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 2003  dicembre 23 Martedì calendario

Per Jouhandeau il cuore della poesia è nel furto, il manifesto, 23/12/2003  lungo le strade aperte dalla indagine sul soggetto, sulla creazione, sul desiderio che il tema della magia riaffiora - seguendo una via eccentrica e laterale - in alcune pagine della letteratura del ’900, legandosi in un’affinità intima e pericolosa con i dilemmi della forma, con i tormenti dello stile e con le pratiche della diserzione estetica e creativa più radicale

Per Jouhandeau il cuore della poesia è nel furto, il manifesto, 23/12/2003  lungo le strade aperte dalla indagine sul soggetto, sulla creazione, sul desiderio che il tema della magia riaffiora - seguendo una via eccentrica e laterale - in alcune pagine della letteratura del ’900, legandosi in un’affinità intima e pericolosa con i dilemmi della forma, con i tormenti dello stile e con le pratiche della diserzione estetica e creativa più radicale. Tutta l’arte, ha scritto Jacques Lacan, si caratterizza per una certa costruzione attorno al vuoto, tutta la riflessione attorno all’arte è un procedere a fari spenti, vacillando come sulla corda di un funambolo. Parlare di magia significa allora parlare del luogo preciso in cui, come durante una profanazione, l’attività creativa procede attorno a questo vuoto, lo organizza pensando a futuri svuotamenti. Svuotamenti di rituali, decostruzioni di teorie, sovversione di un immaginario mediato dal potere e dalle sue rappresentazioni, afasie rivendicate come sigilli alchemici per le proprie opere migliori. Quelle opere migliori che, scriveva Gustave Flaubert, sono spesso «prive di materia», attratte dal miraggio della trasparenza assoluta, sedotte dalla tentazione irragionevole di tornare da dove sono venute: una pagina bianca. Era il 1852, e in una lettera indirizzata a Louise Colet, il tormentato romanziere prefigurava un avvenire affollato di forme senza troppa qualità, inscritte, per quanto possibile, in un «libro su niente, senza alcun appiglio esteriore», capace di reggersi da sé, con la sola «forza del suo stile». Un palinsesto scombinato, senza soggetto «o, almeno, in cui il soggetto risulti quasi invisibile», e dove la scrittura appaia come un mero incidente di percorso, conseguenza del passaggio delle cose stesse su una pellicola grezza. Nessuno avrebbe immaginato che solo alcuni decenni più tardi, nella cittadina di Guéret, nei pressi di Limoges, cambiando segno e bersaglio, le parole di Flaubert sarebbero inaspettatamente uscite dal proprio contesto travolgendo l’esistenza di una tranquilla famiglia di provincia. Di ritorno da Parigi, un giovane di nome Marcel fece infuriare il padre - un macellaio piccolo borghese, autoritario quanto basta - comunicandogli la decisione, presa irrevocabilmente dopo aver letto, riletto e mandato a memoria lettera e destino di Flaubert, di rinunciare ad ogni ambizione accademica, per dedicarsi attivamente alla pratica della letteratura. Rinnegato e cacciato di casa, Marcel Provence si inventò una nuova identità cambiando pelle, abitudini e cognome. Ha inizio così l’avventura di Marcel Jouhandeau, scrittore sacrilego e mago profano che, sotto la copertura di una vita apparentemente rassegnata, condotta lavorando per trenta anni come precettore di latino al liceo Saint-Jean di Passy, ha saputo portare avanti un’incessante attività di scrittura e di corruzione di forme e di anime, solo in parte testimoniata dai circa duecento volumi che il 7 aprile 1979, giorno in cui morì quasi centenario, ne componevano la bibliografia. L’influenza esercitata da Marcel Jouhandeau sulla letteratura del ’900 va però ben al di là di quanto la cerchia, molto ristretta fino agli anni ’50, dei suoi ammiratori (dapprima Proust, poi Jacob, Paulhan, Léautaud, Crevel, Foucault, in parte anche Walter Benjamin) e adulatori (Maurice Sachs su tutti) indurrebbe a far credere e coinvolge una moltitudine di legami segreti, di connivenze sottili, di frequentazioni inaspettate, talvolta, inconfessate che, se scandagliate con maggiore attenzione, potrebbero rivelare ben più di una sorpresa (si può consultare il materiale raccolto da Jacques Roussillat nel libro Marcel Jouhandeau, le diable de Chaminadour, Bartillat, 2002). Santo alla rovescia, grafomane, ladro, omosessuale convertitosi al cattolicesimo per assaporare, accanto al piacere della carne, il gusto di una colpa capitale capace di far fremere anche lo spirito, nel 1929 Jouhandeau si attirò le ire della madre, la sola che in famiglia gli prestasse ancora attenzione, decidendo di sposare una ballerina conosciuta nel giro tutt’altro che rassicurante di Cocteau: lisabeth Toulemont, in arte Caryathis. Con lei, dopo vent’anni di convivenza in provincia, si trasferirà nei pressi di Parigi, inventandosi una seconda vita, e una specie di decadenza mondana che attirerà, nella sua casa signorile, visitatori da tutto il mondo (come si legge nel «resoconto» di Arbasino raccolto in Parigi, o cara). Fu proprio il matrimonio con lise, ricorda l’eccentrico marito, a salvarlo da una rovina pressoché certa, strappandolo a quelle che, negli anni precedenti, erano diventate le sue sole ossessioni: il furto e la magia. Lontano dal sostrato esoterico con cui alcuni affini al movimento surrealista impastavano le proprie opere, e, spesso - come nel caso di Daumal - si rovinavano la vita, per Jouhandeau la magia e il furto sono parte di un contro-cerimoniale poetico fatto di trasgressioni verbali e perversioni morali, volte ad una sorta di spoliazione furtiva (simile al «dépouillement» di cui parla André Gide) dell’individuo borghese, delle sue certezze, della sua sicurezza emotiva e passionale. «Cambiare il metallo in oro», scrive, «sarebbe in fondo ben poca cosa. Scoprire ciò che nasconde ogni ”singolarità”, il suo segreto: ecco l’arte suprema». Il 31 maggio 1952, tirato in 1250 esemplari dalla libreria «Les Pas perdus» di Parigi, Jouhandeau pubblicava a proprie spese un volumetto di sessanta pagine titolato Notes sur la magie et le vol (Note sulla magia e il furto): il trattatello è diviso in due parti, e si chiude con una data e una indicazione precise: «Chaminadour, luglio-agosto 1928». «Tutti i suoi libri», sosteneva Max Jacob, «sembrano costellati di chiodi d’oro», ma nessuno appare insidioso come questo. L’opera di Jouhandeau è disseminata di falsi indizi, di mezze verità, di sassolini gettati più per confondere, che per indicare una via, e non è escluso che, anche in questo caso, l’autore assegni al colophon il compito di trasmettere una falsa datazione. Di sicuro è «falsa» o, per meglio dire, immaginaria l’indicazione del luogo. Chaminadour è una sorta di città «invisibile», un cerchio magico in cui Monsieur Godeau (uno dei suoi doppi letterari) ha trasfigurato la giovanile Guéret, luogo da cui il padre lo aveva esiliato. A Chaminadour, nel ciclo omonimo di racconti pubblicati da Gallimard tra il 1934 e il 1941, la vita scorre apparentemente tranquilla, i personaggi che la abitano conducono un’esistenza educata e trasparente. Ma è una calma illusoria che «consuma come una fiamma secca» le loro vite, e dove l’esistenza più domestica ad ogni istante si prepara a cadere nell’orribile. Come l’Inferno, anche Chaminadour «ha le sue leggi, le sue esigenze, la sua bellezza, le sue virtù» e come «il Peccato, ha la sua logica, la sua etica, la sua estetica», basta scoprirle. A poco a poco, simile, in questo, a Cuore di vetro di Werner Herzog, la ricerca affannata di un guadagno irraggiungibile, il rubino rosso, fa calare sulla cittadina una nebbia di possessione, che rende opaca la superficie delle cose, e oscuri i volti che solo pochi istanti prima sembravano intelleggibili, facendo divenire possibile, anzi perfettamente coerente col sistema, ogni misfatto. A un critico disattento, notava Maurice Blanchot, potrebbe sembrare che Jouhandeau «non dica altro che ciò che vede, e ciò che vede si confonda con quello che tutti possono osservare», ma è proprio giocando sui registri di questa finta trasparenza che l’ideale flaubertiano dell’impassibilità (determinante nella sua «educazione sentimentale») viene progressivamente deformato fino a produrre una sorta di spaesamento permanente, un turbamento leggero e ipnotico capace (come l’ebbrezza cui accenna Benjamin nel saggio sul surrealismo) di allentare le maglie dell’io, allentando, al contempo, la rigorosa separazione tra veglia e sogno: «accade talvolta di uscire da noi stessi e di guardarci. Quanto tempo senza prendere sonno. Ad un tratto: è come cadere in una voragine». La abilità tecnica di Jouhandeau sta proprio nel fatto di essere un maestro nell’occultamento delle tracce di questa deformazione. Lo scrittore, chiosava ancora, a tal proposito, Blanchot: «non scrive in modo disinteressato per arricchire la letteratura di ritratti degni di nota; o quanto meno, se sente la necessità di scrivere, è per trasformare la propria vita dando a coloro che ne fanno parte - e a se stesso - il senso che verrà loro attribuito dal loro riflesso, dal loro simulacro letterario, quella sorta di strana ingannevole sembianza che li rende più veri di quanto non siano. Scrivere è una meditazione, e scrivere formando dei personaggi a partire da sé è un’esperienza che ha bisogno di essere pericolosa per essere autentica». «Ogni libro degno di nota - dirà Jouhandeau - è un attentato all’ordine e un oltraggio al pudore». Questa esperienza pericolosamente autentica, questo affronto etico-linguistico è precisamente l’esperienza primordiale di un atto poetico e pratico capace di penetrare nella realtà, lasciandosene al contempo possedere. Un atto in grado di stabilire con le cose una specie di «rapporto magico», di compenetrazione, e non di possesso. In questo senso, il furto è qui inteso come variante specifica della magia, come «possesso senza possesso»: «nell’istante in cui non si rispetta più la proprietà altrui, non si può più credere neppure alla propria. Il vero castigo del ladro è che non ”possiede” in alcun modo». La magia, nella prospettiva indicata da Marcel Jouhandeau, non è un mezzo faustiano per accedere all’opera, ma un meccanismo di scasso, un’effrazione leggera che incide la pagina, in un punto preciso, una «ferita secreta» (e a partire dal suo De l’Abjection, pubblicato anonimo nel 1939, il sintagma «blessure secrète» attraverserà come un fantasma gran parte della letteratura del secondo ’900), preparandola ad accogliere le ragioni di un processo creativo diverso da quello logico causale. «Scrivere come se la scrittura uscisse dalle cose», come se la creazione si indirizzasse a una temporalità diversa, a un desiderio «allo stato puro», introducendo «nel Mondo una ”differenza”, un elemento di disordine, qualcosa di imprevisto, di imprevedibile e di nuovo», una «certa inquietudine, un’anomalia»; sostituendo al rapporto causa-effetto, un nesso di matrice puramente espressiva, in cui non si dia più, tra passato e presente, tra prima e dopo, un rapporto di successione, ma di attualità. Proprio in questo ogni furto è fondamentalmente «magico», in quanto abolisce, non solo inverte, ogni rapporto, tra cui quello mercantilistico per eccellenza, il dare e avere, facendo ottenere «un utile gratuito» a chi ne pratica l’arte. Neppure la data di edizione delle Notes sur la magie et le vol, il 1952, sembra casuale. Solo un anno prima, Gallimard aveva ristampato, senza lo schermo dell’anonimato formalmente presente nell’edizione del 1939, il trattato De l’Abjection, di cui le Note sono senz’altro un’appendice spuria. Ma il 1952 è anche l’anno del Saint Genet di Sartre, in cui Jouhandeau è direttamente chiamato in causa: più come omosessuale, in verità, che come ladro. E se c’è un autore che, nella scrittura, e nelle considerazioni su magia, furto e poesia, è debitore di Jouhandeau, questo non può che essere Jean Genet. Nel 1952, Genet appare più come «un dandy, che come il ladro che era stato» (Cocteau), ciò non di meno, Jouhandeau non dimentica che fu proprio davanti ad un tribunale, nel maggio del 1943, che, accusato di un furto paradossale per aver rubato un esemplare delle Fêtes galantes di Verlaine (rubate per leggerle, e non per rivenderle, questo era il paradosso a cui i magistrati non potevano credere), al giudice che si rifiutava di prestar credito alla storia, Genet ammise per la prima volta nella sua vita di essere «uno scrittore». Fu grazie all’intercessione di Cocteau che lo definì, in una sua testimonianza, «il più grande scrittore di Francia», e poi raccolse firme in suo favore, che a Genet venne risparmiato il carcere a vita, a causa della recidiva. Se la cavò con tre mesi di galera, scontati alla Santé, dove gli riuscì di scrivere il Miracolo della Rosa. Non si sa molto, vista la reticenza e la tendenza alla menzogna come atto di difesa tipica di entrambi, dei rapporti tra Genet e Jouhandeau in quegli anni. In una testimonianza affidata ai diari che regolarmente pubblicava sulla ”Nouvelle Revue Française”, Jouhandeau affermava: «Mi sembra di essere stato il suo precursore e ne vado fiero, anche io ho commesso dei crimini, e scritto alcune Note sulla magia e sul furto». Il primo incontro tra Genet e Jouhandeau, mediato da Cocteau, risalirebbe proprio al 1943, quando Genet confessò di aver trovato grazie alla lettura di Prudence Hautechaume (un testo del 1927 in cui si raccontano le passioni di una giovane ladra, e che Genet farà ripubblicare da Gallimard, nel 1980, come tributo postumo al maestro scomparso) la volontà di scrivere Notre-dame-des-Fleurs. Pochi giorni dopo essersi incontrati, si rividero in gran segreto, come si conviene a dei malviventi, e Genet confidò a Jouhandeau la propria volontà di passare «dal furto alla letteratura». La risposta fu categorica: «Non lo faccia. Appena riuscirà a vivere della sua scrittura, perderà ogni talento. Continui a scassinare, piuttosto». Solo col furto, «rubando parole, le sarà possibile accedere per via diretta al cuore della poesia». E la «poesia», chioserà Genet, «consiste nell’affinare le virtù del ladro», nel concedersi alla pura esistenza degli oggetti, nell’ascoltare il richiamo di quella bellezza che viene «dalla nuda maestà delle cose», che «non ha altra origine che nella ferita, in ciascuno diversa, nascosta o visibile, che ogni uomo porta nascosta dentro di sé, e in cui si ritira quando vuole abbandonare il mondo». «Certi personaggi di Jouhandeau - ricorda Genet in L’Atelier di Alberto Giacometti - hanno la stessa nuda maestà» di queste cose, la stessa magica trasparenza dei loro atti criminali. Marco Dotti