Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  ottobre 13 Giovedì calendario

Anno 1979, la gabbia di Mirafiori e gli operai della Fiat

Da dove partì la marcia dei 40mila. La Repubblica 13/10/2005. «Prima o poi, qualcosa succederà. Non potremo restare a lungo dentro questa gabbia, la gabbia di Mirafiori. Mi sento un uomo colpito da un´umiliazione continua. Sì, umiliato: è la parola giusta. Umiliato e quasi prigioniero. Certo, a pensarci bene, oggi la Fiat è peggio di una gabbia: è una galera per quelli come me. E l´unico desiderio che ho è di sottrarmi all´umiliazione e di uscire dalla galera. Uscire e poter dire, finalmente: adesso respiro!». Era terreo il piccolo capo Fiat. E sul volto aveva anche la stanchezza di chi si è confessato a lungo, raccontando la propria vita dentro "la Feroce", la fabbrica di Mirafiori. Io ero meno stanco di lui, ma non mi rendevo conto di ascoltare una profezia inconsapevole anche per chi me la offriva: l´uscita dalla gabbia, la fine della galera. Una profezia che si sarebbe avverata dodici mesi dopo, il 14 ottobre 1980. Eravamo nel Settantanove, sempre in un giorno di ottobre. Un anno sporco di sangue per Torino. La città era straziata da due guerre, molto diverse fra loro, ma entrambe non più sopportabili. La prima guerra era quella condotta da due fazioni del terrorismo rosso, che si facevano concorrenza a suon di morti ammazzati. E non soltanto a Torino, naturalmente. L´anno si era aperto con l´omicidio dell´operaio comunista Guido Rossa, assassinato dalle Br a Genova, e del magistrato Emilio Alessandrini, accoppato da Prima Linea a Milano. Ma anche sotto la Mole c´erano stati dei morti. L´ultimo, il 21 settembre 1979, si chiamava Carlo Ghiglieno: un ingegnere che guidava la pianificazione del gruppo auto della Fiat, soppresso a rivoltellate dai killer di Prima Linea in via Petrarca, mentre usciva di casa per andare al lavoro. Questo delitto era tutto interno alla seconda guerra, combattuta dentro gli stabilimenti Fiat, nel modo che fra poco ricorderò. Diciassette giorni dopo la morte di Ghiglieno, l´azienda decise di licenziare sessantuno operai, ritenuti responsabili del clima di violenza che rischiava di travolgere l´esistenza della fabbrica. I due fatti spinsero Eugenio Scalfari e Gianni Rocca, il vice direttore senior di Repubblica, a inviarmi a Torino. A raccontare giorno dopo giorno il calvario della città provvedeva, con grande professionismo, Salvatore Tropea. Io avrei dovuto fare una cosa in più: cercare tre protagonisti della seconda guerra, un piccolo capo Fiat, uno dei licenziati e un operaio comunista che si opponeva a quella violenza senza fine. E fargli raccontare la loro vita dentro la fabbrica. Per primo trovai il capo Fiat. Era un torinese sulla quarantina che accettò di parlarmi a una condizione: niente nome e nessun dettaglio che potesse rivelarne l´identità. Era uno dei duemila capisquadra della Mirafiori, il primo gradino della gerarchia aziendale. Con vent´anni di "Feroce" sulle spalle e uno stipendio di 600 mila lire al mese. Lui si presentò così: «In Fiat ho imparato tutto e la Fiat è stata la mia prima famiglia. Oggi per me non è più niente». Gli domandai perché. E il piccolo capo cominciò a raccontare, svelandomi un inferno che mi era sconosciuto: «Oggi sto in fabbrica dalle nove alle undici ore al giorno. E ogni giorno mi domando: a fare che cosa? Lei avrà sentito parlare di programmi produttivi e di qualità della produzione. Nell´ambito della mia squadra dovrei occuparmi di questo. Arrivo all´inizio del mio turno, conto gli operai che lavorano con me. So che per fare un certo prodotto, occorrono tot persone. So che per essere venduto, il prodotto deve essere affidabile, avere una certa qualità. So che fare l´interesse dell´azienda che mi paga non è una mia pretesa: è una necessità. In un´altra epoca avrei detto: è il mio dovere. Questo ho fatto in vent´anni di lavoro. Adesso non lo faccio più». "E´ colpa degli operai?" gli domandai. Lui rispose così: «Prendiamo cento operai di Mirafiori. Trenta non vogliono saperne né del sindacato né di niente, faticano e basta. Altri trenta vogliono una politica sindacale democratica e giusta. Venticinque sono in balia del primo vento che tira e non sanno da che parte stare. Su questi premono gli ultimi quindici che sono estremisti e cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e per non far lavorare». "Quindici su cento sono pochi" osservai. Il piccolo capo replicò: «Sì, ma bastano per mandare tutto all´aria se gli altri non reagiscono. Questa minoranza fa quello che vuole. Il loro nemico è il primo capo che hanno sottomano, il caposquadra, uno come me, neanche fossi la controfigura di Agnelli. Tu insisti per mandare avanti il lavoro, per ottenere la quantità e la qualità necessarie. Loro, specie i più giovani, gli ultimi assunti, ti martellano tutti i minuti. Capo, non rompere o ti facciamo sciopero. Capo, sei un bastardo, guarda che sappiamo dove stai e ti prendiamo fuori di qui. Capo, sei un fascista e ti faremo camminare in carrozzella. Capo, che belle gambette hai, ci tieni a conservarle?». «In certi momenti, dalle parole si passa alla caccia al capo. Ecco i cortei interni alla fabbrica. I capi catturati e trascinati qua e là con la bandiera rossa in mano. Devi nasconderti, per non fare questa fine. La caccia continua anche all´esterno della Fiat. Con le telefonate mafiose a casa. Le gomme della tua auto tagliate. Gli agguati con la rivoltelle, gli azzoppamenti, come se fossimo dei vitelli e non degli uomini. Infine i delitti, i dirigenti ammazzati, ultimo, per ora, l´ingegner Ghiglieno». «Così, mese dopo mese, la mia vita è cambiata. E anch´io sono cambiato: ormai sono un prigioniero di Mirafiori. Ogni giorno che vado in fabbrica mi sembra di entrare in una galera. Senza speranza di uscirne. La mattina che hanno ucciso Ghiglieno, ci siamo trovati in un gruppo di capi e ci siamo chiesti: che cosa facciamo?, sino a quando durerà?, dobbiamo ancora adoperarci per tenere in piedi la Fiat? Ci siamo risposti di sì. Ma in tutti c´era la voglia contraria, la voglia di mollare». «Anzi, per dire le cose come stanno - continuò - questa voglia non l´abbiamo più, ci ha abbandonato. Noi capi abbiamo già mollato. Venite in fabbrica a vedere! Se sorprendo un operaio che piglia a calci un pezzo, posso soltanto aspettare e poi raccoglierlo. E se mi accorgo che un pezzo se lo ruba via? Mi giro dall´altra parte per non vedere. La denuncia? Nemmeno a pensarci. Possiamo soltanto ingoiare. La Fiat sta diventando una fabbrica di merda. Esagero? Ma no! Per definire la Fiat oggi, non so trovare un termine dispregiativo sufficiente. I giornali non hanno mai raccontato la verità. Ma lo sapete che nelle vetture e nei cassoni troviamo preservativi usati? Dire che è un casino, è dire poco». Non esagerava, il mio capo squadra. L´operaio comunista poi mi racconterà: «La Fiat Mirafiori è come Porta Portese a Roma. A Mirafiori si vende e si compra tutto: sigarette di contrabbando, collant, viveri, vino, cravatte, radio, musicassette. Conosco un operaio che al turno del mattino entra con trenta brioches e nella pausa va in giro a venderle. Uno dei licenziati faceva da mangiare: ’la mensa alternativa´ la chiamava, duemila lire al pasto. Ci sono anche quelli che scopano. Adesso di donne in fabbrica ce n´è un mucchio. Uno delle linee si prende i quaranta minuti di sosta tutti assieme, si cerca una ragazza e il più è fatto...Soltanto la buonanima di Stalin potrebbe fermarli con la minaccia della Siberia. Forse!». «Come si può resistere a questo caos?», si domandò il mio capo squadra. «Vorrei usare una parola difficile: mi sento spersonalizzato. Anche fuori dalla Fiat mi sento così. Quando qualcuno mi domanda chi sono e che lavoro faccio, non so come rispondere. Sono un capo? No, non lo sono più. Non sono più niente. Non posso prendere decisioni. Non posso punire, se no corro il rischio di farmi sparare. Non posso nemmeno premiare. A volte un operaio mi dice: ’D´accordo, non puoi punire i lavativi che non fanno niente, dà almeno un premio a me che lavoro! ´. Ma neppure questo posso più farlo». «Ho sentito Luciano Lama dire alla tivù che bisogna premiare la professionalità. Non racconti balle! Le colpe del sindacato sono grandi. Dieci anni fa, nell´autunno caldo, si è servito degli elementi più accesi per prendere un certo potere. Mi va bene. Avrei fatto anch´io così. Ma poi non ha saputo liberarsi degli estremisti. Anzi, è corso dietro ai più scaldati, ai più violenti. E questo gli costerà caro». «No, non sono più iscritto al sindacato. Se in fabbrica non lo critico in modo aperto, è solo per paura. Sì, mi diano pure del cagone, ma ho degli estremisti in squadra e non voglio finire al Centro traumatologico. Però non sono di destra. Ogni giorno leggo ’La Stampa´ e ’l´Unità´, per tenermi informato e fare il confronto. So che per troppi anni, alla Fiat, l´operaio è stato intimidito. Ma adesso quelli che vogliono lavorare, e sono tanti, non respirano più!». «A volte c´è da essere disperati" disse il mio capo a voce bassa, come parlando a se stesso. "E io mi domando: come mai nessuno interviene? Poi, se guardo fuori dalla Fiat, mi do la risposta da solo: ma chi mai potrebbe avere l´autorità morale per intervenire? Il pesce puzza sempre dalla testa. E la testa del nostro paese è marcia. Idem la politica, che mi fa spavento». «Mi parli ancora di lei" gli domandai. Lui si strinse nelle spalle: «Che cosa posso dirle? Ecco, per primo le dico che Torino ormai mi fa paura. Non voglio più abitare a Torino. La seconda cosa è che anche il mio lavoro di oggi mi fa paura. Ma perché lo chiamo ancora lavoro? Ogni mattina, quando entro a Mirafiori, mi sembra di scendere in trincea, di andare al combattimento. Non voglio più avere responsabilità. Non voglio più fare il capo. Voglio ubbidire e basta. Così potrò vivere senza rischiare di essere ucciso o sparato nelle gambe». «Mia moglie mi spinge a licenziarmi, a lasciare la Fiat. Sono quasi pronto a fare anche questo. Del resto, che senso ha rimanere qui? La Fiat è un malato che può morire da un momento all´altro. E noi stiamo qui a guardarla crepare, dirigenti e capi, tutti impotenti allo stesso modo. In Fiat non comanda più nessuno, mentre fuori le pistole sparano. Detto questo, è detto tutto!». Così parlava il mio caposquadra nell´ottobre 1979. Dopo di allora, a Mirafiori e nella città che la circondava non mutò nulla, in apparenza. Il terrorismo rosso continuò a sparare, a uccidere, a invalidare. In dicembre, un commando di Prima Linea irruppe in un istituto di amministrazione aziendale e gambizzò, una dopo l´altra, dieci persone: cinque docenti e cinque studenti. Torino e la sua fabbrica sembravano perduti. Poi qualcosa cambiò. Alla fine di luglio del 1980, per volere di Enrico Cuccia, il capo di Mediobanca, in Fiat il potere passò tutto nelle mani di un manager di ferro: Cesare Romiti. Fu l´inizio della svolta. Le sinistre e il sindacato non lo capirono. E seguitarono a sbagliare. Arrivò l´autunno dello scontro finale. A quel punto a vincere furono i piccoli uomini come il mio capo squadra. C´era di certo anche lui nella marcia dei quarantamila, la mattina del 14 ottobre 1980. Giampaolo Pansa