Giornali vari 13/9/2007, 13 settembre 2007
FRANCO FORESTA MARTIN
ROMA – E’ una fotografia dell’Italia aggredita dal riscaldamento globale, quella che il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio ha consegnato ieri all’opinione pubblica, davanti al capo dello Stato Giorgio Napolitano e al presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella giornata di apertura della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici in corso alla Fao. Napolitano ha detto che, per fronteggiare i pericoli «è essenziale che l’Europa parli con una sola voce», mentre Bertinotti ha parlato di «problema gigantesco che richiede una grande riforma della politica».
Il «problema gigantesco » ha due nomi specifici: «mitigazione» e «adattamento».
Su entrambi, per il governo, non è facile trovare un accordo, sia a livello tecnico che politico. Mitigazione vuol dire effettuare i tagli alle emissioni dei gas serra previsti dal Protocollo di Kyoto; e su questo fronte c’è un contenzioso, ormai storico, fra il ministro dell’Ambiente e il mondo industriale. Il settore elettrico, in particolare, spalleggiato dal ministero delle Attività produttive, ritiene troppo onerosi i tetti di emissione imposti agli impianti e minaccia blackout elettrici. Adattamento, invece, significa adattarsi al cambiamento climatico, ma non in maniera passiva, piuttosto realizzando opere di difesa e di prevenzione per limitare i danni degli estremi climatici. Anche su questo tema non mancano divergenze fra gli stessi tecnici del ministero dell’Ambiente.
MANIFESTO FINALE – Il ministro dell’Ambiente, con la convocazione della Conferenza, tenta di individuare una linea di azione condivisa dal governo. Oggi pomeriggio, a conclusione della Conferenza, presenterà al presidente del consiglio Prodi un manifesto sulle risposte che è possibile dare al cambiamento climatico. Sarà un documento, di buon senso, anticipa, che non è ancora il frutto di una concertazione fra i vari ministri, ma che potrà diventarlo; ma che intanto dovrà piacere al presidente del consiglio.
Per fare capire l’urgenza e la gravità del problema, ieri Pecoraro Scanio ha presentato una rassegna dei guasti all’ambiente e alla salute prodotti in questi ultimi anni dal surriscaldamento. La notizia più preoccupante riguarda le temperature, che da noi crescono a una velocità quadrupla rispetto al resto del mondo: +1,4 gradi centigradi negli ultimi 50 anni. «Fa più caldo e piove di meno, il 5% in media – ha aggiunto il ministro ”. Malgrado ciò abbondano i rovesci a più alta concentrazione, di conseguenza aumenta il rischio idrogeologico, soprattutto nell’Appennino Meridionale e nelle Alpi Occidentali. A erodere e scalzare i fianchi delle montagne ci pensa anche l’accelerata deglaciazione. In un secolo si è persa il 30% della superficie ghiacciata delle Alpi».
ESTATI AFRICANE – Perché il riscaldamento globale ci espone a un maggiore stress ambientale? La risposta viene fornita in una sessione scientifica del Convegno da un esperto in modelli climatici, il professor Antonio Navarra del-l’Ingv: «Ci troviamo su una linea di confine, tra le medie latitudini europee e l’area tropicale africana. Quest’ultima tende a spostarsi verso Nord. Così, d’inverno siamo ancora Europa, ma d’estate diventiamo Africa. L’estate del 2003, con almeno 5 gradi di temperatura sopra la media, è destinata a diventare la norma nei prossimi decenni».
L’agricoltura e il turismo sono i primi settori economici a subire i contraccolpi del cambiamento climatico. «L’eccesso di caldo e la scarsezza d’acqua potranno ridurre la produttività agricola del 22% – prevede Pecoraro Scanio ”. Le località balneari, oggi così affollate d’estate, diventeranno invivibili per le temperature torride; quelle delle vacanze invernali perderanno il fascino delle nevi».
MORTI ANTICIPATE – I contraccolpi sulla salute: «Per ogni grado di temperatura in più si stima un aumento del 3% della mortalità», informa il direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e territorio (Apat) Roberto Caracciolo. Il ministro azzarda una previsione delle perdite economiche dovute al disastro climatico: «Fino a 1,5 gradi di aumento di temperatura (ci siamo quasi) 50 miliardi di euro l’anno »; ma se si arriva ai 6 gradi paventati dalle peggiori previsioni per la seconda metà del secolo, la stangata climatica sottrarrebbe al nostro bilancio 200 miliardi l’anno (per confronto, l’ultima finanziaria è stata da 35 miliardi). I rimedi possibili? «Tagliare le emissioni dei gas serra, con investimenti di 3-5 miliardi l’anno, e realizzare opere di prevenzione per ridurre la vulnerabilità, investendo 1-2 miliardi l’anno.
SUMGAIT 6 LA OROYA
2 un complesso industriale
(foto) dell’ex Urss, in Azerbaigian: nella zona il tasso di cancro è dal 22 al 51% più alto della media nel Paese
LINFEN
Nella provincia cinese dello Shanxi, vanta il titolo di città con l’aria più inquinata del Paese, a causa di gas di scarico e industrie Il complesso industriale per la produzione del piombo di Tianjin, in Cina, è responsabile della metà dell’inquinamento totale della regione In questa vallata dell’India si concentrano il 97% dei depositi di cromo del Paese e una delle più vaste miniere a cielo aperto del mondo Anch’essa in India; più di 50 fabbriche contaminano il suolo e la falda freatica con pesticidi, Pcb, cromo, mercurio, piombo e cadmio In questa città mineraria peruviana la percentuale di piombo nel sangue dei bambini eccede i limiti tollerabili nel 99,9% dei casi
7 DZERZHINSK
3 TIANJIN
Tra i maggiori centri di produzione armamenti dell’ex Urss, ospita circa 300.000 tonnellate di scorie chimiche a rischio di «fuga»
8 NORILSK
4 SUKINDA
In questa città mineraria siberiana, fondata nel ’35 come campo di lavori forzati, la speranza di vita è 10 anni sotto la media russa
9 CHERNOBYL
5 VAPI
Oltre 20 anni dopo l’incidente nucleare, gli esperti temono fughe di materiale radioattivo nell’acqua e nell’aria di questa zona dell’Ucraina
10
KABWE Sono quasi tutti in Cina, India e Russia.
Sono dieci, e le loro vittime sono 12 milioni.
la classifica dei Dieci luoghi più inquinati del mondo 2007 (a lato il primo classificato, Sumgait), diffusa ieri dall’organizzazione ambientalista Green Cross e dallo statunitense Blacksmith Institute.
Le cause: industria e sfruttamento minerario Nella «cintura del rame» dello Zambia, le miniere non sono più operative ma i resti di cadmio e piombo arrivano a 20 km dalla città
ROMA – «Ma io non sono un meteorologo...
».
Infatti, professor Massimo Cacciari: questa non è solo una questione di meteorologia.
«Effettivamente in discussione c’è la vita del pianeta».
Parliamone.
«Io sono catastrofista».
Lei?
«Io, esatto. Sa, letteralmente, cosa significa la parola catastrofe? Significa: mutamento di stato».
Lei dice che occorre cambiare lo stato dell’ambiente. così?
«Esattamente così. Noi dobbiamo provocare, quindi, un’autentica, gigantesca catastrofe».
Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio sostiene che...
«Lasci stare. Pecoraro dice cose vecchie, annuncia dati preoccupanti non noti, ma stranoti».
Lei è polemico, professore.
«No, non sono polemico. Ma informato. Leggo, ascolto e partecipo, se mi è possibile, a conferenze che affrontano i cambiamenti climatici che stiamo vivendo, e subendo».
Il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, è convinto che una stampa allarmista dia ingiustamente spazio ai teoremi apocalittici di certi ambientalisti.
«Ferrara fa bene a polemizzare con gli ambientalisti nostrani... ma anche lui deve convincersi, così come ho fatto io, che sull’argomento, ormai, non c’è più spazio per un dibattito. Ci sono dati scientifici chiari, inequivocabili: «Io?
No.
il clima sta cambiando e la situazione non è grave, ma di più. tragica ».
Perché Ferrara farebbe bene a polemizzare con gli ambientalisti?
«Perché io me li ricordo gli ambientalisti che, trent’anni fa, alzavano le barricate contro il nucleare».
Lei era favorevole a una soluzione nucleare?
Certo...».
Un ricordo più preciso, professore.
«Nel 1978, ero deputato del Pci e membro della Commissione Industria della Camera, alla quale fu affidata la realizzazione di un piano energetico nazionale: ebbene, sa che percentuale di energia nucleare pensammo di mettere nel piano?».
«Ipotizzammo una copertura nucleare del 12%».
Che fine fece il piano?
«Carta straccia, ovviamente».
Quindi lei dice che anche oggi...
«No, scherziamo? Oggi la via del nucleare sarebbe follia pura».
Follia, eh?
«Ma certo. Avrebbe costi pazzeschi ».
Altre strade?
«Sfruttare il sole, il vento. Oppure lavorare, bene, sull’idrogeno».
A lei, la soluzione dell’idrogeno piace.
«Beh, provo a immaginare come potrebbe diventare l’aria del pianeta se milioni di tubi di scappamento smettessero di sparare gas inquinanti».
La strada dell’idrogeno richiede investimenti importanti.
«Lei dice importanti. Io dico colossali e solo a parlarne, ecco, si rischia di scivolare nell’utopia. Ma mi chiedo: abbiamo un’alternativa?».
A proposito di alternative. Professor Cacciari: lei, come sindaco di Venezia, ha affrontato il problema dell’acqua alta criticando duramente un’opera che dovrebbe servire...
«Alt. Si fermi. Vorrà mica farmi parlare del Mose?».
Caro direttore, il vento del qualunquismo e dell’antipolitica soffia pericolosamente nel nostro Paese. Denunciarne la sterilità non è sufficiente. Va riconosciuto che la politica si sta rivelando sempre meno capace di assumere la responsabilità di decidere. Se non si inverte, e presto, questa rotta sarà difficile contrastare i moderni demagoghi.
Occorre avere il coraggio di affrontare i temi anche controversi, recuperando il valore superiore dell’interesse nazionale. E’ il caso del tema energia: una questione il cui impatto sulla competitività delle imprese, la sicurezza dei cittadini e la qualità dell’ambiente è enorme. Raccontare che vorremmo avere bollette meno care, evitare blackout ed utilizzare fonti «pulite » è troppo facile. La verità purtroppo va nella direzione contraria.
L’Italia presenta una particolare fragilità di sistema in questo settore. Abbiamo bollette fra le più alte, corriamo rischi importanti di blackout e siamo ben lontani dagli eco-obiettivi di Kyoto.
Attorno a noi, la situazione è ben diversa. Mentre noi ricaviamo il 50% dell’elettricità bruciando gas naturale, le fonti di approvvigionamento energetico sono – pressoché in tutto il mondo’ molto più equilibrate. Gas e petrolio, oltre ad essere le fonti più costose (e scarse) sono quelle che determinano una maggiore dipendenza da Paesi e aree geografiche instabili.
La nostra dipendenza energetica dall’estero è infatti oltre l’80%. Una cifra record, e preoccupante. In Europa, dove la situazione è molto diversa, il dibattito sull’energia è più evoluto che dalle nostre parti.
In Italia, facciamo grandi convegni sulle fonti rinnovabili di energia e organizziamo una conferenza sui Cambiamenti Climatici che Pecoraro Scanio ha trasformato in un social forum in giacca e cravatta. In Francia, Sarkozy rilancia il nucleare. Idem l’Inghilterra di Blair e Brown (che hanno peraltro rivalutato il carbone). Queste due fonti – carbone e nucleare – già oggi rappresentano in Europa mediamente oltre il 60% del mix di generazione dell’elettricità.
Il costo del petrolio e i problemi derivanti dal global warming provocato dai gas serra, hanno riportato l’attenzione di tutto il mondo verso il nucleare (l’ultimo numero dell’Economist ha dedicato la copertina alla «Nuova era dell’energia nucleare»).
L’energia atomica rappresenta oltre il 30% nel mix di generazione europea ma da noi è stata abbandonata dopo il referendum dell’87, che non può certo impedire oggi al legislatore, di tornare a disciplinare la materia. Una scelta che è costata al sistema Italia cifre enormi. Il nucleare di terza generazione garantisce minori costi e maggiore sicurezza.
Per carattere, rifuggo dai catastrofismi. Credo però che non possiamo continuare ad ignorare la valenza strategica di questi argomenti. Le nostre imprese stanno realizzando, anche all’estero, investimenti importanti. Quel che lodevolmente già fanno i privati rischia di non essere sufficiente. La politica, il Parlamento, deve fare la sua parte. Riconsiderare l’opportunità di rilanciare anche da noi il nucleare non è una provocazione culturale. E’ una seria opzione di politica industriale ed energetica del Paese. Non è una scelta per l’oggi ma un investimento per il futuro, che vedrà i suoi risultati fra 10-15 anni.
A vent’anni dal referendum che ci ha pericolosamente allontanato dall’ Europa, in presenza di mutati standard tecnologici e di nuove condizioni di sicurezza rispetto ai tempi di Chernobyl, l’Udc presenterà in Parlamento una mozione (come deciso al recente Congresso nazionale) per impegnare formalmente il governo a riprendere la via del nucleare come scelta strategica energetica per l’Italia. Mi auguro che ciascuna forza di maggioranza e di opposizione voglia considerare con realismo questo approdo e che si realizzi su di esso un’ampia convergenza.
Uno studio presentato pochi giorni fa da Ambrosetti ha quantificato in 200 miliardi di euro il costo del «non fare», ovvero la sistematica e pregiudiziale opposizione a qualsiasi intervento infrastrutturale. Non ho gli strumenti per confermare questo dato ma sono consapevole che se continueremo a non decidere e a non mettere in campo seri progetti per i nostri figli saremo travolti dalla peggiore antipolitica. Che è persino più rovinosa della cattiva politica.
REPUBBLICA 13/9/2007
LUCA MERCALLI
Nell´ultimo secolo la temperatura terrestre è aumentata di circa 0,7 gradi: sembra poco, ma per gli equilibri del pianeta è un valore straordinario. In Italia l´incremento è ancora maggiore, un grado tondo: non i quattro gradi in più annunciati ieri sera dai telegiornali, ma comunque sempre un valore preoccupante. Questo è il dato che emerge dalle analisi che il Cnr ha effettuato sulle lunghe serie storiche di dati meteorologici che in Italia furono istituite fin dalla fine del Settecento. Perché questo aumento superiore alla media planetaria? L´ha spiegato ieri mattina a Roma alla prima conferenza nazionale sui cambiamenti climatici, Filippo Giorgi, ricercatore al centro di fisica teorica di Trieste: il Mediterraneo è un "punto caldo" nel sistema climatico terrestre, la penisola è un sensibilissimo termometro immerso in una zona di contatto tra la circolazione atmosferica temperata e umida dell´oceano Atlantico e quella calda e secca del nord Africa. Basta un piccolo spostamento degli anticicloni africani e ci si ritrova con estati roventi e siccitose dalla Sicilia alle Alpi.
Le conseguenze si vedono già ora: maggior rischio di incendi e desertificazione nelle regioni meridionali, minor innevamento e ritiro dei ghiacciai sulle Alpi, precipitazioni mal distribuite con episodi intensi che attivano frane e alluvioni su un territorio già fragile. Quest´estate, che al nord a molti è sembrata addirittura fresca, si chiude in realtà con 1,5 gradi oltre la media, il nono caso più caldo degli ultimi due secoli. E i ghiacciai hanno fedelmente registrato l´anomalia, con una perdita di 1,5 metri di spessore.
Bastano questi pochi numeri per sintetizzare il messaggio che ieri è emerso dai lavori della conferenza: è ora di agire per mitigare e adattarsi ai cambiamenti del clima, come indicano peraltro da anni gli accordi internazionali, primo fra tutti il protocollo di Kyoto che chiede la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. un accordo complesso e pieno di contraddizioni, di freni e di incertezze, ma è per ora il solo strumento che l´umanità è riuscita a mettere a punto per muovere i primi passi verso la sicurezza ambientale.
In questi stessi giorni, in Canada, un´assemblea del tutto simile a quella di Roma festeggia i vent´anni dell´entrata in vigore del protocollo di Montreal, l´accordo che mise al bando la produzione dei clorofluorocarburi (Cfc), gas inerti usati nelle bombolette spray e nei frigoriferi, responsabili della distruzione della fascia d´ozono stratosferico. Il "buco" che derivava da cinquant´anni di emissione ritenuta priva di rischi, fu individuato verso il 1974 e metteva a repentaglio la vita sulla terra, in quanto l´ozono agisce da filtro per la radiazione ultravioletta di tipo B, che se assorbita provoca mutazioni genetiche e il cancro della pelle sull´uomo. L´accordo, ratificato da 190 paesi, ebbe pieno successo, e oggi si prende atto che se pure il buco esiste ancora, lentamente è attesa una sua chiusura, fino a raggiungere nel 2055 le condizioni del 1980. Inoltre i Cfc provocano pure un potente effetto serra - da tremila a ottomila volte più intenso rispetto alla CO2, e il loro abbattimento per proteggere l´ozono ha indirettamente favorito il protocollo di Kyoto, con un contributo pari a otto miliardi di tonnellate di CO2 risparmiate.
Il bello è che il protocollo di Montreal è costato pure relativamente poco, un paio di miliardi di euro. Dunque può essere un buon modello anche per Kyoto: perché non mettere al bando la CO2 come si è fatto con i Cfc? Troppo facile: i Cfc avevano bell´e pronti un sostituto, gli idroclorofluorocarburi (Hcfc), non dannosi per l´ozono anche se pur sempre dotati di una certa azione serra, tant´è che oggi si cerca di rimpiazzarli a loro volta. Rimpiazzare petrolio, carbone e gas non è possibile solo con una firma, significherebbe restare al freddo, al buio e a piedi dall´oggi al domani.
Il nostro mondo si regge sui combustibili fossili e la loro sostituzione è un processo difficile, lento e costoso, che non ha una soluzione magica. Energie rinnovabili, efficienza energetica degli edifici e delle attività industriali, cambiamento delle abitudini di consumo, sobrietà e moderazione, soddisfacimento dei bisogni primari dei paesi in via di sviluppo sono sfide enormi e complesse. Kyoto non è Montreal, ma la lotta al buco dell´ozono offre la speranza di farcela: bisogna volerlo tutti, lasciando perdere litigi e tentennamenti: da oggi si cambia, speriamo anche in Italia.
OMA - Estati con il termometro fisso 4 gradi sopra la media. Il mare che invade 33 pianure costiere rubando 4.500 chilometri quadrati all´Italia. Più di metà del territorio nazionale mangiato dalla desertificazione. E´ questo lo scenario dipinto dagli esperti che si sono alternati nella sala plenaria della Fao durante la giornata d´apertura della Conferenza sui cambiamenti climatici organizzata dall´Apat a Roma.
Un incubo che può ancora essere evitato rimuovendo le cause del dissesto atmosferico. «Il cambiamento climatico non è una sorta di impazzimento della natura. La causa è nella politica di rapina e di dominio della natura che un lungo ciclo economico ha perpetuato», ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti aprendo i lavori. «Quello del cambiamento climatico e del futuro dell´ambiente è uno dei più gravi e complessi problemi globali del nostro tempo: per influenzare intese e sforzi coordinati che devono realizzarsi a livello mondiale è essenziale che l´Europa parli con una sola voce», ha aggiunto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lasciando la sala.
Questo avvio di dialogo tra scienziati e istituzioni è il vero obiettivo della conferenza nazionale che si concluderà oggi: la diagnosi ormai è chiara, quello che manca è la terapia, la strategia per ridurre i danni da riscaldamento globale. A delinearla ha provato il ministro dell´Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio.
«Abbiamo accumulato dieci anni di ritardo rispetto agli obiettivi di Kyoto, ora è arrivato il momento di agire per mettere in sicurezza il paese evitando che le frane si moltiplichino sotto la spinta di piogge sempre più concentrate, che gli incendi corrano fuori controllo come è successo quest´anno in Grecia, che l´Adriatico si trasformi in una palude», ha detto il ministro dell´Ambiente. «Non agire costerebbe dalle 10 alle 40 volte in più rispetto al finanziamento di un serio piano di lotta ai cambiamenti climatici: con un investimento di circa 5 miliardi di euro l´anno possiamo metterci al riparo dal disastro incombente; mentre l´inazione ci condannerebbe a subire un danno che oscilla tra i 50 e i 200 miliardi di euro».
L´Italia, assieme a Spagna, Portogallo e Grecia, si trova infatti sul fronte più esposto: negli ultimi 50 anni nel nostro paese la colonnina di mercurio è salita di 1,4 gradi, cioè la crescita della temperatura ha viaggiato alla velocità di 2,8 gradi per secolo, quattro volte sopra la media degli ultimi cento anni. Un aumento particolarmente alto, ben superiore alla media mondiale, anche se questa stessa media continua a lievitare: attualmente cresce di 0,2 gradi per decade, 2 gradi in un secolo.
Per invertire la tendenza occorre ridurre l´uso dei combustibili fossili: con il trend attuale, nel 2050 i 27 miliardi di tonnellate di anidride carbonica diventerebbero 90 miliardi mentre il pianeta, con le foreste e gli oceani, è in grado di catturare oggi solo 12 miliardi di tonnellate (in futuro le capacità di assorbimento diminuiranno, perché più aumenta il riscaldamento più i sistemi naturali che catturano l´anidride carbonica s´indeboliscono).
Ma la definizione di una nuova linea energetica chiama direttamente in causa il ministero dello Sviluppo economico e la partita resta aperta. Anche se un primo segnale positivo, come ha fatto notare Salvatore Zecchini, presidente del Gestore del mercato elettrico, viene dal successo degli strumenti messi in campo per valorizzare le azioni virtuose: «Il mercato dei certificati verdi, dei titoli di efficienza energetica e delle unità di emissione gestiti dal Gme rappresenta un contributo notevole al raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei gas serra che il paese si è dato».
(a.cian.)
CIANCIULLO
ROMA - «Cosa fa un buon padre di famiglia di fronte a un rischio eccessivo, che può portare a conseguenze economiche non affrontabili? Mette da parte una piccola cifra e firma una polizza di assicurazione. Ebbene il riscaldamento globale costituisce una minaccia che rischia di mandare in tilt l´economia globale. E´ arrivato il momento di sottoscrivere un´assicurazione collettiva per prevenire il disastro». Achim Steiner, direttore dell´Unep, il Programma per l´ambiente delle Nazioni Unite, è a Roma per la Conferenza sui cambiamenti climatici. Un appuntamento che considera uno dei passi concreti che ogni paese dovrebbe fare per riprogrammare l´attività economica in funzione del nuovo clima.
Lei parla di assicurazione, ma le emissioni serra continuano a crescere e i primi effetti sono ormai evidenti. Non è troppo tardi per evitare il danno?
«E´ troppo tardi per azzerare il danno. Ma intervenire oggi con determinazione, chiudendo il rubinetto dei gas serra, vuol dire ridurre sensibilmente le conseguenze negative che ci aspettano. Agire subito o aspettare fa la differenza: secondo le stime di Nicholas Stern, l´ex chief economist della Banca Mondiale, l´impatto negativo sull´economia mondiale può variare tra il 5 e il 20 per cento del Pil».
La conferenza italiana è puntata sull´adattamento. Significa investire in un momento in cui c´è da stringere la cinghia.
«Investire non vuol dire rimetterci, anzi è l´occasione per ammodernare il sistema produttivo. Investire nelle fonti rinnovabili, e soprattutto nell´efficienza energetica, è una scelta perfettamente compatibile con i bilanci in attivo, come ha dimostrato la Germania diventando in pochi anni leader nel settore dell´eolico. Risparmiare energia vuol dire guadagnare. E infatti gli investimenti di capitale privato in questo campo sono cresciuti del 40 per cento».
Cosa rischierebbe l´Italia se rinunciasse a contrastare gli effetti del cambiamento climatico?
«Mi sembra che la lettura delle vostre cronache offra una risposta esauriente. Le piogge si sono ridotte e tropicalizzate il che vuol dire che aumentano le possibilità di alluvioni e frane; il Po è ridotto ai minimi storici; le centrali elettriche hanno problemi di approvvigionamento idrico. Incrociando queste notizie con le previsioni di un´ulteriore diminuzione delle piogge e della progressiva erosione dei ghiacciai, si ottiene un quadro abbastanza chiaro».
Quali misure propone l´Unep?
«Oltre all´adattamento bisogna puntare con forza a una drastica riduzione delle emissioni di gas serra. Ci vuole un salto tecnologico consistente. Faccio un esempio. Per riparare lo strappo al mantello di ozono prodotto dai cfc (clorofluorocarburi) è stato approvato il protocollo di Montreal che ha portato all´eliminazione di quelle sostanze. I sostituti, gli hcfc, sono innocui per l´ozono ma dannosi per il riscaldamento globale. Smettiamo di usarli: l´innovazione deve progredire per aiutarci a rendere più sicuro il mondo».
ROMA - L´energia scarsa e costosa è preoccupazione globale. Mentre da noi si discute se è più alto il rischio di un inverno troppo freddo o troppo caldo, il petrolio segna il suo record storico toccando a New York la soglia di 80 dollari. I mercati sono stati spaventati dalla riduzione delle scorte Usa e dal rischio che nuovi uragani nel Golfo del Messico mettano a rischio la produzione delle piattaforme. Non è bastato l´annuncio del cartello dei produttori dell´Opec di un imminente aumento della produzione.
Con i prezzi del greggio alle stelle è inevitabile che il gas cresca ulteriormente, rendendo ancora più roventi le polemiche nel nostro paese. L´Enel ha lanciato l´allarme sui ritardi nell´approvvigionamento del metano, principale fonte di energia per i riscaldamenti ed la produzione di elettricità e ieri il ministro dello Sviluppo Economico, Pierluigi Bersani lo ha confermato: «Anche quest´anno l´Italia potrebbe raggiungere il livello di guardia a causa della cronica carenza di infrastrutture, siamo al pelo».
Per il ministro dell´Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio le aziende fanno solo allarmismo: «Farebbero bene a preoccuparsi di come tagliare le emissioni di anidride carbonica. Periodicamente alcuni lanciano il rischio blackout, per non parlare dei veri problemi. Il rischio vero è di pagare miliardi di multe per non aver rispettato i limiti fissati dal protocollo di Kyoto». Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro al contrario mette proprio Pecoraro sul banco degli imputati: «Serve una revisione profonda del ministero dell´Ambiente, che deve aiutare a fare meglio le opere, non a bloccarle» e ha chiesto al premier Romano Prodi di avocare a sé alcune funzioni del ministero guidato dal leader dei Verdi. «Spero si sia sbagliato - è stata la risposta di Pecoraro Scanio - io già lavoro in stretto rapporto con il presidente del Consiglio».
Che il rischio di una mancanza del metano necessario in caso di picchi di freddo sia consistente lo ha confermato il presidente dell´Autorità per l´Energia Alessandro Ortis: «I potenziamenti sinora effettuati non sono sufficienti né a garantire la sicurezza del sistema energetico nazionale, né ad assicurare la disponibilità di flessibilità necessaria agli operatori. Anche il fabbisogno, del gas in particolare, è in continua crescita. Devono essere quindi accelerati gli investimenti, dagli stoccaggi ai rigassificatori, ed assunte iniziative per assicurarci fonti di approvvigionamento del gas sempre più affidabili e convenienti». Una necessità che secondo Bersani va affrontata facendo in modo che «ciascuno si carichi di questo problema, guardando in faccia le difficoltà». Un appello rivolto alle regioni e alle realtà locali, dove molto spesso nascono resistenze di fronte ai progetti «Quando c´è un´opposizione - ha detto il ministro - io ci metto la faccia e c´è bisogno che tutti ci mettano la faccia».
(l.i.)
LUCA IEZZI
ROMA - "Not in my backyard", non nel mio cortile, fatelo da un´altra parte. La risposta è la stessa da Rapulla (Potenza) a Trieste, da Porto Empedocle (Agrigento) a Settala (Milano). Le infrastrutture dell´energia fanno paura più dell´inverno «al buio e al freddo» paventato dall´Enel. L´avversione verso centrali elettriche, tralicci dell´alta tensione, stoccaggi di gas, terminal per il metano liquido è uniforme in tutto il territorio nazionale rendendo impossibile aumentare la capacità di fare "scorta" di gas (e cambiare il numero dei fornitori) o dotarsi di una rete elettrica fortemente interconnessa con l´Europa. Un interesse primario per un paese così dipendente dalle importazioni di materie prime per produrre l´energia di cui ha bisogno.
Invece l´Italia paga alla sindrome Nimby (è l´acronimo della frase inglese) una cifra impressionante: 40 miliardi stima una ricerca dello Studio Ambrosetti per conto dell´Enel. Il 90% dei cantieri subisce contestazioni e la lista delle opere bloccate è lunghissima,: nove progetti di rigassificatori bloccati, due centrali a carbone il cui destino è sempre incerto, linee d´interconnessione dell´alta tensione che rimangono bloccate per decenni, altre che rischiano di essere mai realizzate, stoccaggi del gas che vengono sottoutilizzati. Senza contare il costo dell´elettricità più alto d´Europa. Costruire ferrovie o autostrade non è facile, ma nel caso dell´energia basta instillare il timore per la salute per ottenere sostegno della popolazione e così i vari comitati hanno lanciato allarmi quasi mai supportati da evidenze scientifiche: un traliccio dell´alta tensione fa sempre male alla salute? Se esplode un rigassificatore a Livorno, crolla la torre di Pisa? L´anidride carbonica prodotta da una centrale a carbone dietro casa cambia il clima della mia zona? La risposta reale a questi timori è contata finora molto poco.
Il caso del comune di Rapulla che riesce a bloccare per 14 anni la più importante linea elettrica (entrata in funzione solo a gennaio 2007) del Mezzogiorno può essere ridotto a un "mistero" della burocrazia nazionale, però tutta la legislazione attuale lascia agli enti locali l´ultima parola nel settore energetico. Così le 10 regioni che hanno un surplus nella produzione elettrica varano piani "autarchici" per ridurre l´inquinamento e lo sfruttamento del territorio infischiandosene del deficit dei vicini, come nel caso dei tralicci tra Foggia e Benevento, in attesa di autorizzazione ma avversati a livello locale. Il paradosso di un Italia accesa a macchia di leopardo è alle porte: la Calabria fa blocco sui tralicci che la dovrebbero attraversare per alimentare la Sicilia, il comune di Latina è contrario alla costruzione della stazione di arrivo del cavo sottomarino che interconnette la Sardegna. La Puglia dice che due rigassificatori a Taranto e Brindisi sono troppi, stessi dubbi per il Friuli Venezia Giulia. Il governo centrale non è in grado di imporre gli interessi nazionali, il premier Romano Prodi ha incontrato lunedì il premier sloveno Janez Jansa: sul tappeto una linea d´interconnessione che garantirebbe all´Italia energia più sicura e a basso prezzo. Prodi però ha potuto solo chiedere «che il Friuli e la Slovenia appianino le loro divergenze».
I temi energetici pesano tanto nel destino degli amministratori: l´opposizione, di qualunque colore, cavalca sempre il malcontento popolare. Contro il rigassificatore di Brindisi si sono espressi sindaci, presidenti di Provincia e Regione di entrambi i poli prima dell´intervento della magistratura che ha bloccato tutto. I comitati "no-coke", contrari alla riconversione a carbone della vecchia centrale Enel a Torrevaldaliga Nord hanno pesato nelle elezioni per il Comune di Civitavecchia e persino nella vittoria del centrosinistra nel Lazio. Come dimostra il fatto che l´Enel, pronta ad attivare la centrale nel 2008, ancora teme che in extremis si blocchi tutto di nuovo.
Infine, quando centro e periferia si trovano d´accordo abbastanza a lungo, ci pensano le divergenze della maggioranza: il ministro dell´Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio è accusato di rallentare le autorizzazioni ai rigassificatori o imporre interpretazioni restrittive sugli stoccaggi. Ma ci sono esempi meno conosciuti: la sottosegretaria Laura Marchetti (Prc) ha sposato la causa del Comune calabrese di Montalto Uffugo contro una linea Terna. Dopo quattro varianti di tracciati alternativi bocciati, la quinta sembra essere quella buona. Linea da 200 km allungata di 27 attraversando altri sette comuni e aumentando i costi di una ventina di milioni. Peccato che gli altri sindaci siano già sul piede di guerra. Come si dice "non nel mio giardino" in dialetto calabrese?
LA STAMPA
Le situazioni più anomale
a Milano e Trieste: 3 gradi sopra
la media, poi Bologna (+2,5),
Firenze (+2,3), Torino (+2,2),
Roma (+1,3) e Napoli (+1,8)
Non è probabilmente casuale che l’amministratore delegato dell’Enel abbia lanciato l’allarme sui rischi di scarsità energetica per il prossimo inverno proprio alla vigilia della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici. Ha così ottenuto una vastissima platea per un problema importante e sciaguratamente sottovalutato, ma c’è il rischio che l’allarme si disperda e si stemperi in una somma di istanze e di aspettative, in un clamore di voci che rischiano di coprirsi e annullarsi a vicenda.
Non basta, infatti, lanciare cifre a effetto, sulla cui assoluta validità è talora lecito il dubbio.
Il calcolo della temperatura media di un Paese è soggetto a incertezze simili a quelle relative al calcolo dell’indice dei prezzi da parte degli statistici. Sotto l’etichetta «ambiente» si possono giustamente racchiudere problemi disparati come l’emergenza metano e l’emergenza rifiuti, il riscaldamento globale e gli incendi dolosi, i mari pieni di meduse e poveri di pesci, l’estate «torrida» per eventi meteorologici (che non c’è stata) e l’inverno gelido per imprevidenza energetica (che forse ci sarà). Concentrarsi semplicemente sui cambiamenti climatici è come minimo riduttivo e potrebbe costituire una sorta di alibi intellettuale. Tutte queste moltissime sfaccettature dei problemi ecologici si possono meglio sintetizzare in un concetto generale di «debito ambientale».
Per avere un’idea di che cosa sia il «debito ambientale» che ci opprime occorre ricordare che, negli Anni Settanta e Ottanta, l’Italia non si è limitata ad accumulare allegramente il terribile debito finanziario che oggi ne schiaccia la crescita economica e il meno visibile, ma ancora più ingente, debito pensionistico che rende problematiche le prospettive di un buon lavoro e di un buon salario per le generazioni giovani. Ha anche provveduto attivamente a deteriorare il proprio territorio, la propria atmosfera, le proprie risorse idriche; lo ha fatto sostanzialmente lungo tre direttrici diverse.
La prima direttrice è quella produttiva e deve essere considerata come la meno grave: specie nei decenni passati, in maniera forse non troppo diversa da quella della Cina contemporanea, l’imperativo dell’uscita da una povertà secolare ha impedito che si guardasse troppo per il sottile ai danni ambientali provocati dai nuovi insediamenti industriali. Pur di veder spuntare l’agognata ciminiera o la sospirata autostrada, Parlamento, sindaci e amministratori locali hanno chiuso un occhio sulle devastazioni provocate da nuove installazioni produttive. Quest’ondata è ora probabilmente terminata, ma ha inferto ferite con le quali dobbiamo convivere e che solo in piccola parte appaiono come risanabili.
La seconda direttrice è quella speculativa o, più generalmente, del vantaggio personale, più recente e ben più grave per l’enorme distanza tra il beneficio sperato dal singolo e il danno arrecato alla collettività. Rientrano in questa categoria i boschi centenari dati alle fiamme da parte di incendiari che sperano di essere pagati per estinguerle, magari sotto ispirazione di chi calcola di poter sostituire il bosco incenerito con una costruzione abusiva, così come il sabotaggio (o la non riparazione) di un acquedotto per alimentare un fiorente commercio di acqua, distribuita mediante autobotti, quasi sempre «in nero»; o ancora i problemi delle discariche e degli inceneritori, contro le quali l’opposizione popolare viene spesso alimentata da chi ha interesse a mantenere invariati i sistemi di smaltimento vigenti e i relativi appalti. Un misto disastroso di cinismo e miopia produce così i guasti ambientali che più direttamente si riflettono sulla vita di tutti i giorni e che lentamente ammazzano questo Paese.
La terza direttrice è quella dell’incompetenza e dell’inefficienza pubblica; è una lunga storia di decisioni ritardate, visti negati, progetti iniziati e mai terminati. la cronaca corrente di opere di sistemazione rallentate o bloccate perché nella «conferenza dei servizi» le autorità locali cercano di ottenere per il proprio territorio benefici speciali, incuranti di realtà più grandi; è il blocco per motivi di principio del nucleare senza domandarsi se le tecnologie non siano sufficientemente migliorate dopo la catastrofe di Cernobil e non possano oggi ragionevolmente giustificare quel tipo di investimento energetico. Tutto ciò fa sì che si finisca per lavorare soltanto in emergenza, senza scalfire la grande massa di arretrato che caratterizza il Paese, senza ridurre il «debito ambientale» che, anzi, insensibilmente aumenta.
Non basta quindi prendersela con la temperatura che sale, non sappiamo quanto per motivi ciclici e quanto per motivi di struttura, e magari cercare di imporre uno strisciante dirigismo, una dura limitazione delle scelte individuali, quasi a voler costringere l’intera popolazione a tornare a consumi e costumi del passato, a un’austerità energetica, di cui soltanto qualcuno ha rimpianto. Né è sufficiente sostenere che «l’ambiente conviene» riducendo un così vasto aspetto della realtà sociale e civile a un mero meccanismo di mercato. Occorre rendersi conto che il degrado climatico e ambientale è un aspetto di un più vasto degrado civile e politico che si presenta variamente diffuso in tutto il mondo, ma che mostra punte particolarmente elevate in Italia; e che il «debito ambientale» si accumula inesorabilmente senza che ci siano veri piani per fermarlo, a differenza di quanto succede per i debiti finanziari e pensionistici. E potrebbe essere questo il punto di partenza per un ragionamento serio su una nuova Italia; altrimenti si tratterà del fardello più pesante che lasceremo in eredità alle generazioni giovani.
mario.deaglio@unito.it
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DANIELA DANIELE
ROMA
Curioso che sia lo spauracchio di una catastrofe globale a farci sentire tutti «terrestri», sorvolando su nazionalità ed etnie. Una sensazione diffusa ai lavori della prima Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici che si è aperta ieri alla Fao e chiuderà i battenti questa sera. Effetto serra, temperature in crescita, risorse idriche in diminuzione, innalzamento dei mari, alluvioni, ondate di calore e malattie nuove per certe latitudini: scenari illustrati alla presenza delle massime autorità dello Stato e del Nobel Rita Levi Montalcini, attenta ascoltatrice in sala. Gli esperti hanno parlato e i politici anche. I primi hanno fornito dati allarmanti, i secondi hanno ribadito impegni e promesse.
Città torride
Sarà l’Italia a pagare il maggior scotto in termini di danni ambientali, alle persone e all’economia. Pochi esempi rendono l’idea. Il cambiamento climatico in atto ha già prodotto un risultato in Italia: la temperatura è aumentata quattro volte di più rispetto al resto del mondo. La situazione più critica è quella delle città: «Le anomalie più rilevanti del 2007 - denuncia Legambiente - sono state quelle di Milano e Trieste, dove la temperature media tra gennaio e giugno è stata di 3 gradi superiore a quella del 1961-90». Le medie vengono stravolte: più 2,2 gradi° a Torino, più 2.5 a Bologna e più 1.3 a Roma.
Le piogge diminuiscono, gli episodi di siccità si moltiplicano e la desertificazione non riguarda più soltanto l’estremo Sud, anche la pianura padana è in pericolo. I ghiacciai delle Alpi perdono acqua, come rubinetti chiusi male. Si sono ridotti della metà. Il mare sta cambiando il profilo delle coste. Un chilometro su 3 delle aree basse sta arretrando e 33 zone costiere rischiano di essere invase nei prossimi decenni. A pagarne il conto saranno anche agricoltura e turismo. Con danni economici che, valuta il ministero dell’Ambiente, andrebbero dai 200 ai 300 milioni di euro all’anno per la prima e dai 200 agli 800 per il secondo, fondamentale comparto del Paese.
Il conto economico
Le cifre globali sono da catastrofe economica: «Nell’ipotesi, ormai superata, che la temperatura globale cresca di 1,5 gradi - spiega il ministro Pecoraro Scanio - nel nostro Paese i costi per coprire i danni sarebbero di 50 miliardi all’anno. Nella situazione più catastrofica prevista a livello globale dal rapporto (crescita di 6 gradi di temperatura) i costi arriverebbero a 200 miliardi di euro l’anno».
E’ soprattutto la diminuita disponibilità di risorse idriche a far paura. Se qualcuno fosse interessato a scoprire che cosa significhi vivere in penuria d’ acqua, visiti regioni come il Tigray, in Africa, dove si percorrono chilometri a piedi, con un orcio sulla testa (le donne) verso pozzi cintati dal filo spinato, per assicurare acqua alle famiglie.
Gli impegni disattesi
Ricerche scientifiche e provvedimenti politici devono parlare la stessa lingua. E non è facile. Dalla conferenza di Kyoto sappiamo che l’Italia dovrebbe ridurre le emissioni di CO2 del 6,5 per cento entro il 2012. Ma, rispetto al 1990, considerato anno zero, le emissioni nel nostro Paese sono aumentate del 12 per cento. Vale a dire che, adesso, la riduzione alla data prevista dovrebbe essere del 18 per cento.
«Questa è la conferenza di un ministero, non dell’intero governo. Il rischio che dobbiamo evitare è che qui rimangano soltanto lodevoli discorsi. Se non interverrà la politica e certe priorità non finiranno in finanziaria, tutto il lavoro lascerà il tempo che trova», commenta Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera.
Dal quadro della situazione climatica nazionale, risulta che sono Puglia, Sicilia e Sardegna le regioni più interessate dalle condizioni di aridità, ma che anche altre, sia pure in misura inferiore, non ne sono esenti. Tra il 1951 e il 2000, l’aridità è aumentata anche nelle zone costiere del Centro. Nei Paesi del Mediterraneo, siccità e desertificazione dipendono senz’altro dalle variazioni climatiche, ma anche da un uso non sostenibile delle risorse naturali, come lo sfruttamento intensivo dei terreni e delle risorse idriche.
Ondate di calore e umidità, che a tratti ci fanno sentire come ai tropici, aprono la via a «immigrati» davvero pericolosi, a differenza di quelli che muovono da territori dove fame, sete e siccità sono il presente. I cambiamenti climatici portano malattie.
«Per la prima volta, in Italia, abbiamo avuto un focolaio di epidemia del virus Chikungunya», spiega Roberto Bertollini, responsabile di Oms Italia. Sono stati 197 i casi (e un morto). Una patologia con febbri alte e sintomi che la fanno scambiare per una brutta influenza, e per la quale non esiste vaccino. E’ diffusa dalla zanzara Aedes Aegypti, meglio nota come zanzara tigre, che ormai si è stabilita alle nostre latitudini.
Come influisce il clima sul piano globale? Bertollini riferisce gli ultimi dati disponibili, relativi al 2000, che definisce «superati in senso peggiorativo». Per esempio, il clima risultava già responsabile del 2,4% di tutti i casi di diarrea nel mondo e il 2% di tutti gli episodi di malaria, per un totale di 150 mila morti.
Sul piano europeo, l’analisi dell’Organizzazione mondiale della sanità, ricorda i 35 mila morti in eccesso per l’ondata di calore del 2003, ma anche i problemi legati alle alluvioni che, nello stesso anno, provocarono 250 decessi e colpirono circa due milioni di persone. I casi di salmonella, poi, salgono del 5-10% per ogni grado di aumento di temperatura.
Ma quello che preoccupa di più è l’interazione tra ondate di calore e inquinamento da ozono. «Si è calcolato - riferisce Bertollini - che un’ondata di calore fa crescere la mortalità del 10%. Se a questo si aggiunge l’effetto ozono, la mortalità aumenta del 13% e, nella popolazione anziana, può raggiungere percentuali anche più elevate».
In forte crescita sono anche le malattie gastroenteriche. Ne parla Luciana Sinisi, responsabile del settore ambiente e salute dell’Apat, l’agenzia per la tutela dell’ambiente. «Per il surriscaldamento cambia la qualità delle acque e negli alimenti si possono sviluppare micotossine - dice -. Nel 2003, tonnellate di cereali andarono perse per questa ragione. Del resto, più aumenta il caldo, più si sviluppano fenomeni di fermentazione».
Il clima causa anche il prolungamento della stagione dei pollini. «E siccome è cambiata la circolazione atmosferica - aggiunge la dottoressa Sinisi -, abbiamo nel nostro territorio molte varietà di piante allergeniche nuove che, trovando una temperatura più calda, attecchiscono».
C’è, poi, un rischio chimico pesante. «L’aumento della temperatura porta a una più veloce degradazione dei pesticidi che, così, perdono di efficacia. Questo fenomeno induce a un maggiore uso di prodotti. Il risultato è la contaminazione del suolo e delle acque. A medio termine, anche delle falde freatiche».
A questo punto, raccomandano gli esperti, il rischio di malattie non è più esclusivo campo d’azione del ministero della Salute. La prevenzione sanitaria e quella ambientale devono andare a braccetto.
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