da come la dittatura del proletariato avesse umiliato gli ideali delle origini, vivere a Berlino ovest rafforzò in me l’ odio per un sistema che negava i diritti democratici. La nostalgia di cui soffre oggi la generazione cresciuta nella Ddr non riguarda la politica, tocca corde più personali e questo è all’ origine del problema irrisolto fra i tedeschi delle due Germanie».

Nonostante lo sforzo di rielaborazione che è la base della ricostituita identità nazionale? «La rielaborazione del passato collettivo ha annullato la dimensione privata. Mio padre aveva stretto in guerra i legami più forti della sua vita ma non ne parlava mai perché la condanna totale del nazionalsocialismo non lo autorizzava a gioire dei ricordi. Le persone s’ innamorano, hanno figli, amano i loro figli anche sotto una dittatura, poi il sistema cambia e tutto viene oscurato». Il copione si è ripetuto con la fine del regime comunista? «Sì, pur con meno violenza. Nella Ddr c’ erano oppositori segreti e silenziosi che cercavano di trarre il meglio da una situazione terribile e che con il crollo del sistema sono stati accomunati in un unico giudizio inappellabile». Il racconto rende giustizia alle biografie dissolte dall’ ideologia? «In parte, le storie sono un modo di inseguire una verità che resta solo una domanda. Mi è sempre stato a cuore il tema della falsificazione, il meccanismo base della propaganda che consentiva di chiamare "barriera di protezione antifascista" il muro di una prigione e ispirava le canzoni dei Giovani Pionieri comunisti sulla bellezza di prati, laghi e montagne mentre il regime distruggeva sistematicamente l’ ambiente. Avevano un canale tv nella Ddr, der Schwarze Kanal, che mostrava come l’ informazione occidentale distorcesse la realtà dei Paesi del blocco. Contemporaneamente un programma dell’ Ovest, Zdf-Magazin, smascherava le menzogne socialiste, la manipolazione era meno evidente ma la dinamica era la stessa, come in quel fumetto americano degli anni Sessanta, Spia contro Spia, specchio contro specchio».

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Berlino festeggia i «Leoni del muro» «Gorbaciov, Bush e Kohl i nostri eroi» -

Sono giorni di groppo alla gola, in Germania, questi che portano al ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Ieri, in un teatro in cui di solito si balla il can-can, duemila persone avevano le lacrime agli occhi, commosse davanti a George Bush senior, Mikhail Gorbaciov, Helmut Kohl. «Tre Nazioni, tre uomini e un’ ora storica», ha detto il presidente federale tedesco Horst Köhler: la notte del 9 novembre 1989, quando i posti di blocco della Germania Est si aprirono e il popolo dietro al Muro passò a Ovest, a piedi o in Trabant, finalmente, dopo 28 anni. La storia si mise a correre e il presidente americano, il presidente russo, il cancelliere tedesco da quel momento diventarono gli argonauti in viaggio verso la riunificazione tedesca. Sono vecchietti, oggi, Bush (85 anni), Gorbaciov (78) e Kohl (79).

Poco solidi sulle gambe, l’ ex cancelliere in sedia a rotelle. Ma ieri la platea democratico-cristiana - l’ iniziativa era organizzata dalla Fondazione Konrad Adenauer - li ha nominati Leoni del Muro, con ovazioni continue. Il 9 novembre 1989 è la data dell’ evento più importante della seconda metà del Ventesimo Secolo per la storia tedesca, forse per quella del mondo: la breccia finale nella Cortina di Ferro che divideva l’ Europa. E la Germania, ogni anno che passa, si rende conto di quanto sia stata importante. Angela Merkel era presente alla cerimonia ma è rimasta in silenzio: d’ altra parte, quella notte di felicità, preferì fare una sauna invece che festeggiare. Ciò nonostante, la sua sola presenza di leader vincente testimoniava il nuovo ruolo del Paese. Allora ci furono questi tre grandi uomini - ha detto Köhler - ma ora «hanno preso la strada della politica anche le grandi donne». Celebrazione, prima di tutto, per i conservatori tedeschi che da quel momento puntarono alla riunificazione. Tra lo scetticismo interno e l’ opposizione di François Mitterrand, di Margaret Thatcher, di Giulio Andreotti e inizialmente dello stesso Gorbaciov.

Ma con l’ appoggio decisivo di Bush. «Quando ero di cattivo umore, in quei giorni - ha raccontato l’ ex cancelliere - prendevo il telefono e chiamavo Bush: ero sicuro che dopo sarei stato meglio». E anche con Gorbaciov «le cose erano facili - ha aggiunto -. Con i leader europei non ho mai avuto rapporti come con questi due uomini». Il risultato, nemmeno un anno dopo, il 3 ottobre 1990: la Germania tornava unita. Una commozione profonda, per Kohl, ricordarlo: noi tedeschi «non abbiamo nella nostra storia molte ragioni delle quali essere orgogliosi. Ma di quegli anni ho ogni ragione di essere fiero. Non ho niente di meglio, niente di cui essere più fiero della riunificazione tedesca». Giovani, anziani, uomini e donne con la mano al fazzoletto. Bush, che era accompagnato dalla moglie Barbara, ha sostenuto che la caduta del Muro non fu solo la fine della Seconda guerra mondiale ma anche della Prima: cioè dei drammi del Ventesimo Secolo in Europa.

«Ho zero dubbi - ha detto - che la storia ringrazierà Mikhail per quello che ha fatto», cioè per l’ apertura che introdusse nell’ Unione Sovietica e nel blocco comunista negli Anni Ottanta e per l’ atteggiamento di dissenso con le posizioni rigide e chiuse dell’ allora Germania Est di Erich Honecker. Gorbaciov, a Berlino assieme alla figlia Irina, ha reso omaggio alle capacità di Frau Merkel di rappresentare gli interessi della Germania nel mondo, ha sottolineato l’ importanza della relazione forte tra Berlino e Mosca e ha detto a Bush che anche gli Stati Uniti avrebbero bisogno di un po’ di perestrojka, di riforma. Alla fine dell’ incontro, tra emozioni e lacrime, duemila persone in piedi hanno cantato il Deutschlandlied, l’ inno nazionale di un Paese sempre più unito. Una giornata di ricordi tra grandi leader, ormai vecchi amici, che è finita con un ricevimento nella sede dell’ editore Axel Springer, che quando il Muro era in piedi costruì il suo grattacielo sul confine delle due Berlino, a celebrazione del capitalismo e della democrazia. La lunga settimana tedesca delle emozioni, da ieri al 9 novembre, è cominciata.

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Quel che resta della «fine della storia» vent’ anni dopo la caduta del Muro -

«Stiamo assistendo non solo alla fine della Guerra fredda, o al superamento di un particolare periodo della storia postbellica, bensì alla fine della storia come tale: ovvero, siamo al termine dell’ evoluzione ideologica dell’ umanità, dove inizia l’ universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come la forma finale di governo umano». Vent’ anni dopo la caduta del muro di Berlino, quali aspetti del mio saggio «La fine della storia e l’ ultimo uomo» (Rizzoli) restano ancora validi? E che cosa è cambiato? Il punto fondamentale - che la democrazia liberale rappresenta la forma finale di governo - regge ancora. Ovviamente esistono alternative, come la Repubblica islamica dell’ Iran o l’ autoritarismo cinese. Ma non credo che molti siano convinti che queste sono forme di civiltà superiori ai governi che esistono in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e nelle altre democrazie sviluppate, tutte società che assicurano ai loro cittadini un alto livello di prosperità e di libertà personale. La questione non è se la democrazia liberale rappresenti o meno un sistema perfetto, né se il capitalismo sia esente da problemi. Dopo tutto, siamo stati colpiti da questa immensa recessione globale proprio per il fallimento dei mercati svincolati da ogni regola. La vera questione è se sia emerso un qualsiasi altro sistema di governo negli ultimi vent’ anni a scardinare la mia tesi. E la risposta resta negativa.

Il mio saggio fu scritto nell’ inverno del 1988-89, appena prima della caduta del Muro di Berlino. A mio avviso tutto il pessimismo riguardante la nostra civiltà, in seguito ai terribili eventi del ventesimo secolo, con i suoi genocidi, gulag e guerre mondiali, non rappresentava il quadro completo. In realtà, il mondo era percorso da molte tendenze positive, tra cui la nascita della democrazia laddove erano esistite dittature. Samuel Huntington la chiamava «la terza ondata». Tutto prese avvio nel Sud dell’ Europa negli anni Settanta, con il ritorno alla democrazia in Spagna e Portogallo. Nello stesso periodo, si assistette alla fine di quasi tutte le dittature in America del Sud, eccetto a Cuba. Poi ci fu il crollo del Muro di Berlino e l’ apertura dell’ Europa dell’ Est. Ancora oltre, la democrazia ha rimpiazzato i regimi autoritari in Corea del Sud e a Taiwan. Siamo passati da un’ ottantina di democrazie nei primi anni Settanta a 130 o 140 due decenni più tardi. Certo, non c’ è stata una progressione lineare. Oggi assistiamo a una specie di recessione della democrazia.

Ci sono state inversioni di tendenza in Paesi importanti, come la Russia, dove vediamo il ritorno di un duro sistema autoritario senza rispetto della legalità, oppure in Venezuela e in altri Paesi dell’ America latina governati da regimi populisti. chiaro che il grande slancio verso la democrazia ha toccato i suoi limiti. In alcuni luoghi, oggi si verifica una reazione antidemocratica. Ma questo non significa che la corrente più consistente non sia ancora verso la democrazia. stato Samuel Huntington a fornire il principale argomento contro la teoria della «fine della storia». Lungi dalla convergenza ideologica, sosteneva, si assiste a uno «scontro di civiltà», nel quale cultura e religione si trasformano nei principali focolai di conflitto dopo la Guerra fredda. Per molti, l’ 11 settembre e le sue conseguenze hanno confermato la tesi di Huntington di uno scontro tra Islam e Occidente.

Ma nel complesso, occorre capire se le caratteristiche culturali sono talmente radicate da escludere ogni possibilità di sviluppare valori universali o una convergenza di valori. Qui sta la questione. E su questo punto sono in disaccordo con lui. La tesi di Huntington è che la democrazia, l’ individualismo e i diritti umani non sono concetti universali, bensì riflessi di una cultura che affonda le radici nel cristianesimo occidentale. Storicamente è vero, ma occorre aggiungere che questi valori si sono diffusi ben al di là delle loro origini. Sono stati accolti da società provenienti da tradizioni culturali molto diverse. Basta guardare gli esempi del Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Indonesia.

Le società fondate su radici culturali diverse hanno condiviso questi valori non certo perché sono i valori degli Stati Uniti, ma perché funzionano anche per loro. Forniscono il meccanismo della responsabilità di governo e consentono alle società di allontanare i leader poco affidabili quando la situazione peggiora. un enorme vantaggio a disposizione delle società democratiche, e la Cina ne è sprovvista. In questo momento la Cina può contare su leader competenti, ma prima aveva Mao. Non c’ è nulla che possa impedire, in futuro, l’ ascesa di un nuovo Mao se non si instaura qualche forma di responsabilità democratica. impossibile avere un buon governo senza responsabilità democratica. E credere altrimenti è un’ illusione pericolosa.

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I Cancelli? Dedicati alla caduta del Muro -

I giardini con la recinzione. Con quell’ inferriata anti-vandali montata pochissimi mesi fa e subito al centro di proteste, polemiche e relativi tentativi di abbattimento. I giardini del Mom, il locale delle birre fino all’ alba e dei residenti che protesta(va)no. Quello spiazzo verde sarà intitolato alla caduta del Muro di Berlino. Proprio quello. Decisione della giunta. Mancano pochi giorni al ventennale (9 novembre) dell’ evento simbolo della fine della guerra fredda. «Doveroso ricordarlo», dice Andrea Fanzago, Pd. la location semmai a suscitare qualche ironia: «Possibile che non ci fosse un luogo più adeguato per ricordare un momento storico che simboleggia la libertà?». Carlo Fidanza, vicecapogruppo Pdl, era stato il primo a chiedere di ricordare l’ anniversario: «Sono particolarmente lieto che dopo anni di impegno della destra giovanile l’ intitolazione cada proprio in occasione del ventennale». Anche Maurizio Cadeo, l’ assessore protagonista della battaglia pro-cancellata è soddisfatto: «Il fatto che si dedichi alla caduta del Muro un giardino attorno a cui è stato eretto un cancello potrebbe fare sorridere, se non si trattasse di un muro che ha causato vittime e sofferenze. Questa dedica vuole proprio essere un simbolo di libertà».

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In piazza a Lipsia con l’euforia e la paura. Quella notte il Muro tedesco iniziò a cadere
[Lo scrittore Ingo Schulze ricorda il 9 ottobre e le proteste che portarono alla fine della Ddr] -

Spesso vengo corretto, anche se con tatto: «Intende forse il 9 novembre?». «No. Il giorno decisivo è stato il 9 ottobre». «Ma come? Il muro è caduto proprio il 9 novembre!». «Sì, ma perché c’ era stato il 9 ottobre». La mattina del 9 novembre quasi nessuno avrebbe previsto la caduta del muro. Invece, il 9 ottobre si sapeva, e non solo a Lipsia, che quella sera avrebbe portato con sé una decisione, dopo la quale - in un modo o nell’ altro - niente sarebbe più stato come prima. Il 9 ottobre era un lunedì, il primo lunedì dopo il 7 ottobre, il 40° anniversario della Rdt. Di settimana in settimana la «Manifestazione del lunedì», collegata alla «Preghiera per la pace» nella chiesa di San Nicola a Lipsia, diventava sempre più grande. Una settimana prima si erano riuniti trentamila dimostranti. Avevo paura - ed ero al tempo stesso euforico. Motivi per avere paura ce n’ erano abbastanza.

La settimana precedente, a Dresda, c’ era stata una vera e propria battaglia tra soldati in uniforme e dimostranti attorno alla stazione centrale, dalla quale dovevano transitare i treni con i rifugiati dell’ ambasciata di Praga. Il fine settimana prima anche a Berlino, Lipsia e in altre città soldati armati di bastoni si erano scagliati su dimostranti e passanti. Fino a quel momento non ci era ancora dato di sapere con quale brutalità, con quale vena sadica, avessero agito in molti casi le cosiddette forze dell’ ordine. (...) Eppure, non restava alcuna scelta. Perché quando, se non adesso, si doveva scendere in strada? Avrei perso qualsiasi credibilità, di fronte a me stesse e ai miei amici, se me la fossi data a gambe levate. Anche per questo eravamo rimasti - per cambiare qualcosa. Prima che la mia compagna ed io, lavoravamo entrambi al Teatro di Altenburg, salissimo in macchina nel primo pomeriggio per andare a Lipsia, riempimmo il frigorifero per sua figlia tredicenne. Nel supermercato l’ offerta era ricca come non mai in questo giorno straordinario. Che strano! Come se fosse stato fatto apposta per noi! Lasciammo alla ragazza una busta con del denaro, poi delle monetine per il telefono e le scrivemmo il numero di un’ amica da chiamare nel caso non fossimo ancora tornati la mattina seguente.

Eppure più grande della paura era la speranza, anzi l’ euforia. In Polonia, il governo di Solidarnosc aveva già ampiamente delineato il destino del Paese, gli ungheresi avevano aperto le frontiere con l’ Austria il 10 settembre, il giorno dopo nella Rdt era stato fondato il «Nuovo Forum» - il primo gruppo di opposizione. Il grido «Vogliamo andarcene!» si era trasformato, dalla fine di settembre, in «Vogliamo restare qui!». Dall’ ultimo lunedì era diventato: «Noi siamo il popolo!». Partimmo presto per Lipsia, perché temevano che potessero essere sbarrate le vie di accesso alla città. Parcheggiamo l’ auto di fronte al museo Georgi Dimitrov. Dirimpetto, in una strada laterale, vedemmo alcuni veicoli militari e uomini in uniforme dei Gruppi combattenti. Da una grossa tinozza versavano a tutti del tè. Gli uomini in uniforme non erano più ragazzini, a molti spuntava la pancia sopra al cinturone. Passammo loro accanto quasi sfiorandoli, li guardammo - loro distolsero lo sguardo.

In centro, a una prima occhiata, le cose sembravano esattamente come sempre - ma all’ improvviso ci trovammo di fronte una lunga fila di veicoli militari. Si sentivano abbaiare i cani. (...) Davanti alla chiesa di San Nicola - erano le 16, un’ ora prima dell’ inizio della «Preghiera per la pace» - c’ era la calca. Non sapevamo che nella chiesa erano stati inviati centinaia di compagni del Sed (Partito Socialista Unificato di Germania) per occupare tutti i posti. Dalla chiesa riformata tornammo in Piazza Carlo Marx. I vicoli e le stradine del centro storico erano pieni di gente. Il lunedì precedente ero rimasto quasi paralizzato, quando avevo sentito per la prima volta «Via la Stasi!». Che fosse possibile qualcosa del genere, senza che orde di difensori della sicurezza dello stato si precipitassero sui presenti, mi sembrava quasi un miracolo. Una settimana più tardi, queste grida risuonavano alte e quasi familiari. Se le registrazioni delle due telecamere, issate sull’ edificio delle Poste in Piazza Carlo Marx, non sono state cancellate, si dovrebbe poter vedere come si era sviluppata la dimostrazione.

Per me era sorta dal nulla, d’ improvviso. Non era solo un corteo - una manifestazione - che si era messo in cammino dalla chiesa di San Nicola («Circolare! Circolare!»), diretto alla Piazza dell’ Opera. Perché improvvisamente da ogni dove confluivano sempre più persone. Tutti quelli che un attimo prima si trovavano in piazza quasi per caso, quelli di cui si sarebbe pensato che stessero andando a fare la spesa o semplicemente che tornassero a casa dal lavoro, si rivelarono veri e propri dimostranti. Scorrevamo sotto gli occhi delle due telecamere, l’ ampia strada davanti all’ edificio delle Poste e ci stupivamo che non accadesse niente. Poco prima di raggiungere la strada, rividi una compagna - «Tu qui!?» Mentre parlavano di conoscenti comuni, raggiungemmo il Georgiring e ci fermammo al rosso del semaforo pedonale.

Le auto passavano. (...) Ogni volta che cito questo momento nelle mie conversazioni, vengo accolto da un risolino, sono quasi deriso. Come se volessi, citando questi dettagli, sminuire la dimostrazione, irriderla. Ma perché ci si dovrebbe precipitare davanti a un’ auto in corsa? Perché non scacciare la paura dall’ anima con delle chiacchiere? Il quotidiano e lo straordinario esistono e non sono in due mondi separati. In pochi minuti, i veicoli che si fermavano al rosso dei semafori restavano intrappolati nel corteo. La strada era nostra. La tensione mi aiutava a unirmi al coro. Anche se mi è sempre stato difficile gridare tra la folla. Perché le «urla collettive» appartenevano a quel altro mondo, quello da disprezzare. Eppure, ora partecipare scacciava la paura e ci legava gli uni agli altri: «Elezioni libere», «Noi restiamo qui», «Nessuna violenza» e, sempre più spesso, «Noi siamo il popolo».

Dove erano gli uomini in uniforme? Mi sembrava che le «forze dell’ ordine» si fossero dissolte nell’ aria. Dalle finestre delle abitazioni circostanti e dai ristoranti si affacciavano sempre più persone. «Unitevi a noi!», «Via la Stasi!», «La Stasi nell’ economia politica» (anche se lo era già da lungo), «Gorbi, Gorbi!». Solo al coro pro Gorbi non mi unii. Senza Gorbaciov, lo sapevano tutti, non si sarebbe dato il via a tutto questo movimento. Ma il suo comportamento nei confronti degli Stati del Baltico mi irritava. Nel Baltico non sembrava affatto che la violenza delle armi fosse stata messa al bando. Quando svoltammo, tutto li Georgiring era assiepato di persone. Esultammo. Chi avrebbe potuto fermare questa massa? Il fatto che fossimo così tanti - settantamila - e che non ci fosse nemmeno un unico singolo idiota che tirasse una pietra, quello era il nostro trionfo.

Contro questa fiumana di persone sarebbero state efficaci solo le armi. Eppure che potessimo davvero essere colpiti da armi da fuoco, mi sembrava impensabile. Come oggi tutti sappiamo, restò a lungo dubbio se fosse stato dato o meno l’ ordine di «reprimere la controrivoluzione». La centrale operativa di Lipsia riteneva che un intervento armato fosse inutile. Attendeva la ratifica di questa decisione da Berlino Est - ma da Egon Krenz non venne alcuna risposta. Poco prima delle 18.30 il primo segretario di circoscrizione del Sed, Helmut Hackenberg, diede l’ ordine: «Lasciar andare i dimostranti e ritirarsi nell’ ombra», a meno che non si verifichino «attacchi alle forze dell’ ordine, a oggetti e impianti». Gli uni si ritirarono nell’ ombra, gli altri uscirono dall’ ombra. (...) Eravamo quasi sul punto di cantare: «Su lottiamo, l’ Ideale, nostro alfine sarà, l’ Internazionale futura umanità!». Il ritornello dell’ Internazionale - quasi nessuno era in grado di andare oltre la prima strofa e il ritornello - mi sembrava sorprendentemente adeguato.

Eravamo noi l’ Internazionale, ci sentivamo uniti ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli ungheresi, ai rumeni, ai russi, ai cinesi, ai cileni, ai sudafricani... Chi osserva le fotografie di queste prime dimostrazioni a Lipsia, noterà lo spazio tra le persone. Qui nessuno marciava in fila. I pochi striscioni erano di piccole dimensioni e venivano passati sopra le teste con l’ aiuto di corti bastoni, così che migliaia di impronte digitali avrebbero potuto essere rilevate con estrema chiarezza. «Visafrei bis Shangai - Senza visto fino a Shangai». Si camminava per le strade della città con un paio di amici fidati in una ancora tiepida sera d’ autunno e si era felici che ci fossero anche tante altre persone, senza le quali - in senso letterale - non ci si sarebbe avventurati per le strade.

Per la prima volta mi apparve chiaramente cosa intendessero affermare due secoli fa con la parola Fraternità, fratellanza. (...) Davanti al cosiddetto «Angolo rotondo», il palazzo dei servizi segreti, vedemmo uomini in uniforme, con tanto di scudi ed elmetti. Era la vera e propria sorpresa delle ultime due settimane, che anche i «nostri» avessero l’ aspetto dei poliziotti dell’ ovest. Una cinquantina circa di soldati così equipaggiati si erano disposti in una falange di fronte all’ entrata. Come si sentivano quei giovani, ragazzi comandati davanti alla porta, dopo che il gruppo compatto del «Noi siamo il popolo», era sfilato innanzi a loro? Avevano anche loro perduto la paura? Vennero accese candele sui gradini dell’ ingresso. L’ «Angolo rotondo» era in parte anche un carcere, nel quale ancora si trovavano rinchiusi dietro le sbarre coloro i quali erano stati arrestati negli ultimi giorni e nelle ultime settimane.

La città stessa imponeva il percorso lungo la Ringstrae. Quindi, sempre dritto fino alla Sala da concerti del Gewandhaus. Percorremmo il Ring e il cerchio si chiuse. Ci trovammo di nuovo in Piazza Carlo Marx. Questa ora ci aveva cambiato. Eravamo più liberi e più felici e più decisi che mai. Ma non eravamo i soli a essere cambiati. La città, il Paese intero erano diventati un qualcosa di altro in quest’ ultima ora. La nostra gioia, il nostro sollievo, il nostro giubilo risuonavano senza dubbio ancor più delle trombe di Gerico. Tutto sarebbe stato diverso, tutti i muri sarebbero caduti - «visafrei bis Shangai» - e il sogno della Primavera di Praga del 1968 sarebbe diventato realtà: un socialismo dal volto umano.

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Gorbaciov e Hobsbawm: il mondo dopo il Muro -

Vent’ anni fa cadeva il Muro di Berlino. Un intero mondo, basato sulla divisione tra due blocchi contrapposti, si sbriciolava in un istante passato alla storia, aprendo la strada a mille nuove aspettative. Oggi, dopo due decenni, che cosa è stato di quelle attese? Com’ è diventato il mondo uscito dalla Guerra Fredda? A tracciare un bilancio di questo ventennio, provando ad individuarne anche i futuri sviluppi, saranno gli oltre cinquanta tra statisti, alti funzionari, studiosi ed esperti provenienti da più di venti Paesi e da cinque continenti che domani e sabato si riuniranno nel Complesso monumentale di Santa Croce in Bosco Marengo, in provincia di Alessandria. L’ occasione è la conferenza internazionale «Venti anni dopo: il Mondo oltre il Muro» organizzata dal World Political Forum, l’ organizzazione non governativa fondata nel 2003 dal Premio Nobel per la Pace Mikhail Gorbaciov, che del processo che portò alla caduta del Muro è stato uno degli indiscussi protagonisti. Proprio a Gorbaciov, ultimo presidente dell’ Urss, spetterà il compito di aprire i lavori nella prima giornata di studio, incentrata su due grandi temi: «L’ Est: quale futuro dopo il comunismo?» e «L’ Occidente: collasso del capitalismo?». Tra i relatori che interverranno in queste due sezioni - dedicate a presente e futuro dei due ex blocchi - ci saranno anche Eric Hobsbawm, lo storico del secolo breve, l’ ex primo ministro spagnolo Felipe González e Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione Camera dei Deputati. Sabato, invece, la prima parte della giornata verterà sul tema «Il Pianeta: quanti mondi?», ovvero quante e quali divisioni, quali nuovi «muri» - politici, economici, ambientali - l’ umanità è riuscita a innalzare nuovamente dopo la storica caduta dell’ 89. La seconda e conclusiva sessione si chiederà invece quale politica si debba attuare «per un mondo differente: valori, mezzi, istituzioni». A discutere in questa seconda giornata saranno, tra gli altri, anche Giulietto Chiesa, Massimo D’ Alema, lo scrittore francese e attivista per la pace Marek Halter e il Decano del Collegio Cardinalizio Angelo Sodano. Per tutti, due giornate per fare il punto sui principali nodi che ci troveremo ad affrontare nei prossimi decenni (e sulle possibili soluzioni), nello spirito del World Political Forum, nato con l’ ambizione di essere un punto d’ incontro tra culture, religioni, società ed esperti di varie discipline, aperto alla discussione e al confronto.

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Germania unita. Quel no di Thatcher e Mitterrand -

I cinquecento documenti rilasciati dagli archivi del Foreign Office sulla fredda accoglienza che Margaret Thatcher e François Mitterrand riservarono 20 anni fa alle prospettive di una Germania unificata sono certamente interessanti. E’ divertente apprendere che la Lady di Ferro fu scossa da un brivido quando seppe che i deputati del Bundestag avevano cantato in piedi un inno che nella sua versione originale conteneva le parole «Deutschland über alles» (la Germania al di sopra di tutto). sorprendente scoprire che François bisbigliò a Margaret, nel corso di un colloquio, il suo timore che la nuova Germania sarebbe stata territorialmente più vasta di quella di Hitler. Ed è naturale chiedersi, con una punta di malizia, perché il Foreign Office abbia deciso di pubblicare ora, nel ventennale del crollo del muro di Berlino, documenti che avrebbe potuto conservare nei propri archivi, secondo la legge, per altri dieci anni. Ma è improbabile che questi documenti, quando potremo leggerli integralmente, ci raccontino una storia diversa da quella che già conoscevamo.

Per comprendere lo stato d’ animo dei protagonisti di quelle vicende conviene comunque fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la storia dei mesi precedenti. Come dice il titolo di uno splendido album fotografico pubblicato dal governo ungherese nelle scorse settimane, il 1989 fu «l’ anno dei miracoli». In marzo i sovietici andarono alle urne per eleggere il Congresso del popolo e poterono scegliere, per la prima volta, fra una pluralità di candidati. Qualche settimana dopo i polacchi appresero che una «tavola rotonda», composta dai rappresentanti del governo e della opposizione, si era accordata sulla data di elezioni finalmente libere. Poco più di un mese dopo, alla fine di maggio, i cinesi approfittarono della visita di Gorbaciov a Pechino per portare in piazza Tienanmen un fantoccio di papier maché che assomigliava maledettamente alla statua della Libertà.

Pensavamo che le repressioni poliziesche di Pechino dopo la partenza del leader sovietico, l’ arrivo dell’ estate e la partenza per le vacanze avrebbero interrotto la sequenza dei miracoli. Accadde invece che i turisti della Germania dell’ est in Cecoslovacchia e in Ungheria approfittassero delle vacanze per dire pubblicamente addio al loro «paradiso» socialista. Avevano riempito le piccole Trabant delle loro cose più care, avevano attraversato la frontiera e si erano installati notte e giorno di fronte agli uffici diplomatici e consolari della Repubblica federale per chiedere asilo alla loro patria democratica. Dopo un frenetico scambio di messaggi fra Berlino est, Mosca, Budapest e Praga, i turisti esuli furono autorizzati ad attraversare la frontiera con l’ Austria e a raggiungere la Germania occidentale. Nell’album ungherese vi sono commoventi fotografie di intere famiglie che fanno il bucato nel Danubio, stendono i loro panni sugli alberi del lungofiume, dormono sul marciapiedi in un sacco a pelo, spingono le Trabant verso il confine e piangono di gioia quando i doganieri ungheresi alzano le sbarre di frontiera.

La scena, in ottobre, si sposta a Berlino est dove la nomenclatura comunista si appresta a celebrare il quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica democratica. Gorbaciov ha deciso di partecipare ai festeggiamenti. arrabbiato con Erich Honecker, leader della Rdt e colpevole di avere accolto freddamente il programma riformatore del Cremlino. Il viaggio servirà a redarguire il satellite riluttante e a dimostrare che la perestrojka può essere il programma comune di tutto il blocco sovietico. Accadrà invece il contrario. Come i cinesi a Pechino, i tedeschi della Germania orientale approfittano della visita di Gorbaciov per inscenare manifestazioni che cominciano a Lipsia e si concludono trionfalmente a Berlino. Da quelle manifestazioni e dal crollo del muro comincia, con un tragicomico crescendo, il rapido declino del regime comunista. Alla fine del 1989 il cancelliere Helmut Kohl ha già deciso di cogliere questa storica occasione: la Repubblica federale avrebbe annesso la Repubblica democratica e ricomposto l’ unità della patria tedesca. Fu questo il momento in cui i maggiori leader europei cominciarono a manifestare le loro preoccupazioni. Conosciamo i sentimenti di Margaret Thatcher e sappiamo che Giulio Andreotti, prendendo a prestito una battuta del romanziere François Mauriac, disse di amare la Germania al punto di preferire che ve ne fossero due.

Ma il leader più inquieto era certamente Mitterrand. Il presidente francese aveva stretto eccellenti relazioni con Kohl, ma sapeva che l’ asse franco-tedesco poggiava su un rapporto asimmetrico. La Francia era economicamente più debole della Germania, ma aveva il rango del Paese vincitore, un arsenale nucleare e un seggio permanente al Consiglio di sicurezza. La Germania era un colosso economico, ma era dimezzata e aveva tuttora, 44 anni dopo la fine del conflitto, una sovranità parziale. Finché le cose fossero rimaste così ciascuno dei due Paesi avrebbe potuto contare sull’ amicizia dell’ alto. Ma che cosa sarebbe accaduto il giorno in cui la Germania, finalmente riunificata, sarebbe diventata nuovamente la potenza dominante della Mittel Europa? Per evitarlo Mitterrand cercò di correre ai ripari con una improvvisa visita a Berlino est nel gennaio del 1990. Era una dimostrazione di fiducia nell’ esistenza dello Stato comunista dietro la quale si nascondeva il disegno di una Confederazione germanica costituita da due Stati sovrani. Il presidente francese aveva parecchi alleati nella società tedesca. Gerhard Schröder, futuro cancelliere social-democratico, Joschka Fischer, futuro ministro degli Esteri, e Günter Grass, icona della intelligencija di sinistra, erano dello stesso parere.

Troppo tardi. Kohl non volle perdere il treno della storia e poté contare sulla collaborazione di George Bush sr., molto più lungimirante dei leader europei. Esisteva ancora tuttavia un nodo da sciogliere. Occorreva convincere l’ Unione Sovietica di Gorbaciov che l’ unificazione tedesca non avrebbe turbato gli equilibri est-ovest. Nel corso di un colloquio con il segretario di Stato americano James Baker a Mosca nel 1990, Gorbaciov disse che avrebbe ritirato le truppe sovietiche dalla Ddr (300.000 uomini), ma non avrebbe tollerato l’ esistenza di una Germania unificata nella Nato. In un articolo apparso nell’ ultimo numero di Foreign Policy (la rivista americana diretta da Moisés Naím) l’ ex senatore Bill Bradley scrive che Baker, dopo un lungo negoziato, aveva guardato Gorbaciov negli occhi e gli aveva detto: «Senta, se lei toglie le sue truppe e permette la riunificazione della Germania nella Nato, la Nato non espanderà di un pollice verso est». Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente, ma gli americani si giustificano sostenendo che l’ interpretazione corretta delle parole di Baker è: «Non stazioneremo truppe non tedesche della Nato nei territori che avevano fatto parte della Germania Orientale». Celebriamo dunque con gioia la caduta del muro e l’ unificazione tedesca, ma non dimentichiamo che in quegli stessi mesi, mentre si alzava infine il sipario di ferro, Washington gettava il seme della nuova crisi che avrebbe turbato i rapporti russo-americani vent’ anni dopo.